La storia di fedeltà a Cristo dei Martiri di Otranto – III

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A questo punto della mia narrazione vorrei mettere in risalto il continuo e reale rapporto che esiste fra la Madre di Dio, la Vergine Santa e il martirio. Non è affatto importante ricostruire che tipo di devozione mariana ci sia stato nel territorio otrantino per dimostrare che Maria è sempre accanto ad ogni figlio della Chiesa, ad ogni uomo, oserei dire, anche se quest’uomo non lo sa, specie nell’ora più difficile. Nel rosario, infatti, per ben 50 volte noi chiediamo che la Madonna preghi per noi «adesso e nell’ora della nostra morte». Il sensus fidei è parte integrante del corpus dottrinale che è stato costruito e trasmesso nei secoli.

Voler ricorrere solo al metodo storico per agganciarci una verità di fede equivale a separare la stessa verità di fede, ovvero il Messia, dal Gesù storico, dando la precedenza, in fatto di credibilità, alla storia, alla documentazione, in definitiva, al dato e non al mistero della fede. «Conosco, dunque credo» è un’affermazione gnostica. In fondo, la stessa quarta stazione della Via Crucis, che pur appartiene alla forma tradizionale, non risulta essere fondata in nessun passo della Bibbia, come anche le cadute di Gesù. Eppure, la Chiesa le prega, le medita e le considera parte imprescindibile del cammino penitenziale che il credente compie nel ripercorrere la Via dell’Uomo divino dei dolori e della Regina dei martiri, in qualità di martire per partecipazione.

Chi segue Gesù, che lo sappia o no, segue Maria e viceversa. Chi si fa schiavo per amore di Cristo diviene apostolo della Vergine e, il più delle volte, se non sempre, avviene proprio per la mediazione della Santa Vergine, Mediatrice di tutte le Grazie. Non mi dilungo oltre sugli argomenti teologici, già ampiamente consolidati, perché è più importante comprendere il ruolo di Maria nel cammino di perfezione Cristiana, che non è altro dalla sequela che ci conforma a Nostro Signore, nei limiti delle nostre capacità di uomini segnati dal peccato originale e dalla condizione mortale. Maria c’entra, c’entra sempre nella sequela di Cristo, anche se non ne siamo consapevoli fino in fondo e fino a che punto. Un bambino non sta a ragionare sul ruolo della mamma, non sta a pensare a chi deve chiedere il latte se ha fame o chi chiamare se è in pericolo, lo fa e basta e, allo stesso tempo, la madre è sempre vigile e attenta al figlio, anche quando il piccolo cresce in autonomia e nella ricerca di indipendenza, spesso ribelle.

Tuttavia, Maria, la più alta fra le creature, ci sorpassa infinitamente nella capacità di portarci al Figlio, in quanto Ella, la più umile serva e schiava d’amore per Dio, non possedeva e non possiede tuttora, che è nella gloria, niente altro che il Figlio e non ci dona che Lui.

Scrive il Montfort nel Trattato della vera devozione alla Vergine[1]: «Gesù Cristo l’ha scelta per compagna indissolubile della sua vita, morte, gloria e potenza in cielo e in terra e le ha dato, quindi, per Grazia, rispetto alla Sua divina Maestà, tutti gli stessi diritti e privilegi che Egli possiede per natura. Dicono i Santi: “Tutto ciò che conviene a Dio per natura, conviene a Maria per Grazia” […] La Vergine santa è il mezzo del quale Nostro Signore si è servito per venire sino a noi; ed è anche il mezzo di cui noi dobbiamo servirci per andare a Lui». Non dobbiamo temere di amare troppo la Madonna, dunque, perché non l’ameremo mai quanto l’ha amata Gesù e non vi è alcun pericolo di mettere in secondo piano Nostro Signore, che è il Mediatore unico fra noi e il Padre, il Redentore, perché affezionarsi tanto a Maria è del tutto equivalente ad amare Cristo. In questo consisteva tutta l’umiltà di Maria: nell’essere totalmente povera di sé, di ego, per essere piena solo di Dio, per questo quando ci si fa davvero schiavi di Gesù, senza saperlo, ci si fa schiavi pure della Vergine, perché Gesù è il frutto della gloria di Maria. Frutto del suo grembo è Cristo a Betlemme, ma frutto del suo grembo è anche il parto di Cristo in noi, quando viviamo e camminiamo verso l’essere a Lui uniti e conformati, cioè verso la Santità e la Santità più alta è il martirio, in ogni sua forma.

San Massimiliano Maria Kolbe, l’innamorato dell’Immacolata, la cui memoria liturgica cade lo stesso giorno del Martirio di Otranto (coincidenza storica?), morto anche lui martire nel bunker della fame, giunse a dire: «Se Maria è con me, chi sarà contro di me?», ed ancora: «Tutto posso in colei che mi dà forza», intendendo dire «tutto posso in Colui che mi dà forza attraverso l’Immacolata».  San Paolo, con quella frase (Fil 4, 13) non espresse un concetto approfondito, lungo e didascalico, ma disse in pochissime parole tutto ciò che occorreva, la sintesi dell’essenziale, ovvero che tutto ciò che mi occorre per conseguire la salvezza e la santificazione me lo dà Dio. San Massimiliano Maria Kolbe ha solo aggiunto che ce lo dà per le mani dell’Immacolata.

Dunque, senza ombra di dubbio alcuno, i Santi Martiri di Otranto, avendo professato più volte la loro determinazione di restare fermi e saldi nella fede di Cristo, il Figliolo di Dio, fino a preferire la morte all’abiura, con il loro “Sì” incondizionato, imitarono in tutto il “Fiat” di Maria sotto la croce, incontrando anch’essi la Madre lungo il tragitto del loro Golgota: il Colle della Minerva.

E in che modo la incontrarono? Nel ricevere dalle sue mani i doni della salvezza: fede invincibile, fortezza nella prova, perseveranza, pazienza, mitezza, mansuetudine, perfetta letizia, carità fraterna – espressa nel chiedersi perdono reciprocamente, infine, nella preghiera prima di rendere lo Spirito al Padre.

Maria era con loro, sin da quando Dio li trasse al mondo, ma nel momento del Calvario si è certamente palesata colei che visse sempre nascosta ma operosa, come serva del Figlio, discepola perfetta, via veloce per ottenere tutte le virtù. I Santi Martiri di Otranto manifestarono al mondo intero l’intera scala della perfezione nell’ascesi di comunione con il Cristo morto e risorto, l’intera scala delle Beatitudini in tempi così brevi da riuscire a dimostrare che la santità conosce un solo ostacolo: i no detti dagli uomini a Gesù e a Maria. I martiri idruntini dissero solo e sempre “Sì” a Dio, fino alla morte e alla morte di croce.

Tra l’altro ci fu quella giovinetta per la quale due turchi si azzuffarono su chi dovesse averla come schiava, che invocò l’intercessione della Vergine per ottenere non la propria libertà, bensì la morte, piuttosto che finire violentata e schiavizzata da uomini. Ottenne subito la Grazia di una spada che la trapassò e la giovinetta, senza nome, sconosciuta a tutti, ma non a Dio, morì con il nome di Maria sulle labbra. Non solo Maria ci ottiene le Grazie, ma ce le ottiene rapidamente perché la preghiera di intercessione di Maria è pura, immacolata, piena di carità e viene esaudita all’istante dal Figlio, come alle Nozze di Cana.

Ci fu un fatto miracoloso accaduto durante l’anno dell’assedio di Otranto e che riguarda la devozione a Maria, uno dei tanti segni che Dio concede ai suoi figli, specie nei momenti della prova. Esso è legato alla statua lignea della Madonna di Otranto, presente nella Cappella in cui giacciono anche le reliquie dei martiri. Si tratta di una statua di una tenerezza incredibile, perché rappresenta Maria Santissima seduta, con il Figlio sulle sue ginocchia, nell’atto di adorarLo a mani giunte. Pochi sanno che a quell’immagine è collegata una indulgenza plenaria concessa da papa Pio IV, nel 1564, a chiunque le faccia visita l’8 settembre di ogni anno. Ma veniamo all’accaduto: pochi giorni dopo la conquista della città, un ufficiale di Maometto II, entrato in cattedrale per razziare quanto poteva, si accorse della statua pensando che fosse in oro zecchino (invece è solo ricoperta di una sottile lamina dorata) e la trafugò in fretta per portarla via con sé, fra i tesori personali, a Valona, in Albania. Una volta giunto nelle sue terre, il turco si accorse che non era affatto d’oro, ma di legno e con disprezzo la gettò sotto il suo letto. Con sé, tuttavia, oltre alla statua e ad altre ruberie, quell’ufficiale portò in casa sua anche una donna otrantina presa come schiava, la quale, vedendo l’oltraggio alla sua Regina a cui era devotissima, iniziò a pregare fervorosamente perché la statua della Madonna ritornasse al suo posto. La moglie del soldato era incinta e, qualche tempo dopo, durante la gravidanza le cose si complicarono a tal punto da far pensare che la madre non ce l’avrebbe fatta perché correva «gravi pericoli di morte», come registrano le cronache.

Stando al racconto riportato dalle fonti storiche, il soldato turco ricorse inutilmente a vari medici per soccorrere la partoriente e il nascituro, ma senza ottenere nulla. Le condizioni di salute peggioravano, così la donna otrantina, spinta e ispirata da Dio, si fece avanti e disse al padrone che la moglie sarebbe guarita per grazia di Maria, solo se avesse rimandato la statua a Otranto. Il turco, pensando che si trattasse di un pretesto per essere liberata, non solo non le diede retta, ma la prese in giro e l’accusò di voler ottenere vantaggi per se stessa con una bugia patetica, al che la donna esclamò a gran voce: «Sono convinta che io non vedrò mai più la mia Otranto; che dovrò morire in una terra straniera. Però se desideri che tua moglie guarisca è necessario che tu liberi l’Augusta Signora. Per raggiungere Otranto, la mia Madonna non ha bisogno di nessuno: sola vi andrà; io rimarrò qui, tua schiava e la signora guarirà».

Non avendo nulla da perdere, tanto più che la statua giaceva inutilmente sotto il letto, il soldato fece una promessa all’otrantina: se sua moglie fosse guarita dai dolori pericolosi e avesse partorito un bambino sano, l’avrebbe accontentata. «Subito dopo la promessa, cessati i dolori la moglie partorì». Pieno di meraviglia e di stupore, ma senza convertirsi, il turco, in modo del tutto incredibile, decise di mantenere la promessa, «fece mettere su una navicella senza remigranti la statua della Madonna» e la mise in mare, affidandola solo alle correnti e alle onde.

Nel frattempo le truppe di Ferdinando d’ Aragona erano già riuscite a liberare Otranto lasciando in città un piccolo presidio difensivo; alla sede arcivescovile, primo presule dopo la partenza dei turchi, fu nominato monsignor Serafino da Squillace, dell’ordine dei frati minori. Otranto era una città libera, ma semidistrutta: persino i suoi possenti bastioni erano stati demoliti e faticosamente il popolo ne stava tentando la ricostruzione. Un mattino, però, di quelli tipici in cui se il cielo è terso si vedono persino le cime dei monti dell’Albania, dalle sentinelle venne avvistato, al largo, un piccolo barchino, privo di vela, di marinai e di remi. Non si vedeva nessuno a bordo, eppure procedeva sicuro in direzione della città. Le guardie, pur capendo che non si poteva trattare di un assalto nemico, restarono comunque in allerta e, sempre più incuriosite, cercarono di osservare meglio per comprendere di cosa si trattasse, finché iniziò a comparire una sagoma che però non pareva muoversi. Dopo qualche altro metro di navigazione la sagoma si fece più nitida ai loro occhi che iniziarono a sgranarsi per lo stupore: era proprio Lei, la Madonna di Otranto! In un baleno la notizia esplose per le vie e tutto il popolo, arcivescovo incluso, si precipitarono in riva, nell’attesa dello sbarco di Maria, mentre le campane suonavano all’impazzata per la gioia e tutti cantavano inni a Dio e alla Santa Vergine. Una volta raggiunta miracolosamente Otranto, la statua venne riportata in processione al suo posto, in Cattedrale, e l’arcivescovo ordinò che venisse costruita una nicchia in marmo, accanto all’altare maggiore, per poterla collocare e dove giace ancora oggi, circondata dalle urne dei resti mortali dei martiri. Fu così che la Regina dei martiri tornò a casa[2].

 

[1] § 74.

[2] La storia della Madonna di Otranto è riassunta nel libro della visita di monsignor Morra compiuta nel 1607 e riportata nel Cenno storico sulla prodigiosa immagine della Madonna, in G. M Laggetto, contenuto nella sua Historia della guerra di Otranto del 1480.

 

(3-continua)

 

 

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