I libri sono essenziali per incidere nel tempo la memoria del nostro essere nel mondo, sia nel bene che nel male. Quando poi vengono scritti da mano letteraria per raccontare spaccati di vita cristiana, non possiamo che essere grati a questi autori, oggi assai rari. La Messa clandestina. “Mira il tuo popolo” di Pucci Cipriani con la presentazione di Giovanni Pallanti e la prefazione di Ascanio Ruschi, edito da Solfanelli (pp. 192, € 14,00), si inserisce perfettamente nell’affascinante ambito della letteratura della memoria e dell’importante trasmissione di “chi eravamo”, dove il piacere della lettura si abbina ad una catechesi sempre verde, sempre valida, nonostante usi e costumi abbiano virato verso una secolarizzazione sempre più massiccia raggiungendo i livelli odierni, in cui neopaganesimo, ideologie politiche e cultura depravata si fomentano vicendevolmente. Ecco perché è importante leggere libri come La Messa clandestina. “Mira il tuo popolo” per non dimenticare e per comprendere il livello di rivoluzione nefasta a cui si è giunti.
Il titolo del testo rimanda alla Messa tradizionale, quella imbavagliata e martoriata negli ultimi decenni perché foriera della verità dottrinale, che si scontra inevitabilmente alla rivoluzione entrata trionfalmente nella Chiesa con il Concilio Vaticano II. La Messa, quindi il Santo Sacrificio dell’altare, è stata affiancata al titolo di un noto canto mariano della devozione popolare, Mira il tuo popolo Bella Signora[1], che viene cantato durante le processioni religiose o festività mariane. Tale bellissimo abbinamento rende l’idea dell’indissolubilità del legame fra Cristo e la Vergine Maria e, allo stesso tempo, dà un tono lirico ad un testo che, infatti, nei suoi contenuti la prosa si unisce all’afflato poetico.
Il libro di Cipriani, che riporta una serie di illustrazioni di indubbio valore, tanto interessanti quanto inedite, richiama un tempo in cui la pietas christiana regnava, nutrendo le anime: «Ricordi che assalgono vividi nella penna dell’Autore», scrive Ascanio Ruschi nella prefazione, «e che altrettanto vividamente ci trasportano in un’epoca in cui l’Italia, uscita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, si riscopriva operosa, solidale, dai sentimenti semplici e genuini, ma non meno felice. Divisa, ma mai “inumana”. Una lente d’ingrandimento posata sulle colline e sui boschi mugellani. Racconti di strapaese, ma non per questo meno universali, che ci riportano alla mente un tempo in cui la Fede era veramente vissuta quotidianamente attraverso simboli, gesti, preghiere, anche pubblici, di cui non ci si doveva vergognare o chiedere scusa».
Si rideva, si piangeva, si faceva festa e ci si vestiva a lutto, ma in una dimensione veramente umana, avendo rispetto di Dio innanzitutto, di sé e degli altri e tutta la realtà veniva trattata con buon senso e si nobilitava, rendendo sacra la vita, che si cercava di santificare attraverso le stagioni liturgiche, la confessione, la comunione, i sacramenti tutti. Stiamo parlando di una Fede che veniva trasmessa di madre/padre in figli «senza che fosse cambiato uno iota» (p. 8).
Il canto sacro e le poesie che l’autore (conoscendolo) ha trascritto sicuramente a memoria, le Rogazioni, le visite ai propri cari nei cimiteri, i pellegrinaggi mariani nel territorio del Mugello… affreschi di un tempo, che a differenza della maggioranza delle persone che hanno vissuto quegli anni hanno colpevolmente dimenticato… o peggio calpestato, tradito, rinnegato…
«Io le ricordo le “Rogazioni”», scrive l’Autore con il suo inconfondibile stile fiorentino e cipriano insieme, «quando il sacerdote faceva dall’alto di una collina che dominava la vallata, ampi segni di croce prima a levante, poi a ponente, e poi verso mezzogiorno e, in ultimo, a settentrione, quindi aspergeva con l’acqua santa e, via, per altre vette e altre croci (che venivano piantate durante l’anno in ricordo di qualche morto o di qualche evento religioso) e le invocazioni e suppliche: “Ab omni peccato… Ab ira tua… Ab insidiis diabuli…A spiritu fornicationis… A morte perpetua… Libera nos, Domine!» (p. 131), tali invocazioni avvenivano «Per nativitatem tuam… Per crucem et passionem tuam… Per sanctam resurrectiomnem tuam…» (ibidem). Intanto, in lontananza, si udivano i rintocchi bellissimi, balsamici e celestiali delle campane.
Il Sacro si mischiava alla quotidianità semplice e piena di cuore secolare, come dimostra la tradizione dei cosiddetti «Maggiaioli firenzuolini» che cantavano il maggio delle anime del Purgatorio e i maggiaioli borghigiani della pieve che cantavano il maggio delle fanciulle e della primavera, una tradizione che a Firenzuola si è mantenuta con il «Cantamaggio», stornelli accompagnati da alcuni strumenti, fra cui spiccano in particolare la fisarmonica e il tamburello.
Nella zona del firenzuolino un tempo si andava per le vie, di casa in casa, salmodiando una Laude Sacra, mentre si raccoglievano le offerte per le anime del Purgatorio e «nella notte si udiva il grave e malinconico canto, come ai tempi del Medio Evo, allorché gli incaricati delle “Fratellanze” percorrevano le città, nel buio della notte, e andavano ripetendo una triste cantilena: O fratelli che in letto giacete,/o fratelli che in letto giacete,/ai defunti un pensiero volgete!». La grande Civiltà Cristiana si è edificata intorno agli altari delle chiese, dei monasteri e delle abbazie, avendo il timor di Dio e il grande rispetto per i defunti, le cui salme non entravano nei forni crematori come oggi, la cui memoria sparisce nel nulla, talvolta senza neppure un nome o una data, perché quelle ceneri vengono sparse nell’aria, nelle acque, nella terra oppure i cadaveri diventano anche «compostabile fertilizzante»: nel faraonico business delle pompe funebri, un’azienda statunitense ad Auburn, nei pressi di Washington, trasforma i cadaveri in nutrimento per l’ambiente con «prezzi contenuti e rispetto per l’ambiente» per “amore di madre terra” e disprezzo per le persone dalla vita eterna.
«Eppure ancor oggi gruppi di giovani si ritrovano a “cantar maggio” se non altro per tener vive le loro radici tanto che vale, anche in questi tristi tempi nostrani di apostasia, quella benedizione arcana che il sacerdote Stefano Casini vergò, per i maggiaioli, nelle pagine del suo capolavoro:
Partite, o buoni laudesi, benedetti dalle Anime! Nessuna onda ghiacciata venga mai a freddare la fede dei vostri canti sacri e a far cessare queste usanze poetiche e belle che si mantengono ancora fra le popolazioni conservatrici dei monti, come ruderi e frammenti d’arte del classico tempo antico!» (pp. 137-138).
La finestra dello studio, dalla biblioteca ricca di letteratura e di storia, del Professor Cipriani, domina non solo il suo amatissimo «natìo Borgo selvaggio», ma anche l’altrettanto cara vallata del Mugello. Da questa finestra egli si è affacciato nei giorni della pandemia del Covid: tutto come prima, tranne la presenza delle persone, un paesaggio silenzioso e astrale. Allora la mente è andata a quando la gente cantava per le strade, cantava durante le festività e le cerimonie religiose: «i ragazzi cantavano a scuola, nell’agone politico, dai balconi e dalle finestre, cantavano inni all’amore e alla vita e, allora, cantavano, fischiettando, anche gli uomini la mattina davanti allo specchio, quando si facevano la barba o quando, prima del lavoro, scendevano le scale» (p. 139). Come non può spuntare una lacrima nel leggere queste incantevoli pagine di struggente realismo del nostro passato non così remoto? Soltanto un animo cinico e avulso dalla lettura profonda della vita non batte ciglio, il fatto è che questa nuova civiltà senza Dio ha estirpato dai cuori, con erbicida micidiale, la nobiltà dei sentimenti.
Fu grazie alla signorina Anna Cipriani ad insegnare, nelle scuole elementari, le Laudi mariane al piccolo Giuseppe (Pucci) «per cui, quando andavamo la domenica a Messa dai salesiani, sapevamo cantare più dei “grandi” dell’oratorio: «Mira il tuo popolo o bella Signora/che pien di giubilo oggi t’onora./Anch’io, festevole, corro a’ tuoi piè./Oh! Santa Vergine prega per me…». L’identica laude che aveva imparato all’asilo, grazie alle “suorine”, insieme ad altri canti, fra cui quello musicato dal Maestro Domenico Bartolucci[2] con le parole del saveriano monsignor Giovanni Bonardi (1881-1974), braccio destro di san Guido Conforti: «Nel bel cielo d’Italia a trionfare/vieni o Regina/Vieni a viver, con noi vieni dolcissima,/Madre e Regina./Per te la via s’infiora/di te i bimbi sentono la carezza…». E poi, quella Novena di maggio, vissuta come atto integrante della propria quotidianità, per 9 giorni consecutivi la sera, in pieve. Giornate piene di vita e di fede, di serenità e di spensieratezza per i bambini, la cui innocenza veniva preservata e protetta, e liberi di correre, di giocare realmente e non virtualmente, giocare senza coach (remunerati), ma di propria spontanea volontà, con una genuinità impagabile e senza aver bisogno degli attuali animatori (remunerati) delle feste per bambini perché, altrimenti, non ci si diverte…
Dopo la benedizione eucaristica della Novena di maggio era il momento di intonare la laude «che ti faceva pregustare il Paradiso e la visione della Vergine»:
«Andrò a vederla un dì/in Ciel, patria mia,/andrò a veder Maria/mia gioia e mio amor./Al cielo al cielo al ciel/andrò a vederla un dì» (p. 141).
Un libro da leggere, assaporare e gustare piano piano per scoprire volti e vie, pennellate e affreschi, profumi e note, rime e strofe di uno spaccato di una “piccola” storia di un “semplice” lembo di terra toscana, dove domina il cuore dell’Autore: il suo borgo fiorentino, Borgo San Lorenzo, protagonista assoluto e tutto suo che fa diventare, con la sua magica penna, anche nostro. Eppure, in queste pagine borghigiane, che dipingono questo comune antichissimo come fu nel recente passato, vi si trova un universo di tesori infiniti perché legati all’Infinito di Dio, dunque senza tempo, di cui il dominante mondo globalizzato, caleidoscopico, innaturale e senza Redentore, non percepisce, non può vedere, accecato com’è: nella sua immanenza, schizofrenia e finitudine mondana, non gli è permesso, avendo volontariamente perso gli strumenti per misurare contorni di vite piene di essere e non di cose, di falsi miti e satanici diritti.
[1] Originariamente intitolato Sancta Virgo: da alcuni attribuito a san Guido Maria Conforti (1865-1931), fondatore dei Saveriani, da altri a sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787).
[2] Maestro perpetuo della Cappella Musicale Pontificia Sistina e accademico di Santa Cecilia (1917-2013)