L’antica ed estinta Famiglia Arborio

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Gli Arborio, ormai da tempo estinti, figurano tra le maggiori famiglie del Piemonte sin dal secolo XI. Originari di Arboro, o Arborio, nel Vercellese, sono una diramazione dei signori di Gattinara, con i quali in realtà si confondono e identificano sin dai tempi più remoti. I Gattinara, a loro volta, ritengono alcuni storici, discendono dagli antichissimi signori di Vintebbio. Gli Arborio formavano nel Medioevo un consortile signorile potente e tanto ramificato da giungere a suddividersi, tra il 1200 e il 1400, in oltre quaranta “colonnellati” che, partecipando tutti alla giurisdizione feudale su Arborio e Ricetto, univano al cognome originario, per distinguersi gli uni dagli altri, un soprannome individuale. Tali “colonnellati” derivavano, in effetti, a giudizio di studiosi autorevoli, più che verosimilmente dallo stesso ceppo, anche se prove ineccepibili al riguardo non sono disponibili. Molti indizi concordanti di differente natura consentono di ammetterlo senza troppe riserve. Vennero così formandosi gli Arborio Gattinara, Arborio Biamino, Arborio Squarra e tanti altri rami meno noti[1].

In progresso di tempo, per alleanza matrimoniale o per aggregazione, parteciparono al consortile e nelle giurisdizioni feudali anche altre insigni famiglie di differenti origini, quali i Mella, Corbetta, Donna e Durante, che in genere unirono, ora anteponendolo, ora posponendolo al proprio, il cognome Arborio.

L’intero consortile degli Arborio fece nel 1404 (7 agosto) dedizione a Casa Savoia. Già in quell’epoca molte linee, per la continua suddivisione ereditaria dei beni aviti, erano (classicamente) decadute e, scrive Antonio Manno ne Il Patriziato subalpino, «vivevano poveramente ne’ castelli sui quali avevano nobile signoria, ma senza frutti». È probabile che talune diramazioni siano sopravvissute, senza più conservare neppure la memoria di un illustre passato.

La famiglia vanta tradizionalmente tra i suoi rappresentanti più importanti e più antichi il Beato Warmondo, o Varmondo, Veremondo, vescovo di Ivrea tra il declinare del Novecento avanti il Mille e il 1011. Superfluo dire che, riferendosi a tempi tanto remoti, gli agganci genealogici non possono essere definiti in modo preciso e ineccepibile e che diversi storici non condividono l’assegnazione di questo personaggio agli Arborio (propendendo per altre ipotesi, in realtà non più meritevoli di credito o facilmente sostenibili e documentabili, talvolta formulate non da storici, ma da sfringuellatori a bacchio). Certo merita sottolineare che, comunque, le memorie certe della casata risalgono con sicurezza agli albori dell’XI secolo, quando ancora il Beato Warmondo viveva. Sono piuttosto palesemente in errore, perciò, quanti sostengono o convalidano che il primo rappresentante sicuro della famiglia sia documentato solo dal 1200. Tuttalpiù si potrebbe ammettere che solo a partire da quel tempo la genealogia cominci a delinearsi sempre più distintamente, emergendo a luce meridiana dalle nebbie documentali attraverso concatenazioni generazionali sempre più solide e comprovabili. A rivendicare – pur non provando nulla, occorre ammetterlo – l’appartenenza agli Arborio dell’antico vescovo, concorsero, di tanto in tanto, i nomi stessi di battesimo dati a rappresentanti della famiglia, come nel caso di quel Francesco Veremondo che, abate di San Mauro, moriva a Torino il 18 settembre 1669. La diocesi eporediese deve a Warmondo la costruzione di varie chiese, il completo restauro della cattedrale di Ivrea e l’edificazione dei due campanili. Durante il suo episcopato il vescovo commissionò a notevoli artisti e miniatori la stesura di codici che tuttora si conservano, costituendo la parte più nota e preziosa delle sue eredità. Celeberrimo è in particolare il Sacramentario da lui commissionato – si ritiene realizzato nel 1002 o nel 1004 o in quell’arco di tempo -, un codice membranaceo di duecentoventidue fogli (quattrocento quarantaquattro pagine decorate da decine di preziose miniature, da numerose lettere iniziali e da altri decori di grande pregio che ne fanno un’opera di immenso valore).

 

Pagine, qui e sotto, del celebre Sacramentario commissionato dal Vescovo di Ivrea beato Warmondo (930 ca.-1011)

 

 

Furono celebri le lotte tra Warmondo, sostenuto dagli imperatori Ottone III ed Enrico II, e il marchese Arduino d’Ivrea che fu da lui scomunicato, nel quadro di un conflitto giurisdizionale lungo e duro.

All’aprirsi del XV secolo si distingue in modo particolare il ramo degli Arborio Gattinara che, tuttavia, dal punto di vista economico non naviga affatto in buone acque, al punto che, confondendo la dimensione patrimoniale con l’essenza storica e le non contestabili radici genealogiche, alcuni storici hanno indebitamente parlato, riferendosi a quell’epoca, di una famiglia di modesta nobiltà.

La situazione cambierà radicalmente negli ultimi anni del secolo grazie a Mercurino (Gattinara 1465-Innsbruck 1530), la maggiore personalità espressa dalla famiglia in tutti i tempi. Dottore in leggi, nel 1483 esercitava la professione legale in Torino «scrivendo comparse in una botteguccia dirimpetto alla chiesa della Trinità». Inviato in Bressa dalla duchessa di Savoia, Margherita d’Austria, fu presidente di Dôle e ne divenne il fidatissimo ministro. Tutelò abilmente gli interessi della duchessa in varie missioni diplomatiche; in seguito passò al diretto servizio della Casa reale austriaca e venne «adoperato in grandiosi negoziati politici» dagli Asburgo. Ebbe qualche ruolo anche nell’edificazione della spettacolare chiesa di Brou, presso Bourg-en-Bresse, “capitale” di una vasta regione allora facente ancora parte degli Stati sabaudi, che Margherita, inconsolabile per la perdita del marito Filiberto, volle gli fosse consacrata, a perenne memoria dell’amore che li aveva uniti.

Si attribuisce a Mercurino un ruolo di rilievo nel futuro imperiale di Carlo V, che lo nominò Gran Cancelliere di Spagna (la prima carica dello Stato dopo l’imperatore). Rimasto vedovo, entrò in religione e fu creato cardinale, nel 1529, da papa Clemente VII. Accumulò enormi ricchezze e possessi feudali: fu conte di Gattinara (che verrà poi eretta in marchesato), Biandrate, Borgomanero, Ghemme, Valenza e Sartirana; marchese di Romagnano, barone di Ozzano e Rivalta; signore di Tonengo, Refrancore, Lenta, Gislarengo e Arboro; ebbe, inoltre, giurisdizioni feudali in Spagna, Sicilia e Francia. Divise il proprio patrimonio tra l’unica figlia Elisa e i nipoti figli di suoi fratelli, dei quali adottò Giovanni Giorgio, con l’obbligo, piuttosto usuale in casi analoghi, per i primogeniti suoi successori di portare il nome Mercurino. Da questo momento vennero formandosi due grandi rami, quello dei marchesi di Gattinara e quello dei conti – e poi duchi – di Sartirana, con personaggi che si distinsero in tutti i campi.

Tra i molti che meriterebbero un cenno particolare, si deve almeno menzionare Ludovico di Breme (Torino 1780-1820) figlio di Ludovico Giuseppe e di Marianna Dal Pozzo dei principi della Cisterna, figura eminente del primo romanticismo italiano. Cresciuto nel clima di fervore intellettuale e culturale che caratterizzò il Piemonte del secondo Settecento – con buona pace di quanti preferirebbero negarlo o oscurarlo perché in generale non collimante né consenziente con le istanze illuministiche, Ludovico aderì con convinzione (come alcuni altri membri della sua famiglia, che in questo assunse un atteggiamento molto atipico rispetto alla maggioranza delle famiglie piemontesi) al regime instaurato da Napoleone Bonaparte, specialmente nella sua effimera declinazione pseudo-imperiale. Al seguito del padre e quale consigliere di Stato del Regno d’Italia napoleonico, si stabilì nel primo Ottocento a Milano, dove fu in rapporto con le personalità più aperte alle innovazioni dell’intellettualità lombarda. Fu in questi anni, e in quelli successivi alla caduta di Napoleone, in stretta relazione anche con celebri letterati stranieri. Tra i molti suoi corrispondenti famosi vi erano Lord Byron, Schlegel, Madame de Staël. Fu il promotore di battaglieri fogli letterari e politici quali la prima testata romantica italiana che inizialmente avrebbe dovuto denominarsi «Il Bersagliere», divenendo poi «Il Conciliatore», che lo fece riconoscere come un grande protagonista degli accesi dibattiti culturali che caratterizzano la vita intellettuale europea della prima metà del XIX secolo.

Anche se il di Breme era allineato, al contrario di altri suoi congiunti e antenati, con l’incalzare dei tempi nuovi e delle eredità postrivoluzionarie, la cifra che caratterizza gli Arborio nel corso dei secoli è ben altra, nonostante egli sia particolarmente celebre e rappresentativo (tra l’altro le sue idee in materia di religione meriterebbero un’ampia digressione). In estrema sintesi, si può dire, infatti, che ci troviamo di fronte a una casata che ha dato soprattutto molti militari, diplomatici, gentiluomini di corte, cavalieri di Malta (almeno undici le appartennero) e, in ogni generazione, religiosi regolari e secolari, canonici, abati e via dicendo o religiose. Moltissime, in particolare, furono queste ultime, sicché si potrebbero elencare numerose monache, specialmente in monasteri vercellesi e torinesi: visitandine, umiliate, canoniche lateranensi, salesiane, clarisse e altre ancora.

Nella storia di Torino il nome degli Arborio compare, nel corso dei secoli, piuttosto raramente; ciononostante la famiglia giocò anche nel passato, specialmente della Chiesa torinese, pur non con continuità, un ruolo significativo almeno a partire dal 1244, anno in cui Giovanni Arborio Gattinara, già abate del monastero benedettino di San Genuario di Lucedio, veniva posto, per ordine di papa Innocenzo IV, a capo della diocesi di Torino. L’Arborio, per la verità, fu tutt’altro che bene accetto ai maggiorenti torinesi e dovette affrontare, sin dal giorno della sua elezione, un lungo conflitto contro il capitolo metropolitano, capeggiato dal canonico Gualfredo di Piossasco, che non voleva avallarne la nomina. Malgrado la fedeltà giuratagli da alcune località diocesane minori, egli non poté neppure mettere piede in Torino per alcuni anni, durante i quali riuscì comunque a svolgere la propria missione, recuperando, tra l’altro, alla Mensa vescovile terre, castelli (Montosolo e Castelvecchio) e diritti di cui era stata spogliata nei decenni precedenti sia dal Comune torinese sia da Amedeo IV e Tommaso II di Savoia. Il vescovo Giovanni vinse la resistenza del clero torinese soltanto nel 1251 e poté finalmente insediarsi in città nel settembre di quell’anno, restando senza più ostacoli pastore dell’importante circoscrizione episcopale (malgrado una rinuncia risalente al 1253) sino alla morte, avvenuta nel 1257.

Sul finire del Cinquecento giunsero in città i Gattinara conti di Zubiena, che degli Arborio costituiscono una diramazione. Questi furono a lungo tra i protagonisti della storia municipale e sono oggi ricordati per essere stati possessori di una bella vigna denominata «il Mondetti», sita in prossimità dell’antica chiesa parrocchiale di San Vito e soprattutto per Luigi Amedeo (che fu per parecchi anni, a partire dal 1816, decurione di Torino) al quale viene attribuito il merito di avere salvato gli archivi di corte dalle rapine napoleoniche.

Nel 1727 gli Arborio diedero un altro pastore alla diocesi torinese, Francesco, che ne fu arcivescovo per diciassette anni. Ne era proverbiale la generosità: dopo la morte si riscontrò nei suoi «libri di famiglia» che aveva distribuito ai poveri di Torino, durante il suo governo, la somma, per l’epoca enorme, di 270 mila lire.

 

 Pergamena originale munita di bolla pendente in piombo, particolare del sigillo e della rota, Papa Clemente VII concede a Mercurino Arborio di Gattinara la dignità cardinalizia (Archivio di Stato di Vercelli)

 

Autobiografia di Mercurino Arborio di Gattinara

 

 

Palazzo del Cardinale Mercurino Arborio Gattinara

 

 

[1] L’elenco, forse completo, delle famiglie discendenti dal ceppo arboriense è fornito nella scheda riguardante gli Arborio nel citato Patriziato subalpino (consultabile anche on-line sia per i volumi a stampa sia per quelli restati inediti, www.vivant.it): oltre a quelle già citate si devono ricordare gli Abbate, Alfei, Agostini, Ardicini, Balzola, Bonsignore, Bozolo, Cadmo, Carpignano, Canalino, Capitanei, de Castro, Causidico, Comero, Facioto, Francesio, Gabriele, Garbolotto, Gaspardo, Gislarengo, Gregis [= di Greggio], Intramonte, Paponi, Paramidesio, Portis, Pretis, Recetto [= di Ricetto], Ricardini, Rogerino, Sapienti, Serafini, Signorini, Spagnoli, Testa, Tetis [anche de Tecto], Tomeno, Udietta, Urbano, Vedano.

 

 

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