Un segno che lascia il segno

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I segni sono fondamentali nella nostra vita umana. Essi sono simboli che richiamano ad altro, e devono essere chiari per orientare i nostri atti. Esiste persino una scienza, una disciplina nelle università che studia i segni, la semeiotica.

Per fare un esempio, basta pensare ai cartelli stradali. Se viaggiando in macchina un cartello mi indica che ci sarà una curva pericolosa a sinistra dopo cento metri, dovrò rallentare e usare prudenza. Se invece accelero e prendo la curva in modo vertiginoso, se poi finisco fuori strada non mi dovrò lamentare, perché ero stato avvertito. Un altro esempio facile da capire: se giro per strada e non riesco a trovare la via che cerco, e vedo un vigile urbano in piedi all’angolo, andrò da lui a chiedergli aiuto per avere le indicazioni giuste; ma avrò riconosciuto che quella persona è un vigile dal “segno” della divisa: se egli fosse stato in borghese non l’avrei saputo. Poi ci sono segni più indefiniti, diciamo poetici. Per esempio un’alta montagna, una cima impetuosa che rapisce la mia attenzione, facilmente per me può diventare richiamo di altra realtà: del cammino verso l’infinito, di Dio, della maestosità della vita, ecc. Così anche un mare in tempesta, così un tramonto incantevole, così lo sguardo innocente di un bambino: sono di per sé cose neutre, ma che richiamano e rimandano ad altro di bello ed elevato. La beata Benedetta Bianchi Porro, anima veramente spirituale e mistica, verso la fine della vita affermò che «per chi crede tutto è segno». Se dunque tutto rimanda ad altro (e la beata romagnola con la parola “altro” intendeva Dio), allora è da credere che per elevarci a Dio basta considerare tutte le cose che vediamo e che ci accadono quotidianamente.

La Chiesa, che ben sa queste cose essendo maestra di vita, ha sempre fatto uso dei segni e dei simboli, e in maniera abbondante. Entrate in una cattedrale; già l’architettura richiama ad altro: sarà l’arditezza della struttura gotica, sarà la compostezza e sacralità del romanico, sarà l’abbondanza del barocco, già all’ingresso della chiesa l’anima viene sbalzata e sollecitata ad “altro”: siamo davanti a dei segni che parlano. L’altare rimanda e richiama il sacrificio, le candele richiamano alla luce della resurrezione, le decorazioni rimandano alla bellezza della preghiera e dell’adorazione, il silenzio stesso richiama all’interiorità. Per non parlare dei dipinti, delle vetrate: le chiese non sono dei musei, ma dei solenni e potenti rimandi e richiami a Dio.

Ora, quello di cui voglio parlare in questa puntata, è del segno della veste sacerdotale. Il prete una volta vestiva da prete, la tonaca lunga fino ai piedi, alla don Camillo tanto per intenderci. Non la toglieva mai, nemmeno per giocare a pallone coi ragazzini all’oratorio. Un prete lo si vedeva da lontano e la gente diceva: “Ecco, quello è un prete”. Il motivo di questo vestire ecclesiastico è semplice: il sacerdote è un uomo “pubblico”, si identifica con la propria missione, non è prete “ad tempus”, solo quando celebra la Messa o sta in chiesa; lo è anche quando è in strada, viaggia in treno, compra chiodi e viti dal ferramenta. Ed è giusto che anche in questi luoghi pubblici la gente sappia che quello è un prete, sia per dare gloria a Dio, sia perché magari ci può essere qualcuno che abbia bisogno del sacerdote in quel momento. Dare gloria a Dio significa che il ministro ordinato è segno e strumento di Dio anche senza predicare o compiere atti propri del sacerdozio. In una realtà che tende sempre di più al profano e alla scristianizzazione, a volte basta la visione semplice di un sacerdote che cammina per la strada per richiamare il mondo al fatto che Dio esiste (il Dio della Chiesa cattolica, intendiamoci, ossia l’unico che ci sia). La semplice presenza, anche silenziosa, del sacerdote in tonaca, è una parola, una predica, una voce.

Da qualche decennio la tonaca è caduta in disuso, senza che vi sia stato alcun ordine preciso delle autorità della Chiesa, un decreto, un documento, e in un primo momento fu sostituita, chissà perché, dal clergyman, ossia dalla giacchetta e pantaloni, con il segno del collarino bianco. Poi arbitrariamente è stata abbandonata anche quella veste, sempre senza alcuna direttiva della Chiesa, e molti sacerdoti oggi vestono ordinariamente in borghese, senza alcun segno sacerdotale. Magari in giacca e cravatta, elegantemente. Magari trasandatamente. Ma è normale… nessuno dice più nulla.

Interessante notare questo: se un musulmano gira con la veste lunga, secondo la sua tradizione, se un indiano veste pure la veste fino ai piedi e magari col turbante, nessuno dice niente. Anzi, questo può destare anche un certo senso di ammirazione. Se invece un prete oggi gira con la tonaca, viene criticato universalmente, e prima di tutto dai suoi confratelli sacerdoti che amano vestire in borghese. La tonaca lunga nera è urticante, dà fastidio, crea disagio, imbarazzo.

Stessa cosa, in parte, per il velo che ultimamente alcune donne indossano in chiesa. Prima del Concilio Vaticano II era normale che la donna in chiesa mettesse il velo. Poi è stato eliminato e ora ci sono alcune signore, anche giovani, che l’hanno rispolverato e in chiesa lo indossano. Apriti cielo! Vietato. Queste donne vengono tacciate di esibizionismo, di arcaicismo. Alcune vengono sgridate dai sacerdoti o sacrestani e viene loro intimato, anche davanti a tutti, di toglierlo. Dicono che non si deve tornare al Medio Evo. Scrive in proposito Domenico Giuliotti: «Non dite che vogliamo tornare al Medio Evo. Il Medio Evo è appena finito, se pure è finito. È storia di ieri l’altro. Noi vorremmo tornare assai più addietro nei secoli; al di là del Golgota, al di là del Giordano, al di là di Ur in Caldea. Abbiamo una nostalgia inguaribile per il Primo Evo: e la nostra epoca è quella che fu la vigilia del Diluvio universale[1].

Certi cattolici moderni non sopportano questi segni, ed è da credere che se potessero toglierebbero anche altri segni in chiesa come quadri, statue, candele, luci, eccetera. Tale desertificazione è “segno” (ancora questa parola!), sì, ma di protestantizzazione, che riduce poi la fede ad una gnosi, alla nullificazione della liturgia, alla secchezza della preghiera e all’azzeramento della devozione. Come se la fede fosse solo qualcosa di intellettuale e non avesse bisogno invece di essere continuamente confortata e vitalizzata dai segni propri della Tradizione.

Naturalmente questi cattolici diranno che tali segni non sono necessari, che quello che conta sono altre cose come la coerenza, la carità, l’esercizio della solidarietà, eccetera. Tutto vero. Ma se chiediamo loro: “Dimmi un po’: in fondo, che fastidio ti dà se un prete veste da prete? Che fastidio ti dà se una donna in chiesa si copre il capo?”, non sapranno rispondere. Perché la risposta è oltre. Il fastidio che essi provano è “segno” (ancora lui!) dell’odio di Satana verso Cristo, e tutto quello che richiama Cristo è visto dal demonio come qualcosa di pericoloso, quindi da eliminare. Aveva ragione san Paolo: il combattimento non è contro le creature di sangue, ma contro le potenze dell’aria (Ef 6,12). È il demonio che non sopporta i preti, in generale, e tanto meno sopporta quelli che non hanno timore di mostrarsi tali anche con la talare.

La nostra risposta allora non può essere che quella della reazione, che poi è continuare a fare quello che si è sempre fatto nella Tradizione. Occorre sostenere i sacerdoti che vestono la talare a portarla con grande senso di onore e dignità, ai religiosi di non vergognarsi del loro saio, alle suore di non dismettere i loro segni sacri nel vestire.

Non è certo dogma di fede, e Gesù non vestiva come don Camillo, ma il mondo ha bisogno di vedere dei segni che richiamino la presenza di Dio, per entrare poi nel Mistero e a riavvicinarsi alla grazia. La dignità del sacerdote è straordinaria: merita che sia riconosciuta con un segno potente. La dignità della santa Eucaristia è straordinaria, merita che sia riconosciuta con un segno (quello del velo). Pensare il contrario è mettersi in compagnia con Lutero, e questo noi lo rigettiamo, perché la Chiesa è cattolica, vera, santa, una, apostolica ed è ricchissima di segni che insistono a portare nel mondo richiami continui della presenza di Dio.

 

 

 

 

[1] Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, Dizionario dell’Omo salvatico, Ediz. Vallecchi, Firenze, 1923, pag.10.

 

 

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