Uomini di finanza, d’armi, politici, di cultura e anche di Chiesa: l’antica dinastia degli Asinari

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Gli Asinari, originari di Asti, furono celebri, nel Medioevo, in gran parte d’Europa.

A partire dagli anni centrali del Duecento e sino alla metà del XV secolo, vari rami della famiglia svilupparono una vasta e fortunata rete di traffici commerciali e bancari.

Casane[1] e banchi di prestito degli Asinari operarono, oltre che in molte città del Piemonte e della Savoia, a Ginevra, a Friburgo, a Orléans, nella Germania renana, nelle Fiandre e in Borgogna (a Serre e in altri luoghi, ma in particolare a Salins, dove i rappresentanti della casata amministrarono a lungo le celebri saline).

Le articolate operazioni mercantili e finanziarie, condotte non di rado in società con gli esponenti di altre importanti famiglie di origine astigiana, fruttarono agli Asinari grandi ricchezze e poteri. Per lungo tempo essi si curarono assai poco delle critiche originate dalla propria intensa e rapace attività feneratizia ma, verso la seconda metà del Quattrocento, i loro traffici subirono un evidente regresso e poi un arresto.

 

Palazzo medioevale Verasis-Asinari, Asti, sorge in via Natta, fra via Milliavacca e via Giobert, oggi Conservatorio Giuseppe Verdi

 

Con i larghi guadagni accumulati in due secoli, avevano acquistato in Piemonte e anche in Savoia e Svizzera, un gran numero di feudi e castelli, diritti e redditi feudali. È probabile, perciò, che a un certo momento si sia reso necessario, per le diverse diramazioni, aderire a un modello comportamentale più consono all’alta nobiltà feudale dell’antico Piemonte (nei ranghi della quale, salvo che in alcune sue specifiche e ristrette enclaves, i mercanti e prestatori di denaro professionisti – per di più in odore di usura – di certo non erano ben visti (e sempre meno bene in progresso di tempo), al contrario di quanto accadeva in altri contesti geopolitici, tra quali, per molti versi, quello genovese).

Del resto gli Asinari non potevano in ogni caso essere considerati dei parvenus, poiché assai prima di avviare i propri commerci risultavano già essere detentori di significativi possessi feudali, come ad esempio il luogo di Casasco, di cui Guglielmo Asinari era signore sul finire del 1100, verosimilmente con qualche anticipo rispetto al momento in cui le casane della famiglia cominciarono a diffondersi in Europa.

Sulle origini della casata si è favoleggiato largamente. Secondo alcuni essa esisteva già ai tempi di Carlo Magno, quando un Asinio degli Asinari sarebbe stato abate della Novalesa. Una leggenda indica quale capostipite addirittura Asinario, condottiero al servizio di Vitige re dei Goti. Tuttavia le memorie e la concatenazione genealogica certe possono essere documentate solidamente in special modo a partire dagli ultimi anni del XII secolo, in Asti.

Nel 1195 una casa astigiana degli Asinari era dimora del podestà; nel 1197 Razone era console del comune e da quell’anno, fino almeno a tutto il Duecento, il cognome non manca praticamente mai tra quelli degli amministratori della potente repubblica astese. Federico Asinari fu alla quarta crociata uno dei capi di circa mille astigiani. Nelle lotte civili che coinvolsero il comune astense tra il declinare del secolo XIII e gli inizi del Trecento, gli Asinari si schierarono in maggioranza a favore della fazione ghibellina.

Fedele all’Impero si era già dimostrato, in epoca precedente, uno dei più autorevoli rappresentanti del nome, Raimondo, che nel 1250 fu investito di Dusino da Federico II. Il favore Imperiale gli consentì, in seguito, di ricoprire importanti incarichi; nel 1259 fu podestà di Cuneo, nel 1272 di Pavia e nel 1274 di Chieri. In campo ghibellino fu personaggio ancor più rappresentativo Folco, vissuto negli ultimi decenni del milleduecento e nei primi del secolo seguente. Tra il 1284 e il 1286 egli fu podestà di Mondovì; nel 1296 venne chiamato dai ghibellini genovesi, che avevano sopraffatto la fazione guelfa, a rivestire la carica di podestà di Genova, che esercitò esiliando e opprimendo gli sconfitti. Rientrato più tardi in Asti provò egli stesso il peso dell’esilio, quando qui predominò il partito guelfo. Dall’esterno della patria fu uno dei capi dei fuorusciti e mise in atto varie azioni, ora militari, ora diplomatiche, per potervi rientrare. Nel 1312, dopo alterne vicende fu, invece, condannato al bando perpetuo.

Dopo avere abbandonato o fortemente circoscritto le attività mercantili, gli Asinari guardarono a ben diverse scelte di vita. Nel frattempo si erano divisi in numerose diramazioni, tra le quali spiccavano quelle dei marchesi di Bernezzo (stemma a sinistra) e dei marchesi di San Marzano (stemma sotto a destra), poi quelle dei signori di Costigliole, dei conti di Spigno e dei conti di Camerano. A questi ultimi appartenne Federico (1528 circa – 1575), singolare figura di soldato e poeta che, maneggiando la spada non meno bene della penna, passò alla storia sia come risoluto uomo d’arme sia come uomo di lettere.

Tra gli Asinari, gli uomini di cultura non erano mancati neppure nei secoli anteriori e tra essi è ricordato Tolomeo che, vissuto tra la seconda metà del XIII secolo e gli albori del XIV, lasciò un inedito commento al De consolatione philosophiae di Boezio, del quale la Biblioteca Nazionale di Vienna conserva una preziosa trascrizione miniata del 1307.

Nello schema genealogico si incontrano importanti prelati che fanno degli Asinari una casata assai significativa pure nella storia della Chiesa: oltre a parecchi altri e altre, spiccano Corrado, che fu vescovo di Vercelli nel 1589, Ottaviano, vescovo di Ivrea dal 1634 al 1638 e Alessandro, che fu arcivescovo di Efeso dal 1846 e primo custode della Biblioteca Vaticana. Ciò nondimeno, la vocazione fondamentale fu inequivocabilmente rivolta, specialmente a partire dalla metà del Cinquecento, al mestiere delle armi. Le cronache militari piemontesi registrano nell’arco di due secoli, tra Seicento e Ottocento, non meno di quindici generali o governatori di città appartenenti alla famiglia, sette dei quali ascrivibili alla linea dei Bernezzo, quattro alla linea dei San Marzano, tre a quella di Burio e uno a quella di Virle.

Tra le città sabaude che ebbero almeno un governatore di questo cognome possono essere ricordate Nizza, Alessandria, Fossano, Asti, Mondovì, Carmagnola, Casale, Acqui, Valenza, Ivrea. La stessa città di Torino ebbe per governatori due membri della casa: nel 1630 Giovanni Michele – del ramo di Virle – e nel 1783 Filippo Valentino, di San Marzano.

La presenza degli Asinari in Torino è attestata, forse per la prima volta, nel 1249, con Lamberto, che possedeva beni in città. Si tratta, però, ancora soltanto di una presenza episodica e discontinua e soltanto nel Seicento si può dire che gli Asinari divengano cittadini, o meglio anche cittadini, di Torino, quando alcuni rami passano a risiedere stabilmente in città. Risale agli anni ottanta di quel secolo la decisione dei San Marzano di dare il via all’edificazione di un ampio palazzo nel centro torinese, di fronte alla chiesa di San Filippo, che era in quel tempo in costruzione. Il marchese Ottavio ne affidò la progettazione a un grande architetto, Michelangelo Garove, nativo di Bissone, in Svizzera, che già operava in Piemonte da un quindicennio. I lavori iniziarono nel 1686 ed ebbero quale risultato quello che può essere considerato uno dei capolavori garoviani. Capolavoro che ancor oggi può essere ammirato in via Maria Vittoria 4: uscendo da San Filippo anche lo sguardo di un distratto osservatore viene attratto dai suggestivi ambienti ideati dall’architetto che, destinati a rappresentare il prestigio dei San Marzano, prospettano sul tempio, in un contesto in complesso non privo di omogeneità dal punto di vista scenografico ed architettonico. Al palazzo, che prima di divenire sede della Carpano passò, in anni relativamente recenti, in proprietà dei Ceriana e poi dei Casana, lavorarono nel Settecento, con decorazioni e sistemazioni – giudicate da taluni non sempre felici o ottimali – Benedetto Alfieri e Francesco Martinez; più recentemente vi lavorò pure Camillo Boggio.

 

«La Tesoriera», settecentesca villa barocca di Torino nel quartiere Parella. L’ingresso principale è in Corso Francia ed è circondata da un vasto parco aperto al pubblico. L’area verde ospita il più antico albero e il maggiore per dimensione della città: un platano di 660 cm di circonferenza del tronco, fu messo a dimora nel corso del XVIII secolo

 

A Torino gli Asinari possedettero anche altri palazzi notevoli come – pur per breve tempo – la villa «La Tesoriera», acquistata nel 1718 da Teresa Gay, vedova del tesoriere generale Aymo Ferrero di Cocconato, il quale l’aveva fatta costruire soltanto qualche anno prima. Un altro prestigioso palazzo, anch’esso dei San Marzano, fu il “castello” di Santa Cristina, che sorge tra Villaretto e Borgaro, pervenuto alla famiglia dagli Isnardi di Caraglio.

Nel 1828 il marchese Giacomo Asinari di Bernezzo rivestì la carica di sindaco di Torino. Parecchi anni prima, al tempo dell’occupazione napoleonica, egli era stato tra coloro che non si erano astenuti dal partecipare attivamente alla vita pubblica. Membro del Collegio elettorale del Po, era stato perfino creato, nel 1810, barone del cosiddetto impero francese, quindi piuttosto in anticipo rispetto altri che solo un paio d’anni più tardi non disdegnarono di provvedersi di un titolo “imperiale”, quando ormai pareva poco probabile a molti che la stella del dittatore còrso potesse rapidamente tramontare. Non appena restaurata la monarchia sabauda, l’Asinari aveva tuttavia ottenuto la nomina a tenente colonnello dei dragoni reali (25 dicembre 1815), era entrato a far parte del consiglio civico di Torino – nel quale sedette poi ininterrottamente tra il 1816 e il 1838 – e nel 1817 era stato promosso colonnello dei cavalleggeri dei Re. Oggi può stupire il fatto che un personaggio chiaramente “compromesso” con il regime napoleonico abbia potuto incontrare, letteralmente “dalla sera alla mattina” non appena avvenuto il cambio della guardia al vertice dello Stato, il pieno favore del sovrano sabaudo. Non è fuori luogo accennarlo, dato che non si tratta di un caso isolato. Il ruolo della nobiltà nella resistenza – attiva o passiva – alla dominazione straniera è ancora, almeno in parte, da mettere a fuoco.  Alcuni storici, analizzando il comportamento e le carriere di molti nobili subalpini, sono addirittura propensi a ritenere che i Savoia abbiano incoraggiato – e in più di un caso se ne ha la certezza – un consolidamento della posizione della nobiltà nelle gerarchie imperiali – nobiliari, amministrative, militari -, per poter contare a tempo debito su alleati influenti, pronti a fare resistenza al sistema dall’interno. La nobiltà rischiava, in caso di radicale astensione dalla vita pubblica, in linea con una scelta coraggiosa ed esemplare fatta da molti, di indebolirsi “politicamente” e impoverirsi senza possibilità di risollevarsi. Non poteva che essere estremamente pernicioso l’effetto combinato dei danni procurati dal dominio francese e di un’astensione che impediva di rivestire cariche civili o militari e di fruire dei conseguenti stipendi, influenza, prestigio.

 

 

Ingresso (sopra) e atrio del Palazzo Asinari di San Marzano in via Maria Vittoria, Torino. Edificato fra il 1684 ed il 1686 su progetto dei Michelangelo Garove 

 

Molti avevano subito sequestri, tutti le ingiurie di un fisco predatore che, all’insegna delle truffaldine fraterne enunciazioni democratiche ed egualitarie, altro non faceva che drenare il denaro e i beni dei piemontesi – privati cittadini, enti, istituti e ordini religiosi che fossero – per trasferirne il frutto al di là delle Alpi. I Savoia avevano bisogno di una nobiltà non emarginata e di popoli non esausti per riuscire a conservare la propria stessa forza, mentre non lasciavano nulla di intentato per recuperare gli Stati usurpati dalla Francia giacobina e napoleonica. Se questo era lo scopo, si può dire che fu raggiunto, riscontrando che dal giorno stesso dell’inizio della Restaurazione, dopo quasi un quindicennio di occupazione, il Regno sabaudo, spossato e defraudato di rilevanti ricchezze, abbia potuto rifiorire rapidamente e senza traumi in tutti campi. Superfluo dire che si parla qui degli anni della Restaurazione e che per poterne parlare come di un’epoca luminosa di riforme e di ripristino e rifondazione sociale, giuridica ed economica del paese, occorre avvertire e sottolineare che si trattò di un tempo che nulla ha a che vedere con la vulgata denigratoria che gli è stata cucita addosso dal qualunquismo storiografico di studiosi asserviti a ideologie o partiti massimalisti e da pedissequi loro emuli e imitatori.

La pace rischiò nuovamente di essere turbata nel 1821, quando parecchi piemontesi e tra essi numerosi giovani ufficiali, sobillati da mestatori interni ed esterni allo Stato, si resero protagonisti dei moti che da quell’anno traggono la propria denominazione. Nel 1821 troviamo anche quattro fratelli San Marzano tra i compromessi: Alessandro, Britannio, Ermolao e, soprattutto, Carlo Emanuele, il quale, dopo il fallimento del tentativo insurrezionale, fuggì in Svizzera e restò in esilio per oltre quindici anni, dimorando per qualche tempo, sempre con stretti rapporti con le sette liberali, anche in Francia e in Inghilterra. Si ritiene che anche il suo esilio, al pari di quello di molti altri – senza contare coloro che scapparono con la cassa del proprio reggimento passando comunque alla storia quali purissimi eroi – sia stato alquanto dorato.

Proprio da alcuni compromessi nei moti è stata inventata e confezionata addosso a Re Carlo Alberto la leggenda del “re tentenna”, dell’ “italo Amleto”, della “sfinge sabauda”, del principe che “voleva e disvoleva” : tutte etichette che servivano, infangando la figura del Re, a tentare – e il successo non mancò anche grazie a una ricchissima bibliografia autocelebrativa –  di camuffare la propria insipienza e il proprio agire a più e più riprese disonorevole. Eppure quest’epopea dei moti, ai quali è dedicata una vasta e capillare opera di glorificazione storiografica, ebbe un brevissimo svolgimento: in tutto e per tutto durò, dalle prime velleitarie avvisaglie ad Alessandria all’indecoroso comportamento a Novara, una trentina di giorni. Alla fine le idealità dei compromessi, spinte da un’onda internazionale, non ebbero la peggio, ma i moti determinarono una frattura nella società piemontese grave. E anche in casa San Marzano di delineò un profondo conflitto generazionale. Il padre dei suddetti fratelli, Filippo Antonio, era fautore dell’assolutismo piuttosto che delle riforme liberali e mal tollerò il comportamento dei figli, anche perché il tradire il giuramento da parte di un ufficiale costituisce un atto che non potrebbe essere più grave. Massimo d’Azeglio, che pure non disprezzava talune istanze, ammettendo che tra i congiurati non mancavano giovani coraggiosi, descrisse lucidamente, parente o amico di molti dei compromessi, quanto gravi furono le insubordinazioni:

«La forma del ‘21 fu d’una rivoluzione militare, che di tutte è la più brutta, la più

corruttrice, la più dannosa per cattivi esempi ed interminabili conseguenze. S’io non stimo

e non amo un sistema, non lo servo; se ho accettato servirlo mentre lo amavo e stimavo, e

se poi a ragione o a torto mi sono mutato, lascio di servirlo. Ma violare la fede data, mai».

Tornando a Filippo Antonio San Marzano, possiamo ricordare che nel 1798 era stato costretto a firmare con il generale Brune la convenzione che dava ai francesi la cittadella di Torino. Dopo la Restaurazione fu ministro della Guerra (1815-1817), poi degli Esteri (1817-1821), gettò le basi e organizzò nel 1815 l’Accademia Militare.

Una via in città ricorda il generale Vittorio Asinari di Bernezzo (Casasco, 1842-Torino, 1923) che fu un soldato ardito e abile. Collocato a riposo nel 1909, fu richiamato in servizio, scoppiata la guerra contro l’Austria, nel 1915, settantatreenne. Il suo valore è attestato anche dalle decorazioni al valor militare che gli furono conferite: dalla croce di Savoia guadagnata nelle campagne del 1866, alla medaglia d’argento nei combattimenti di Zgorevnice nel 1917. Quella di far raccolta di medaglie al valore e di onore era del resto una vecchia consuetudine di famiglia. In meno di un secolo, dalle guerre d’Indipendenza alla guerra d’Africa, altri tredici personaggi della casa meritarono, spesso versando il proprio sangue, due croci di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, sei medaglie d’argento ed otto medaglie di bronzo.

Le tradizioni militari hanno continuato a essere alimentate anche nel secolo scorso, sia attraverso i marchesi di San Marzano sia, e specialmente, attraverso i marchesi Asinari Rossillon di Bernezzo, dei quali Giuseppe Mario (Pinerolo, 1874 – Roma, 1943, nella foto a destra), generale di Corpo d’Armata, fu Primo Aiutante di Campo Generale di S. M. il Re Vittorio Emanuele III che nel marzo del 1940 volle conferirgli il titolo di Duca.

Dei suoi figli Giacomo (1903-1990) fu generale di Brigata aerea, decorato sul campo di medaglia d’argento al V. M. e della medaglia d’oro di lunga navigazione aerea, mentre Germano (1905-1994), colonnello nel Corpo degli Alpini e dei Carristi, ferito e invalido di guerra, fu promosso per merito e decorato al valore delle medaglie d’argento, di bronzo e di due croci di guerra.

Occorre, in conclusione, menzionare ancora almeno il figlio Germano, Vittorio (Torino, 1935-2022), manager in aziende multinazionali, uomo di cultura, autore di una ponderosa, rigorosa e documentatissima storia della propria famiglia (Asinari di Casasco. Una famiglia piemontese che ha operato da Asti all’Europa, dal Medioevo al Risorgimento […], Torino, 2011), oggi ricordato anche per donazioni di fondi archivistici, documentali e fotografici di grande importanza. All’archivio di Stato di Asti ha destinato preziose pergamene medievali riguardanti la famiglia. Al Centro Studi Piemontesi, destinatario e custode geloso di tante memorie e patrimoni culturali del Piemonte, ha invece donato un corpus fotografico eccezionale per consistenza, forza evocativa e qualità, riferito alla storia d’Italia del Novecento, in particolare tra le due guerre. L’insieme è dettagliatamente descritto nel volume Il tempo in posa. Fotografie di storia e di vita tra il Piemonte, l’Italia e oltre (1861-1961), pubblicato dal Centro Studi Piemontesi per far conoscere e valorizzare i propri preziosi fondi fotografici, a cura di Andrea Maria Ludovici e Albina Malerba. Su di esso (che è liberamente scaricabile dal sito del Centro) si è soffermata anche Cristina Siccardi su «Europa Cristiana».

 

[1] Le casane astigiane erano banchi che svolgevano ad Asti, nel Medioevo, attività di cambia-valuta e di prestito su pegno; esse erano attive anche nella medioevale Repubblica di Genova.

 

 

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