Maestro, come è avvenuto il Suo incontro con l’Opera lirica?
Sono un assiduo fruitore di musica d’arte in tutte le forme, dal repertorio sinfonico a quello operistico, dalla musica da camera a quella sacra. L’opera mi ha sempre affascinato perché rappresenta il perfetto connubio fra le arti performative e quelle figurative, in un equilibrio sublime fra musica, canto, recitazione e danza insieme alla scenografica e quindi a pittura e scultura, sartoria e tutte le arti applicate. In casa si ascoltavano arie d’opera, quando ero bambino.
Quale criterio ha usato nel selezionare i molti soggetti pittorici di cui è autore per esporli sulla scena di «Tosca» al Teatro Coccia di Novara?
La narrazione scenica dettata dal libretto e dalla tradizione ha imposto un’aderenza pregnante alla storia e pertanto ho ritenuto opportuno scegliere le mie opere con iconografie e soggetti coevi e precedenti ai fatti, poco dopo la caduta della prima Repubblica Romana. In questo caso il dato cronologico è talmente pregnante da far risultare inopportuno qualsiasi tentativo di attualizzazione, come di sovente si fa nelle moderne riproposizioni della Tosca, traslata cronologicamente persino nella contemporaneità. Operazione a mio avviso bizzarra e irrispettosa verso i librettisti ed il compositore, perché snatura il significato dell’opera con il solo scopo di risultare innovativi.
C’è stata una particolare attenzione e cura nell’allestire la Basilica di Sant’Andrea della Valle, così come per proporre la liturgia e i paramenti sacri. Quale il Suo contributo in questo senso?
La conoscenza diretta e partecipata, ormai da anni, della liturgia tridentina, quelle che in modo semplificativo si definiscono le Messe in latino, mi ha facilitato di molto la resa di un impianto scenico che richiamasse le atmosfere e le strutture degli altari preconciliari, seppur non riproponendo pedissequamente le forme della basilica romana dei teatini. Ho adattato gli altari al palcoscenico del Teatro Coccia, calando le mie pale d’altare, dipinte realmente per diverse chiese europee, da Milano a Lugano, nelle scene del primo atto. Non potendo rievocare gli affreschi di Mattia Preti del presbiterio di Sant’Andrea della Valle, ho ricordato il santo Apostolo, inserendo il mio sant’Andrea dipinto per una collezione privata di Malta.
Ho prestato particolare attenzione alla struttura dell’altare tridentino in cui nulla è lasciato al caso, seppure con qualche licenza dovuta a motivazioni sceniche.
Ho voluto che in tutti e tre gli atti ci fossero alcuni miei dipinti con l’Arcangelo san Michele (tra cui due inediti), perché fossero un preludio alla scena finale con Tosca e Cavaradossi a Castel sant’Angelo, in cui troneggia la celebre scultura bronzea della fortezza sul Tevere.
Tosca di Giacomo Puccini, primo atto, le foto sono state gentilmente concesse dall’Ufficio Stampa del Teatro Coccia di Novara
Fra i tanti chierichetti erano presenti anche delle bambine, come mai?
La presenza di alcune bambine durante il Te Deum con Scarpia, nel primo atto, è dovuta al fatto che il coro di voci bianche è formato da bambini di ambo i sessi. Quindi esclusivamente per ragioni canore. Nessuna concessione alle mondane e imperanti teorie sul gender e nulla a che vedere con l’attuale prassi ecclesiale di far servire Messa alle bambine, grottesca parodia in “quote rosa” del chierichetto inteso come piccolo chierico, quindi piccolo prete. Il servizio all’altare, al fianco dei sacerdoti officianti, è prerogativa del clero ma la Chiesa ha stabilito, da tempo immemore, che in mancanza di prelati fosse demandato ai laici maschi, perlopiù bambini, per l’appunto i chierichetti. Posto che non esista e mai potrà esistere il sacerdozio femminile, appare assurdo l’uso delle “chierichette”. Fuor di polemica, nella nostra Tosca non si intendeva di certo alludere a questa bizzarra prassi ecclesiale modernista.
Tosca, primo atto
Il pittore figurativo e metafisico Principe Enrico d’Assia, figlio della principessa Mafalda di Savoia, fu anche valente scenografo e costumista di opere teatrali. Quando gli chiesi quale era stata l’opera per la quale si era impegnato e che gli era rimasta maggiormente nel cuore, rispose: la «Turandot», andata in scena nel 1965. Dunque un’opera di Giacomo Puccini. Che cosa rappresenta al pittore e oggi anche scenografo Gasparro il grande e immortale compositore toscano?
Puccini è certamente uno dei più popolari e geniali compositori italiani, simbolo stesso dell’opera lirica nel mondo. Confrontarsi con un titano rischia di far cedere alla soggezione. La Tosca, però, mi ha messo alquanto in crisi sul piano contenutistico perché dovevo inserire i miei dipinti in tre differenti scenografie che richiamassero le vicende storiche, amorose e artistiche di un altro pittore, il bonapartista Mario Cavaradossi legato alle istanze rivoluzionarie della deposta Repubblica Romana, in quella che ad ogni buon grado appare come un’opera dai connotati velatamente anticlericali e, se non altro, rivoluzionari. Lo spettatore è portato a solidarizzare con Tosca e Cavaradossi e a ritenere il malvagio Scarpia come un rappresentante della tirannide da rovesciare. Poco importa se il barone faccia parte della polizia borbonica. Resta associato al potere temporale della Chiesa, sempre osteggiato dalle forze giacobine, massoniche ed anticlericali. Il mio disagio è stato vinto lasciando troneggiare, al centro della galleria di Palazzo Farnese, nel secondo atto, il mio papa Pio VII Chiaramonti, il grande pontefice esiliato dai napoleonici ed eletto in Conclave a Venezia, perché Roma era assediata dalle truppe francesi, proprio nell’anno in cui è ambientata la Tosca, il 14 marzo 1800, quindi dopo la morte nell’esilio francese del suo predecessore Pio VI Braschi. Le vicende della Tosca si articolano il 17 giugno 1800, poco dopo la battaglia di Marengo.
Gli ambienti dei tre atti della «Tosca» diretta da Renato Bonajuto sono stati meravigliosamente predisposti. Quanto, secondo Lei, la bellezza e la nobilitazione di ciò che viene rappresentato, incide sulla resa di un’Opera teatrale?
Come detto, nel teatro d’opera tutto concorre all’edificazione dello spettacolo e della fruizione. Ogni aspetto acustico-uditivo e percettivo a livello visivo struttura il risultato finale. Per questo ogni maestranza deve mettersi a servizio del bene comune e collaborare per la buona riuscita dello spettacolo. Ogni nota dissonante, ogni bizzarria risulterebbe lesiva verso questo equilibrio. Sarebbe come avere un musicista stonato nell’orchestra. Fortunatamente, per questo mio debutto come scenografo, ho avuto il grande privilegio di lavorare con maestri di comprovata esperienza, misuratisi con grandi produzioni nei principali teatri europei. Coadiuvato dall’altro scenografo, Danilo Coppola, e in perfetta sinergia con il costumista Artemio Cabassi, ho lavorato in perfetto connubio con il regista Renato Bonajuto. Un arricchimento vicendevole in cui io avevo tutto da imparare ma che ha funzionato sin dalle battute iniziali. Bonajuto ha fortemente voluto il mio coinvolgimento, insieme al direttore del Teatro, Corinne Baroni. Ne ho compreso le ragioni immediatamente perché siamo in perfetta sintonia. É come se avessi lavorato con Renato per lunghi anni. Anche la direzione d’orchestra del maestro Fabrizio Maria Carminati è risultata speculare rispetto alle nostre visioni sceniche.
Tosca, secondo atto
Perché oggi, spesso e volentieri, assistiamo ad allestimenti pauperizzati, freddi, talvolta glaciali, “insapore” e “inodore” anche negli stessi costumi, resi artificialmente e anacronisticamente contemporanei, o addirittura “alienizzati” rispetto ai testi originali?
Il mondo del teatro, in questo, è così affine a quello museale che conosco meglio. Registro una sorta di odio di sé, un rinnegamento della tradizione esercitato per mero spirito dissacratorio, per provocazione autoreferenziale, per suscitare spiazzamento. Non c’è l’umiltà di mettersi a servizio dell’idea primigenia del compositore e dei librettisti, snaturando, di sovente, l’intera narrazione anche sul piano storico. Il pubblico questo lo percepisce chiaramente. Certe operazioni sono apprezzate solo da una critica miope. Assistiamo a forme di minimalismo asettico così simili alle moderne liturgie cattoliche, sempre più depauperate sul piano formale e teologico. Si ripete spesso che procedere per sottrazione, eliminando gli orpelli, possa far recuperare il senso più vero di un’opera d’arte performativa. A mio avviso questo non sempre è vero e non sempre è possibile, sul piano concreto. Tosca è fra gli esempi più calzanti.
Siamo anche nell’era della “cancel culture”, in cui persino i libretti delle opere, se ritenuti politicamente scorretti, sono suscettibili di censura e modifiche arbitrarie. Così la Carmen di Bizet può anche sopravvivere al “femminicidio” e il Flauto magico di Mozart può essere epurato della parola “negro” e dei passaggi ritenuti misogini, come successo in Olanda. Tutto il liberale Verdi è potenzialmente oggetto di censura, dal colore della pelle di Otello all’Ave Maria della stessa opera, dagli appellativi su Allah ne I lombardi alla prima crociata, sino al coro degli “zingari” de Il Trovatore o il “mestiere” de La Traviata.
Tosca, secondo atto
Essendo venuto in contatto con il mondo operistico che cosa ne ha apprezzato in particolare?
Questa produzione ha avuto una gestazione lunga e sofferta per via delle limitazioni governative e pandemiche. Tre anni di attesa ne hanno scompaginato più volte l’assetto. In questo periodo ho compreso che, per certi versi, avere un’unica figura in regia che curasse scenografia, costumi e luci, sarebbe auspicabile, a meno che non si collabori con maestranze convintamente concordi sulle questioni sostanziali.
Ho apprezzato molto questo tipo di collaborazione, la possibilità di operare in senso corale, pertanto così diverso dal mio modo di procedere abituale, in piena solitudine, nel mio studio di pittura. Questo aspetto è, per certi versi, croce e delizia. Ho apprezzato certamente la possibilità di raccontare storie, quindi trasmettere messaggi, un po’ come avviene al cinema o in pittura.
Pensa che la Sua esperienza come scenografo, viste anche le eccellenti risposte di pubblico e di critica nel debutto novarese, possa ripetersi?
I trionfi critici e di pubblico possono abbagliare e spingere verso passi falsi. Resto maggiormente ancorato alla mia arte pittorica. Non saprei concepire il mio atto creativo in altro modo. Amo definirmi un pittore prestato occasionalmente al teatro o al cinema (in passato avevo ceduto una mia opera per la scenografia del film Saturno contro di Ferzan Özpetek) anche se è un’esperienza esaltante sul piano creativo e che ripeterei molto volentieri. Ci sono stati molti pittori del XXI secolo che hanno vissuto esperienze analoghe, da Picasso a De Chirico e Casorati, pertanto mi sento in buona compagnia. Mi è già giunta qualche proposta per nuovi progetti ma è prematuro parlarne pubblicamente.
A quale opera lirica o, perché no, anche di prosa drammaturgica desidererebbe dedicarsi?
Mi misurerei ben volentieri con tutto il repertorio operistico del XVIII e XIX secolo, soprattutto romantico e veristico. Naturalmente alcune opere sarebbero più vicine alla mia sensibilità pittorica. Mi piacerebbe moltissimo cimentarmi nel tardobarocco, da Vivaldi ad Händel, da Cimarosa al mio conterraneo Piccinni. Ovviamente Mozart, soprattutto la trilogia con Da Ponte. Amo molto Mascagni, ma non saprei rinunciare a Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi e Giordano. Insomma, sono un po’ bulimico, in questo senso. Se dovessi scegliere sul piano contenutistico, più che su quello musicale, la mia prima opzione sarebbe Le Dialogue des Carmélites di Poulenc, tratto dal dramma di Georges Bernanos, rielaborazione del romanzo di Gertrud von Le Fort. La vicenda è quella del martirio delle sedici monache beate carmelitane di Compiègne, ghigliottinate nel 1794 dopo la Rivoluzione francese per non aver abiurato la Fede, rinunciando ai voti, oltraggio pagato con il sangue ai giacobini anticlericali, durante il regime del Terrore. Soggetto che da anni spero di riuscire anche a dipingere per un altare, prima di vederlo in scena a teatro.
Tosca, terzo atto