La lingua: fattore culturale dei popoli

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La lingua come modello logico-etico e filosofico-Politico / I

Premessa

Senza dover accettare alcune proposte della linguistica “positivista”, che voleva dimostrare come fenomeni fonologici diversi nel sistema vocalico (maggiore o minore apertura o chiusura, turbamento, apofonia) fossero dovuti a fattori geografici, ambientali e fisiologici (per es., la maggiore rarefazione dell’aria in montagna), e quindi, in conseguenza di questa premessa, si potessero spiegare le differenze tra le varie lingue ricorrendo esclusivamente ad elementi scientifici, sia di tipo storico che di tipo più propriamente “fisiologico”, è però necessario osservare come effettivamente le lingue presentino tra loro differenze, e ovviamente ciascuna caratteristiche sue peculiari, che non sono solamente dovute a fattori di evoluzione storica e di civiltà, quali interscambi a volte violenti a volte pacifici tra popoli diversi, ma anche ad elementi intrinseci alle lingue stesse, elementi che sono insieme causa e conseguenza di un modo di pensare e di vivere di un popolo, modo di pensare tale da portare ad allontanarlo dagli altri, e dalle loro lingue. In questo modo ogni civiltà mostrerebbe quindi peculiarità e specificità proprie, sia nella lingua che nella civiltà e cultura.

Tali differenze, e le peculiarità, non vanno comunque cercate ad un livello banalmente superficiale, o addirittura istituendo paralleli o differenziazioni arbitrarie, che obbediscono in genere più ad aspetti, oserei dire, lirico-sentimentali di chi li propone che non ad osservazioni argomentate e che nascano dallo studio analitico non tanto degli elementi esteriori delle lingue, quanto del loro aspetto più propriamente interiore (usando il lessico della linguistica generativo-trasformazionale potremmo parlare di “strutture profonde”).

Un esempio di tale approccio, decisamente dilettantistico, lo troviamo esplicitato in un articolo di Primo Levi (ne supra crepidam sutor: un chimico non dovrebbe parlare di lingua senza un’adeguata preparazione specifica) dal titolo “Bella come una fiore”, uscito sul quotidiano “La Stampa” del 13 luglio 1986 e poi raccolto con altri nel volume Terza pagina-Racconti e saggi di Primo Levi (Torino; editrice La Stampa 1986), pp. 158sgg. In questo articolo lo scrittore torinese istituisce, sulla scorta di ricordi personali e di osservazioni impressionistico-soggettive, una sorta di poco probabile legame, fatto ora di somiglianze ora di discordanze, tra piemontese (oltretutto scritto in una grafia assolutamente imperdonabile) ed inglese[1].

Per passare poi ad esempi concreti, non ha alcun senso “esaltare” alcune peculiarità del piemontese, istituendo oltretutto – come detto – paralleli di somiglianze e/o differenze con altre lingue, quali la non presenza in esso del passato remoto o l’inesistenza del verbo amare[2]: sono fenomeni, questi, legati allo sviluppo storico di una qualsivoglia lingua e non alle sue caratteristiche intrinseche[3].

Le peculiarità delle lingue (e quindi le loro differenze da altri idiomi) vanno cercate – come detto – non nei loro aspetti fenomenici esteriori, quali il lessico (pur con le dovute eccezioni), ma nelle loro strutture “profonde”, cioè quelle sintattiche e quelle morfologiche riguardanti – in modo specifico – il verbo e il suo sistema flessivo.

 

Le famiglie linguistiche

La prima, e più evidente, diversità tra le lingue è dovuta alla loro suddivisione in famiglie linguistiche differenti.

Prendendo in esame le tre famiglie presenti, con un numero più o meno elevato di lingue, in Europa e nel bacino del Mediterraneo, area che meglio conosciamo e che più ci interessa anche per gli aspetti storico-culturali, e cioè la famiglia delle lingue indo-europee (o ario-indiane), quella delle lingue semitiche e quella delle lingue ugro-finniche[4], di ceppo uralo-altaico, notiamo che il loro differenziarsi si evidenzia innanzi tutto nel sistema grafico ed in quello della formazione delle parole, indici di un diverso modo di intendere non solo il sistema logico-razionale, ed il linguaggio come suo “discendente” diretto, ma tutta quanta la visione del mondo e della realtà (la weltanschauung, per dirla con i tedeschi).

Le lingue indoeuropee, tutte, pur nella diversità del loro aspetto fenomenico e della loro evoluzione storica (chi direbbe che il pashtu, o afgano, e lo svedese appartengono alla medesima famiglia? oppure il lituano e l’irlandese? eppure è così), hanno in comune lo schema della flessività (sono dette infatti “lingue flessive”): ciò significa che esse sono caratterizzate da quella che noi chiamiamo declinazione (per i nomi) e coniugazione (per i verbi)[5]. Questo schema flessivo permette di formare qualunque “parola” partendo dalla conoscenza di tre (o massimo quattro) elementi fondanti: la radice, la vocale tematica, la caratteristica temporale (per i verbi), la desinenza. Conoscendo questi elementi è possibile “costruire” qualsiasi forma lessicale.

Le lingue semitiche mostrano già, ictu oculi, la loro diversità rispetto alle altre due famiglie linguistiche: si scrivono infatti – come si sa – con un sistema di grafemi (alfabeto) loro proprio e con andamento da destra verso sinistra invece che da sinistra verso destra[6]; inoltre esse sono caratterizzate dalla mancanza di vocali (scrittura consonantica), che, per esempio nell’ebraico, vengono di volta in volta, ed a seconda del contesto, inserite per permettere la pronuncia delle radici triconsonantiche[7].

Le lingue ugro-finniche, dello stesso ceppo di quelle dell’Asia centrale (uralo-altaiche), sono dette anche lingue “agglutinanti”[8], tali che formano le frasi agglutinando, cioè legando, incollando insieme, vari morfemi, senza presentare, a differenza delle lingue indo-europee, elementi specifici a sé stanti riconducibili al concetto di “parte del discorso” (sostantivo, pronome, verbo ecc.) così come le intendiamo e conosciamo noi.

 

Le sotto-famiglie linguistiche

Stabilita questa prima distinzione, e differenziazione, di carattere molto ampio e generale, passiamo al secondo livello di diversificazione, quello cioè che avviene tra lingue che, appartenenti alla medesima (ampia) famiglia linguistica, si diversificano l’una dall’altra o essendo “parenti” anche all’interno di una sotto-famiglia, oppure, pur di sotto-famiglie diverse, condividano una collocazione geografica e culturale di vicinanza. Come esempi possiamo citare nel primo caso, due lingue romanze (o neo-latine), nel secondo il greco ed il latino o, nel mondo moderno, il francese e l’inglese.

Così, per parlare in concreto, all’interno della famiglia indo-europea, possiamo vedere differenze (e peculiarità) di lingue inseribili in sotto-famiglie quali lingue mediterranee occidentali (es. latino) vs orientali (es. greco) o, più vicino a noi nel tempo, lingue neo-latine vs lingue germaniche (insulari e/o continentali).

Greco e latino, due lingue che per noi italiani vanno normalmente di pari passo, abituati come siamo a considerarle (fin dal tempo della scuola) come due espressioni di un medesimo mondo, quello “classico”. Se ciò è certamente vero (non possiamo capire la civiltà latina senza quella greca classica, ma al contempo non possiamo spiegare la civiltà ellenistico-bizantina senza rifarci a Roma ed al suo impero), è altrettanto vero che i due popoli, pur con le diversità interne dovute anche al loro sviluppo storico (la civiltà romana repubblicana è comunque diversa sia da quella imperiale che da quella romano-cristiana), furono tra loro profondamente diversi, proprio partendo dal loro sistema linguistico, nel modo di vedere e concepire il mondo.

Quando si dice – ed è vero – che i Romani furono più operativi, concreti, giuridicamente specializzati che non i Greci, che a loro volta privilegiarono maggiormente la speculazione teoretico-filosofica e l’arte intesa come espressione fenomenica della ragione (Winckelmann docet…), invece che, romanamente, come una produzione certamente apprezzabile dal punto di vista estetico, ma più intesa alla concretezza ed alla comodità di vita che non al puro godimento interiore (godimento razionale prima che sentimentale, anzi sentimentale, poi, proprio perché razionale, prima)[9], quando diciamo tutto ciò non sempre comunque pensiamo che tale diversità di approccio alla realtà fosse già insita (in forma di semina) nella diversità del sistema logico-linguistico dei due popoli.

Il numero “duale”, usato in contrapposizione a singolare e plurale per indicare una coppia o un paio, in latino era presente ab antiquo ma poi si perse in età storica, tranne che nelle forme duo e ambo, permase invece in greco, e anche nella flessione verbale oltre che in quella nominale, continuando a testimoniare come dal pensiero linguistico greco, che concepiva la coppia come ente a sé stante, diverso da singolare (ovvio) ma anche dal plurale, sia potuto scaturire uno dei principi cardine della filosofia greca: il rapporto dialettico tra Uno e Molteplice come rapporto dualistico, tale da sfociare nella dialettica Dio-Umanità, rapporto non risolvibile in modo reciproco (Dio non si può abbassare all’Uomo e l’Uomo non può alzarsi a comprendere la Divinità), rapporto dualistico che sarà risolto – e mirabilmente – dal Cristianesimo col mistero dell’Incarnazione.

Ma dove troviamo chiarissimo il divario tra grecità e latinità è in una delle strutture “profonde” più intime e peculiari di una lingua: il sistema verbale.

Noi tutti (neo-latini) siamo abituati a categorizzare i verbi, prima, secondo i modi e poi, e in conseguenza di essi, secondo i tempi[10]. Analizzando una forma verbale (per es. “vedevamo”) diciamo prima che essa è di modo indicativo, e poi che è tempo imperfetto, lasciando per ultima la persona e la diatesi (attiva/passiva). Così facevano già i nostri antenati (linguistici) latini, mentre i greci suddividevano le forme verbali prima in tempi, e poi in modi. Questo avveniva perché, ed ecco un’altra peculiarità della lingua greca[11] rispetto a quella latina, nell’uso verbale ciò che conta non è tanto la “temporalità”, che per gli elleni è caratteristica secondaria, ma l’“aspetto” (o “qualità”) dell’azione, che poteva essere durativa o continuativa (presente ed imperfetto), puntuale o momentanea (aoristo)[12], perfettiva o compiuta (perfetto e piuccheperfetto). Caso a sé è invece quello del futuro, che rimanda ad un tempo non ancora tangibile e pertanto ricadente nella sfera dell’eventuale, così che – sempre in greco – la particella αν (an) accompagnata dal congiuntivo, indicante l’eventualità, può in italiano rendersi col futuro, semplice o anteriore a seconda del contesto.

Il latino è lingua – se così vogliamo dire – “geometrica”, che presenta cioè strutture sintattiche estremamente precise, ma, per converso, essa è anche piuttosto “generalista”, nel senso che molte sue parole hanno un valore semantico molto ampio. Ciò è vero a tal punto che, per definire con precisione quello che è il loro significato in un contesto preciso, esse hanno bisogno dell’ausilio di un aggettivo. È il caso del termine res (cosa), la parola più generale e generica dell’intero vocabolario, latino come italiano, mentre in greco non troviamo un suo corrispondente esatto, ma termini diversi con diverse sfumature, di cui πράγμα (pràgma) può essere quello più contiguo a res, pur contenendo in sé il concetto del “fare”, dal verbo πράσσω (prasso), e quindi meglio sarebbe renderlo con l’italiano “faccenda” (< lat. res facienda, cioè “cosa che si deve fare”). Tornando però al latino vediamo le forme res publica (lo stato) e res novae (la rivoluzione), nel linguaggio politico-civile; res cogitans e res extensa (l’anima e la natura in Cartesio), in quello filosofico; res gestae (la storia), in quello storico-militare (e addirittura rerum scriptor è lo storico), o ancora res familiaris (il patrimonio), in quello economico-giuridico. Senza gli aggettivi, e quelli giusti adatti appropriati (in quanto a-generici), la parola res non potrebbe “frastagliarsi” a definire tutta una serie di significati che da sola non potrebbe proprio coprire.

(1 – continua)

 

[1] Quando uscì tale articolo mi premurai di scrivere all’Autore segnalandogli, col dovuto garbo e con tono pacato, personalismi e, soprattutto, inesattezze. Mai ricevuto risposta in merito…

[2] Veramente ridicola l’asserzione di taluni “linguisti della domenica” che dichiarano che il piemontese non possiede il verbo amé perché ciò deriverebbe da una peculiarità culturale e morale del carattere dei piemontesi, troppo “freddi” e distaccati, poco sensibili e passionali e d’altro canto troppo concreti per provare un sentimento d’amore veramente profondo e coinvolgente, o  quantomeno troppo timidi ed introversi per esprimerlo con parole acconce. Che esistano dei piemontesi poco espansivi e poco passionali è pur vero (così come ne esistono appartenenti ad ogni popolo e cultura), ma in realtà (e questo uno studioso minimamente serio di linguistica lo sa) in piemontese la forma vorèj bin copre l’area semantica sia dell’italiano “voler bene” che di “amare”. Notiamo quindi che lo sviluppo del latino pedemontano ha continuato l’esito del tardo latino bene velle in luogo di amare, esattamente come, usando un altro esempio, una lingua come il francese continua l’esito del tardo latino tripaliare (travailler) e l’italiano quello di laborare (lavorare).

[3] Convinzione falsa quella relativa al passato remoto: esso in piemontese esisteva (eccome!), ma si è perduto nell’uso a partire dai primi decenni del secolo XIX, come facilmente dimostrabile (e dimostrato) dalla lettura degli scrittori compresi tra metà Settecento e metà Ottocento. Cfr. anche G. Clivio, “Osservazioni sulla varietà rustica del piemontese settecentesco”, in Storia linguistica e dialettologia piemontese, Torino 1976, pp. 79-90.

[4] Nell’area geografica presa in esame sono lingue indo-europee tutte quelle parlate in Europa, tranne basco, estone, finnico, magiaro e, in parte, maltese, semitiche sono l’arabo, l’ebraico e il maltese (in larga misura), ugro-finniche il finnico, l’estone, il magiaro ed il turco; il basco è, nonostante i molti studi che lo riguardano, di origine non ancora del tutto ben definita.

[5] La declinazione, con i casi, il genere, il numero, si trova anche nelle lingue che non presentano “fenomenicamente” la declinazione vera e propria (italiano, francese, inglese…), esattamente come in quelle che tale struttura hanno (latino, tedesco, russo…), in quanto la “flessione” secondo il genere (maschile, femminile, eventualmente neutro) e il numero (singolare, plurale, eventualmente duale) è comunque il residuo di un’ antica declinazione costruita ed esplicitata nei casi.

[6] Tale sistema grafico prevede, come conseguenza, che libri e quaderni si aprano in senso inverso al nostro: la nostra 4a di copertina è la loro 1a.

[7] Tale caratteristica non è invece presente nel maltese, che mantiene sistema grafico ed alfabeto come le lingue indo-europee, mentre presenta un lessico fortemente “semitizzato” (di origine araba e, in misura minore, punica ed ebraica).

[8] Questa definizione venne elaborata nel 1836 dal linguista tedesco Wilhelm von Humboldt.

[9] Sintomatico è che il termine “estetica” derivi dal greco αίσθησις (áisthesis), a sua volta dal verbo αισθάνομαι (aisthánomai), che letteralmente significa “mi accorgo, colgo” e poi “provo una sensazione”; così come il latino sensus viene dal verbo sentio, ugualmente “percepire, cogliere”.

[10] Questa categorizzazione verbale porta come conseguenza sintattica il fatto che in latino si parli di “consecutio temporum”, in greco invece di “consecutio modorum”.

[11] Si noterà che questa caratteristica non ha subito alterazioni dovute allo sviluppo storico della lingua, come il duale, che nel latino esisteva e poi è praticamente scomparso. Invece la diversa categorizzazione verbale è stata ab origine una diversificazione profonda e fondamentale tra i due sistemi linguistici.

[12] Nel caso dell’aoristo la “puntualità” dell’azione poteva avvenire nel passato (all’indicativo) o tanto nel presente che nel passato (negli altri modi). Testimonianza di ciò è il fatto che solo l’indicativo era caratterizzato dall’aumento, che è segno di azione “passata” (lo ritroviamo infatti anche nell’imperfetto e nel piuccheperfetto). D’altronde il nome stesso “aoristo” significa “senza limite, indefinito”, proprio perché non ha un valore temporale definito.

 

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2 commenti su “La lingua: fattore culturale dei popoli”

  1. Carla D'Agostino Ungaretti

    Grazie, gentile Prof. Pasero, per questi suoi appassionanti articoli! Queste scienze dovrebbero essere insegnate a scuola, e soprattutto nel liceo classico. Ma so bene che è un’utopia: la scuola italiana sta precipitando verso l’ignoranza più grossolana.

    1. Grazie, Signora, per il Suo apprezzamento. Finché ho insegnato al liceo classico qualche lezione di filologia e glottologia la prospettavo ai ragazzi; poi ho dovuto smettere perché, secondo alcuni colleghi (leggasi: colleghi, non studenti, spalleggiati dai superiori), io “stressavo” i ragazzi…

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