Quale natura umana e quale fine ultimo

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Note introduttive al recupero del diritto naturale

«Quid est ius? Ius est ars boni et aequi». Il diritto come sapere mediatore tra etica e politica

 

Nell’argomento precedente (qui) si è parlato del concetto di diritto come sapere mediatore tra etica e politica: il diritto è un prodotto della ragione umana, che essa deduce dalla natura dell’uomo, che a questo preesiste. Si è posto, così, l’interrogativo su che cosa significasse «naturale».

La regola delle cose è nella loro stessa natura; le cose funzionano perché, in un certo modo, la regola del loro funzionamento è ad esse immanente. L’agire segue l’essere o dipende dall’essere (agere sequitur esse). Se la regola di funzionamento delle cose è nelle cose stesse, lo è perché vi è posta da Chi le ha create in funzione di un fine.

La regola e il fine, dunque, in quanto leggi della Creazione, sono innanzitutto di Dio e solo in secondo luogo sono nelle cose create.

Questi principi sono ereditati dal pensiero classico: in primis, per quanto concerne la derivazione della regola di condotta umana dalla sua stessa natura, questo fu chiaro a partire dai primordi del diritto romano; infine il principio ultimo (che è Dio), a cui ogni ente tende, è la trasposizione della Rivelazione alla lex naturalis, su cui la filosofia scolastica si è perfettamente elaborata.

L’uomo, benché creato, si fa a sua volta artefice e la regola della sua “arte specifica” non potrà che coincidere con quella che è in lui in quanto “fatto”, ma, a differenza di ogni altra creatura (eccezion fatta per gli angeli), che opera secondo la sua regola costitutiva senza alcun bisogno di conoscerla, l’uomo, in quanto artefice, agisce secondo la sua regola soltanto se la conosce (e la suddivisione dei vari saperi è strumentale per classificare ogni specifica arte). La conoscenza in questi termini ha la veste di scoperta.

Questa descrizione designa una prima qualità intrinseca della natura umana: il fatto che l’uomo non derivi da sé stesso, ma da una causa anteriore a sé: è, come dicevamo, fatto, ma, allo stesso tempo, anche artefice. Si desume chiaramente che anche il diritto, come forma di sapere, ha necessariamente, oltre ad una base umana, anche una base metafisica.

La qualità propria dell’uomo è la ragione: è questa che gli consente di essere anche artefice e di governare e ordinare, verso un fine, gli istinti.

L’uomo è sinolo[1] di anima e corpo, come insegna Aristotele (384-322 a.C.), dove l’anima è la forma ed il corpo la sostanza; ne consegue che questa unione è gerarchica: l’anima (forma) deve comandare al corpo (materia). Ulteriore conseguenza è che gli istinti, prodotto del corpo, debbono soggiacere alla ragione, prodotto dell’anima razionale. Per potersi sottomettere alla ragione, gli istinti umani non possono essere perfetti e bastanti a se stessi, ma debbono essere carenti, per farsi completare ed indirizzare dalla ragione, a differenza di quanto avviene negli animali, dove l’assenza di anima razionale postula la perfezione degli istinti, che debbono, conseguentemente essere autosufficienti.

Le inclinazioni naturali dell’uomo sono sempre correlate al loro fine, che ne determina il valore e, al tempo stesso, il limite. Vi è, primariamente, la conservazione del proprio essere (la vita) individuale, qualità in comune con gli altri esseri viventi, in forza della quale appartiene alla legge naturale tutto ciò che giova a conservare la vita umana ed è innaturale ciò che ne comporta la distruzione, salvo casi eccezionali correlati a fini eccezionali (si pensi, ad esempio, al martirio). La seconda inclinazione è quella della procreazione, della conservazione collettiva della specie, che trova la sua realizzazione nell’unione dell’uomo con la donna, i quali costituiscono la famiglia, generando una prole.

Troviamo, infine, nell’uomo un’inclinazione verso il bene (bonum est faciendum, malum est vitandum – fare il bene ed evitare il male) che è conforme alla natura della ragione che è propriamente umana. Il bene da fere si caratterizza per il suo oggetto. Al vertice c’è il bene verso Dio: conoscerLo ed amarLo, osservando la Sua legge. C’è, quindi, il bene verso se stessi (oltre all’autoconservazione, personale e di specie, che è strumentale a compiere qualsiasi bene): fornirci di tutti i mezzi spirituali e materiali di cui necessitiamo. C’è, infine, il bene verso il prossimo: giustizia e carità fraterna, anche se la seconda è più un dovere verso Dio che verso il prossimo che ne è solo l’oggetto.

Vi è, infine, l’inclinazione a vivere in società[2]. L’uomo, dunque, avendo la ragione, riesce a scorgere i rapporti di causa e conseguenza delle cose; si unisce all’altro uomo in società di linguaggio e di vita ed è spinto dall’assidua ricerca del vero, perché è da questo che deriva il giusto.

Si parla di inclinazioni e non di istinti perché posseggono un valore umano e non solo animale, né di semplici tendenze temperamentali, perché hanno un valore metafisico e universale, mentre le tendenze sono caratteristiche spirituali delle singole persone perciò variabili e individuali; e non si tratta nemmeno di bisogni (su cui poggia l’analisi hegeliana e marxista dell’uomo in azione), in quanto questi hanno rilevanza sociologica e, perciò, non offrono strumenti gnoseologici per la determinazione della natura umana. Queste inclinazioni sono finalismi esistenziali ed ontologici dell’uomo e che egli trascrive in formule normative oggettive ritagliate sulle inclinazioni stesse[3].

Il problema dei cosiddetti diritti umani, come è avvenuto con le varie Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, è che hanno avuto significato primariamente politico, la loro intenzione era mossa da rivendicazioni sociali individuali, dunque soggettivi e relativi. Il fatto di eliminare il fondamento metafisico delle inclinazioni naturali di cui sono conseguenza i diritti oggettivi e, in ultimo, quelli soggettivi, rende impossibile stabilire la vera giustizia.

Se per la maggior parte degli esseri umani le prime due inclinazioni (conservazione e riproduzione) sono autoevidenti, in alcuni casi, però, non sembra essere così, vedasi l’eresia catara, il cannibalismo, gli aghori (qui) del mondo induista; o, per non citare realtà così estreme e senza andare troppo lontano, vedasi l’ideologia omosessualista che considera l’unione eterosessuale un costrutto sociale artificiale per cui non è necessario tendervi per il bene e lo sviluppo della società.

Sulla terza inclinazione le interpretazioni sono ancora più varie.

Michiel Janszoon van Mierevelt (1566-1641), Hugo de Grot

Le dottrine giusnaturalistiche moderne, partendo dalla constatazione empirista delle diversità dei costumi e delle diverse credenze morali, finiscono per cadere in difficoltà insuperabili. Se la ragione fosse la sola via percorribile per approssimarsi alla conoscenza, sia pur indiretta e mediata, di Dio e della legge morale, il genere umano sarebbe condannato a restare nelle più fitte tenebre dell’ignoranza: solo in pochi, infatti, e comunque in età avanzata, giungerebbe alla conoscenza di Dio.[4]

Il dualismo di Cartesio (1596-1650), che contrappone pensiero (res cogitans) e il corpo (res extensa), rende incomprensibile l’idea di una legge naturale, perché solo il pensiero libero e razionale può accedere all’idea di una legge interiore che regola l’agire umano. Per la concezione classica-tomista, invece, quando si parla di legge naturale o di diritto naturale, il termine “natura” non designa solo il mondo corporeo, ma anima e corpo dell’uomo. E così, ad esempio, l’accoppiamento tra maschio e femmina, cosa che la natura ha insegnato a tutti gli animali, l’ha insegnato, però, in modo diverso per i diversi animali, secondo l’indole di ciascuno[5]. Così nell’uomo la comunicazione dei sessi diviene convivenza d’amore e donazione spirituale consapevole, la procreazione diventa paternità e maternità responsabili nei confronti della prole per l’educazione della personalità.

Il significato della sessualità umana deve essere compreso alla luce della metafisica della creazione e della cooperazione cosciente che l’uomo è chiamato a dare all’opera divina. Lo stesso può dirsi dell’alimentazione che nell’uomo diventa convito; si pensi ad esempio alla legge del digiuno e dell’astinenza per virtù, cose impossibili negli animali.

Si conviene che l’essere umano, in quanto essere dotato di anima e corpo, agisca sia in conservazione del proprio corpo e dei propri averi, sia alla conservazione e per la salvezza della propria anima; la declinazione delle prime due inclinazioni in due sensi opposti ed estremi scema il concetto di naturale: non è sufficiente solo tendere alla conservazione di sé e al soddisfacimento dei propri bisogni materiali, trascurando la propria anima, come non può essere sufficiente badare solo allo spirito, come avviene nelle pratiche di ascesi orientali. «In medio stat virtus».

Si direbbe che gli uomini sono per natura inclini a cose diverse e, perciò, la legge naturale non sarebbe unica per tutti. Ancora una volta possiamo citare Tommaso d’Aquino (1225-1274) quando afferma:

«La legge di natura, quanto ai suoi principi primi e comuni, è la stessa presso tutti tanto secondo la rettitudine quanto secondo la conoscenza. Ma per ciò che riguarda alcuni suoi precetti che sono, per così dire, conclusioni alle quali si giunge muovendo dai principi comuni, ma in una piccola parte di essi può venir meno sia quanto alla rettitudine, per qualche particolare impedimento, sia quanto alla conoscenza, e ciò in quanto la ragione di alcuni è corrotta dalla passione, dalle cattive consuetudini e da cattive abitudini della natura»

Si può facilmente intuire come i principi comuni del diritto naturale siano riscontrabili in tutte le civiltà, non si può dire altrettanto sulle basi epistemologiche.

E ancora Tommaso d’Aquino:

«La vita morale richiede apprendimento tempestivo e non può essere privilegio di pochi, ma data la varietà degli avvenimenti e l’imperfetta conoscenza che abbiamo di noi stessi, non possiamo conoscere pienamente le cose di cui abbiamo bisogno: poiché, come dice la Scrittura [Sap 9,14] “i ragionamenti dei mortali sono timidi, e incerte le nostre riflessioni”»[6].

Tommaso d’Aquino afferma che abbiamo bisogno di essere guidati e protetti da Dio: poiché il giudizio umano è incerto, era necessario che Dio rivelasse agli uomini la Sua legge, per evitare che cadessero in errore. Per questo motivo San Tommaso parla sia di diritto che di legge naturale: perché se nel primo caso i principi oggettivi sono desumibili dall’essenza stessa delle cose, per via razionale e naturale, la seconda, appunto la legge divina, obbliga all’osservanza e al riguardo dei suoi principi assoluti.

Attraverso la legge divina positiva, Dio ordina gli atti umani alla loro felicità più alta e tale consapevolezza non può venire che dalla Fede, ai cui precetti si deve la possibilità dell’universalizzazione della vita morale. Ma la Fede, lungi dall’essere una conquista umana o un atto del tutto libero della volontà umana, è un dono gratuito di Dio, tramite la Sua Grazia.

La terza inclinazione declinata anche come ricerca della felicità è ciò a cui tutti gli uomini per natura tendono. Accade, però, che gli uomini confondano la propria felicità con le ricchezze, l’onore, la gloria, il potere, il piacere e così via e che finiscano per volgere erroneamente a tali idoli la loro volontà confondendoli con la vera felicità.

È impossibile che la beatitudine dell’uomo sia in qualche bene creato. Niente può acquietare la volontà dell’uomo, se non il Bene universale. La ricerca assidua, infatti, di un bene particolare dopo l’altro, senza termine, genera insoddisfazione e infelicità, perché, non essendo universali, non soddisfano la naturale esigenza di assoluta beatitudine dell’uomo.  E la beatitudine perfetta non si trova in nulla che sia creato, ma solo in Dio. E, dunque, solo Dio può appagare la volontà di bene dell’uomo. Le creature, ossia i beni particolari, hanno la bontà solo per partecipazione.

Tutto quello che vogliamo in questa vita, compresa la nostra felicità naturale e imperfetta, lo vogliamo in ragione del fine ultimo, della felicità perfetta, che è causa e motore di ogni movimento della nostra volontà. Se non ci fosse un fine ultimo nessuno dei fini intermedi potrebbe essere desiderato. In sintesi, se non ci fosse una causa finale definitiva del movimento, il movimento stesso non si innescherebbe, non ci sarebbe alcuna appetizione e nessuna azione avrebbe mai un termine (e senza termine determinato non c’è azione).

 

 

[1] Unione che dà completezza, dal greco σύνολον, composto di σύν=«con» e ὅλος=«tutto».

[2] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.94, a. 2.

[3] Cfr. Reginaldo Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso D’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2000, pp.494-495.

[4] Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, lib. 1, c.4, n.4.

[5] Summa Theologiae, q.54, a., ad.3 (Coniunctio maris et feminae dicitur esse de iure naturali, quia natura hoc omnia animalia docuit. Sed hanc coniunctionem diversa animalia, diversimode docuit, secundum diversas eorum condictionem).

[6] Summa Theologiae, I.II, q.109, a.9 co., trad. Centi/ESD.

 

 

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