I temi educativi, riguardanti la crescita dei bambini nella famiglia e nella società, si presentavano, fino ad un anno fa, con una problematicità sui cui margini poteva fondarsi l’ottimismo progressista intorno alle nuove generazioni tecnologiche, gratificate dai social e dalle famiglie arcobaleno.
Questa visione ideologica, che già trascurava i gravi problemi reali a favore del paradigma dei diritti, tra i quali quelli del bambino erano gli ultimi ad essere considerati, è stata pienamente smascherata nella situazione pandemica.
La condizione dell’infanzia e dei ragazzi in questo anno è stata sottovalutata e rimossa, ma ciò non in contrasto, anzi in continuità col degrado educativo e formativo pre-pandemia; anzi si può dire che quest’ultima viene a dare copertura ai disastri pluriennali della scuola, e a confondere nella generale frustrazione e disagio il ben più grave danno che stanno subendo i bambini e i ragazzi, a cui sono stati tolti tempo, spazi e modi della crescita e formazione.
L’attuale situazione viene quindi a favorire il sistematizzarsi di tendenze già insite nella società, e normalizza nell’emergenza i processi in atto, tutti nel segno della repressione della naturalità del bambino, di sopravvivenza della famiglia solo come centro di consumi, di liquidazione delle comunità e di ogni spontaneo aggregarsi delle attività e delle persone.
Tali processi appaiono saldati in un progetto complessivo, che passa dalle burocrazie di organismi e fondazioni internazionali alle istituzioni e amministrazioni, fino ai media e alla pubblicità:
– manipolazione biotecnologica ed eugenetica sin dal concepimento, pianificazioni abortive;
– banalizzazione dell’allattamento artificiale e della nutrizione industriale;
– istituzionalizzazione e delega della cura e dell’educazione con svalutazione della figura paterna;
– normalizzazione della preconizzazione sessuale in chiave gender;
– promozione della tecnologizzazione digitale estesa alla scuola;
– sicurizzazione deresponsabilizzante affidata alla tecnologia;
A questa istituzionalizzazione del degrado morale ed educativo della società, si accompagnano –e non a caso– il consumismo ad alta nocività (cibi, vestiario, videogiochi, dispositivi elettronici ecc.), e la sovraesposizione mediatica ad un immaginario di violenza e di pornografia, ufficialmente deprecato, ma di fatto legittimato dai media.
La gabbia ideologica del politicamente corretto
L’addestramento omologante va, quindi, oltre l’educazione repressiva o lassista, per collocarsi in un’area ambigua di discredito della famiglia, di delega all’istituzione, a sua volta disgregata, inefficiente se non inesistente; quello che resta è una gabbia ideologica, istituzionale e mediatica, col liberalismo dissennato dei mezzi (biotecnologia, tecnologia digitale, ecc.) e il totalitarismo dei concetti (eugenetica, teorie gender, politiche pro LBGT, ecc.); essa s’impone già nell’area prenatale e si completa entro l’adolescenza, che non è più fase evolutiva e di emancipazione, ma di fissazione e ripiegamento del processo su sé stesso.
Ciò avviene in contrasto con le acquisizioni scientifiche sulle fasi e le esigenze della crescita del bambino che richiamano l’attenzione sulla prima fase di essa, a partire dall’autoidentificazione generazionale, al rapporto fisico e costante con la madre, alla presenza del padre come figura caratterizzata non intercambiabile, alla sicurezza affettiva con stabilità del nucleo con padre e madre, fino ad un ambiente che favorisca gioco, moto, esperienze, relazioni spontanee. E a fronte di ciò, cosa è avvenuto ed avviene? Assistiamo da anni ad una crisi delle famiglie indotta e aggravata dalla situazione economica, alla lobotomia televisiva da esposizione precoce e continuata, ai danni fisici derivanti dalla sedentarietà e dall’uso e abuso dei dispositivi digitali, e ai danni psicologici quanto alla percezione di sé, le relazioni con gli altri, il linguaggio.
Ma questi sono gli stessi fenomeni resi “inevitabili” dal confinamento e dalla chiusura delle scuole, dei centri culturali, ricreativi e sportivi! Danni che sono presentati come un disagio provvisorio, un male minore; ma che fino a ieri sono stati diretta conseguenza delle “politiche”, che da una parte hanno assunto i mezzi come neutri, gestibili, dall’altra hanno imposto in forma intollerante e totalitaria il conformismo delle idee e dei comportamenti al politicamente corretto.
Indifferenza agli esiti, interventismo gender
In varie ricerche a livello internazionale sono stati definiti e quantificati, con parametri e dati statistici, gli esiti di anni, se non decenni, di scadimento dei sistemi scolastici e delle abitudini di vita, per l’invadenza della televisione, dei social e dei dispositivi digitali, a fronte del venir meno di spazi, ambienti, occasioni sociali e formative a disposizione dell’infanzia e i ragazzi. Psichiatri ed educatori concordano nel definire la dipendenza dai dispositivi digitali un fenomeno assolutamente negativo per i ragazzi, sia per il tempo che esso sottrae alla lettura, allo studio, al movimento nella natura e nello sport, sia per il contesto social virtuale, fasullo, dispersivo e non privo di rischi. Quindi, ciò che oggi viene presentato con allarme come una delle conseguenze della pandemia, non è altro che l’aggravarsi e, soprattutto, il venire allo scoperto di una situazione già endemica.
Considerando il Quoziente d’Intelligenza, diversi studi promossi da organismi scientifici concordano nel rilevare una diminuzione dalla generazione degli anni 70. Tra le probabili cause il cambiamento degli stili di vita dei bambini e dei sistemi educativi: troppo tempo passato alla televisione, videogiochi ecc., poco movimento e relazioni con l’ambiente e le persone, poca o nessuna lettura e anche alimentazione inadatta alla crescita.
In particolare per l’Italia, i risultati dell’indagine 2018 sulle competenze scolastiche (PISA, studio internazionale, a cui aderiscono 72 paesi e 600.000 studenti, effettuato ogni tre anni con lo scopo di valutare le competenze scolastiche di studenti adolescenti in matematica, scienze e reading) hanno segnato un sensibile peggioramento, soprattutto per quanto riguarda la comprensione di lettura e le scienze, rispetto ad una collocazione in graduatoria comunque non brillante. Quanto agli effetti della televisione, già nel 2011 un libro di Michel Desmurget, per esempio, prospettava i risultati di ricerche internazionali sull’argomento, ed oggi le sue conclusioni circa i danni, anche neurologici sui bambini dell’esposizione precoce e prolungata alla televisione, sono quasi scontate.
In che misura in questi anni, il mondo della cultura, le istituzioni, i media, hanno preso in considerazione, discusso, contrastato queste tendenze? Quali investimenti, quantitativi e qualitativi, sulle istituzioni e l’edilizia scolastiche, sullo sport di base, sul territorio, sulle città, per offrire a bambini e ragazzi un ottimale contesto formativo e di crescita? La pandemia ha reso eclatante e drammatico un fenomeno che già era presente in forma strisciante, banalizzata, imposta e subita nei fatti. Ma questa colpevole indifferenza delle istituzioni verso le reali esigenze delle nuove generazioni non è che il rovescio della medaglia dell’ipersensibilità e l’interventismo delle stesse sulle politiche gender e “inclusive”, a sprezzo di ogni valutazione pedagogica e di rispetto delle famiglie. In tal modo la vernice ideologica distrae e maschera le tendenze strutturali alla privatizzazione, lo sgretolamento del welfare e il consumismo globalizzato. L’inadeguatezza della legislazione per i congedi di maternità e le cure familiari ne è la dimostrazione più drammatica.
Assai noto è il caso dell’educazione sessuale nelle scuole, che i burocrati UE propagandano precocissima, con dotazione di kit e sussidi didattici espliciti, ed ovviamente tutta impostata sulle teorie del gender. La banalizzazione del corpo (da cui la mercificazione) si spinge del resto oltre l’immaginabile: sono di questi giorni le notizie circa una trasmissione televisiva nordeuropea di esibizione ai bambini di adulti nudi, con intenti “educativi”.
Senza pudore
L’emergenza della pandemia, anche per la sua durata temporale e le sue conseguenze sociali, economiche, politiche e geopolitiche, segna una cesura storica, ma più probabilmente nel senso di accelerazione, che di riesame e ricerca di vie alternative. A prescindere dagli aspetti strutturali, che spingono verso gigantesche concentrazioni e polarizzazione del Sistema, non sembra infatti che la gravissima congiuntura muti i costumi delle caste politiche e burocratiche, non fosse altro che per dare ad esse il senso delle proporzioni, il pudore che le trattenga dalle farneticazioni del politicamente corretto.
Ed ecco quindi un altro caso di totalitarismo dei concetti, portato all’estremo oltre il ridicolo e il paradossale. Ci riferiamo ad una specie di glossario del “linguaggio sensibile”, pubblicato dai burocrati UE[1], ad uso degli uffici e della comunicazione interna ed esterna, che sembra una parodia, anzi lo è, e sarebbe solo imbarazzante per chi l’ha scritta ed approvata, se non fosse anch’essa l’espressione della gabbia ideologica. Il totalitarismo del linguaggio, che appare nell’immediato più innocuo, manifesta infatti una più sottile perversità, perché pretende di negare le differenze deformandole, e quindi creando nuove discriminazioni a suo mero arbitrio, che è tipico dei regimi totalitari. La neo-lingua UE si sbizzarrisce ovviamente nell’area parentale-gender-LBGT, ma non manca di prescrivere termini circonlocutorii ed eufemistici per segnalare invalidità, malattie, appartenenze etniche e razziali.
Punto di non ritorno
A questo totalitarismo dei concetti esercitato nell’astratto mondo delle parole fa pendant il caso estremo del liberalismo dei mezzi, applicato sul corporea realtà di esseri umani. Si tratta della gravidanza per conto terzi, ovvero gravidanza surrogata ovvero utero in affitto, verso la quale apparati e media professano una sorta di neutralità, come di zona franca, ove non si applica discernimento morale, e la tecnica “è al servizio”, “offre la mediazione” in un atto che si pone come anodino e moralmente irrilevante. Si tratta invero della variante estrema, coloniale, di una variegata offerta tecnologica prevalentemente in funzione della genitorialità omosessuale ideologicamente normalizzata. L’interruzione della sequenza madre-bambino, sempre dolorosa e delicata quanto all’autoidentificazione del figlio, avviene in una transazione commerciale, mediata da procacciatori e agenzie, quindi in una forma di neoschiavismo[2] brutale, magari mascherato di retorica buonista: liberalismo forsennato dei mezzi, ed assordante silenzio dei paladini dell’inclusione e dell’uguaglianza delle opportunità.
È vero che per le teoriche femministe si tratta della transizione a svolte tecnologiche più radicali che, dissolti finalmente i sessi in un flusso indifferenziato, offrano l’oggetto-figlio come un prodotto pari ad un altro sul mercato.
Non ci manca la movida
Uno scenario così pessimista non oscura gli spazi della resistenza al totalitarismo concettuale e dello smascheramento del liberalismo dei mezzi. Se tali totalitarismo e liberalismo operano l’uno in funzione dell’altro, è la realtà, l’integralità della persona, la comunità umana stessa che contrappongono ad essi un’unità più profonda, una verità più luminosa. Se le restrizioni pandemiche possono lasciare dietro di sé una qualche utilità, è nel mostrare dove –letteralmente, nel senso spaziale– vive, cresce, si alimenta fisicamente e spiritualmente, il bambino e l’uomo: nella comunità, nella famiglia inserita nella rete delle relazioni umane, fatte di ascolto, di compagnia, di movimento, di cura, di attenzione; e di rito, di coralità, di ricerca e di esperienza comune del senso naturale e sovrannaturale dell’essere uomo. Forse oggi è più chiaro, perché proprio questo è più difficile, questo ci manca, non la movida, non lo shopping.
Non sono i silenzi collettivi dell’ipnosi televisiva che danno l’unità familiare; non è la virtualità del social che anima amicizie e comunicazione di idee e di affetti veri; non è l’ideologia ad aggregare, ad agire nella realtà secondo verità e per l’interesse di tutti; e non saranno i grotteschi eufemismi dei burocrati UE a creare uno, nemmeno uno in più, gesto di carità, di solidarietà, di amore.
[1] Il documento, segnalato per prima dall’europarlamentare Simona Baldassarre e di cui i media hanno dato notizia con l’ironia del caso, è stato commentato da Roberto Pecchioli.
[2] Sull’argomento vedi v. Il Covile n.491 del 22/1/2019 e Utero in affitto: leggiamo qualche contratto tipo