Il Santuario di Dongo e il mantenimento della Fede, conservando le tradizioni dei padri

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Nella regione alpina, specialmente nell’attuale Lombardia, sono piuttosto numerosi gli episodi celesti consistenti nella lacrimazione miracolosa di simulacri mariani, scultorei o pittorici. In alcuni casi si trattò di sanguinamenti, in altri di lacrime normali. Ne citerò solo alcuni, in ordine cronologico, a titolo puramente esemplificativo:  a Re nel 1494, Treviglio nel 1522, Rho nel 1583, Angera nel 1657, Lezzeno nel 1688, Arcene nel 1864 ecc. Questa volta ci occuperemo invece del Santuario e Convento intitolato alla Madonna delle Lacrime che si trova a Dongo.

In realtà il piccolo comune di Dongo, posto sulla riva nord-occidentale del Lago di Como, oggi è più famoso per aver purtroppo ospitato la fucilazione di Benito Mussolini nell’aprile 1945. Il santuario di cui ci occuperemo in questo articolo dista infatti solo poche centinaia di metri dal luogo della tragica esecuzione.

Il fatto miracoloso si verificò, come attesta il regolare processo canonico di riconoscimento, in un luogo e data ben precisi: 6 settembre 1553, nel primo pomeriggio

 

La lacrimazione

Allo scopo di ricostruire correttamente gli eventi, grazie alla collaborazione dei Frati Francescani del convento, abbiamo potuto consultare un volume molto ben documentato anche se risalente parecchio indietro negli anni: “Convento di S. Maria del Fiume in Dongo, Pagine di Storia nel III Centenario della fondazione (1614 – 1914)” di P. Paolo Maria Sevesi o.f.m.

Sul luogo dove oggi sorge il Santuario esisteva, addossato al muro di cinta di una vigna, un semplice altarino sul quale era affrescata la sacra immagine della Beata Vergine Maria che sorreggeva sul braccio Gesù Bambino. Poichè il luogo era lambito dal torrente Albano sembra probabile che la piccola edicola intendesse impetrare la protezione celeste contro le frequenti alluvioni del fiume. Ignoriamo l’autore del dipinto ma uno studioso locale, p. Eufrasio da Dervio, sostiene che l’artista possa essere stato un certo Giorgio de Serono, un umile frescante che dipinse anche altre cappelline nei dintorni. Esiste infatti un’immagine molto simile, firmata e datata al 1529, nella cappellina di Barna.

Appare dunque probabile che, al momento della lacrimazione miracolosa, il dipinto fosse stato realizzato da oltre venti anni. Il proprietario della vigna, tal Tommaso Scanagatta, concederà successivamente il proprio terreno per l’erezione del convento.

Il piccolo affresco non rappresenta certo un capolavoro dal punto di vista strettamente artistico. Risulta tuttavia semplice, aggraziato e tale da suscitare un senso di profonda devozione nel popolo dei fedeli. Le linee, le tinte e gli sfondi hanno un qualcosa di commovente, il volto della Beata Vergine, leggermente reclinato verso destra, appare lievemente ma soavemente malinconico. Gli occhi rotondi hanno uno sguardo penetrante, le vesti sono semplici ma eleganti, Gesù Bambino sta seduto sulle ginocchia della Madre e guarda fisso in avanti verso il suo popolo.

Veniamo ora a quella domenica 6 settembre 1553. Secondo i testimoni giurati che deposero al processo canonico la prima testimone della lacrimazione fu una pia ed umile donna di nome Maria de Matti da Dongo. Ella percorreva a piedi la strada che conduce a Gravedona e, levato lo sguardo verso il piccolo altare, si avvide stupita delle lacrime sgorganti dagli occhi di Maria. Commossa fino al pianto ella corse subito in paese per annunciare la straordinaria notizia. Giunta in piazza si mise tosto a gridare: “Venite, Venite che la Madonna del Fiume fa miracoli!”. Essendo, come detto, giorno di festa molte persone si trovavano nelle vie del piccolo borgo. Accorsero pertanto subito molti uomini, donne, giovani e bambini. Erano circa le ore tre del pomeriggio e le campane della parrocchia vennero suonate a distesa richiamando pure coloro che erano nei campi.

Giunse ben presto anche il Parroco don Bernardo Bonizio che, fattosi largo nella folla di devoti, sollevò un calice e lo appese, con un cingolo da Messa, sotto il volto della Madonna. Con questo stratagemma riuscì a raccogliere alcune lacrime sgorgate dalla Sacra Immagine. Intanto i fedeli facevano ressa; tutti pregavano o piangevano inneggiando al miracolo ed alla necessità di fare penitenza. Molti gettavano anelli e monete ai piedi dell’edicola. Uno spettacolo grandioso di devozione popolare, che si protrasse, secondo le cronache, per tutta la notte e nei giorni successivi. Ben presto la notizia si sparse infatti nei paesi circostanti e gruppi di pellegrini arrivarono anche da località piuttosto lontane. Si registrarono inoltre, in questi primi tempi, numerose guarigioni e grazie particolari.

 

Il processo canonico

Sul luogo venne presto edificata una piccola chiesetta ma si dovettero attendere parecchi decenni prima che si aprisse un regolare processo canonico di riconoscimento. L’impulso decisivo venne dai frati minori francescani che furono chiamati a risiedere nel nuovo convento a partire dal 1614. I donghesi, infatti, desideravano fortemente la presenza in paese dei figli di San Francesco ma i monaci benedettini di Domaso cercarono a lungo di opporsi a tale arrivo. L’istruttoria venne dunque avviata solo il 31 luglio dell’anno 1615 per ordine del Vescovo di Como mons. Filippo Archinti. Fortunatamente, nonostante il lungo tempo trascorso, erano ancora in vita alcuni testimoni oculari fra cui gli ecclesiastici don Francesco Cossogna e mons. Giovanni Solari da Mesenzonico. Il primo aveva dieci anni all’epoca del miracolo, il secondo dodici. Furono auditi sotto giuramento anche mons. Stefano De Rumo da Campè e il fratello di lui Vincenzo. Tutti costoro, ed altri testimoni indiretti, deposero sotto giuramento e confermarono unanimemente il racconto.

Un aspetto curioso, che conferma la serietà del procedimento, è rappresentato dalle domande sul tempo metereologico e sulla possibilità di infiltrazioni d’acqua dal muro retrostante. Gli interrogati riferirono, in merito, che in quei giorni fu chiamato ad ispezionare il luogo anche il medesimo pittore dell’affresco, che dunque doveva essere ancora vivo nel 1553, accompagnato da un esperto mastro muratore. Costoro riferirono che non vi era stata pioggia negli ultimi giorni e che non si scorgeva alcuna infiltrazione di umidità. Il processo si concluse dunque positivamente con il pieno riconoscimento della soprannaturalità.

 

Le interpretazioni

Così come abbiamo fatto per l’articolo su Lezzeno, dove si trova un altro Santuario Mariano sulle rive del Lario, anche per Dongo gli storici cattolici si sono interrogati sul significato da attribuire alla lacrimazione miracolosa. E’ senz’altro assai istruttivo leggere e meditare queste pagine anche perché esse ci danno una misura di quanto sia mutato l’atteggiamento degli scrittori, anche di quelli cristiani, nel corso del XX e XXI secolo. Il padre Paolo Maria Sevesi dedica infatti a questo argomento un denso paragrafo del suo libro.

Egli, dopo aver rievocato le lacrime di Gesù per Gerusalemme e quelle della Madonna sul Golgota, ricorda brevemente anche alcuni altri episodi verificatisi in Lombardia. Venendo però successivamente al fatto di Dongo lo storico individua due possibili motivazioni del pianto, una specifica e rivolta al paese, ed un’altra più generale connessa al contesto storico.

Sul primo versante egli ricorda che subito dopo il miracolo, ed esattamente dalla metà di settembre fino ai primi di ottobre, fortissime piogge sconvolsero la zona. Esse provocarono inondazioni disastrose che però risparmiarono il villaggio. Forse, egli osserva, le lacrime della Beata Vergine Maria avevano ottenuto misericordia dal suo Divin Figlio.

Subito dopo l’autore allarga però lo sguardo alla situazione storica di quel travagliato periodo:

«Erano tempi in cui scorrevano baldanzose e quasi trionfanti le eresie dell’empio Lutero il quale, gettata la stola. sacerdotale nel fango, innalzava il nero vessillo dello scisma che trasse alla perdizione parecchie nazioni. Già la Svizzera ne era stata infestata e l’eresia stava per irrompere nella Rezia e nei Grigioni. Di qui, passando per la Val Tellina, sarebbe discesa, come irruenta fiumana, sulle rive del Lario, devastando le Chiese, minacciando i sacerdoti e profanando il santuario domestico, portando le voci di ira contro il Papato Romano, spargendo l’immoralità e spegnendo nel cuore l’immacolata Fede in Gesù Cristo».

In questa drammatica situazione, sempre secondo il Sevesi, Maria pianse per richiamare i donghesi, e gli altri popoli rivieraschi, a difendere la vera religione. Le sue lacrime, sempre secondo l’autore, avrebbero potuto contenere le seguenti significative parole:

«Mantenete la Fede, conservate le tradizioni dei padri vostri, non ascoltate le empie dottrine dei falsi apostoli».

E, rivoltesi altresì figurativamente all’eresia, così avrebbero potuto proseguire:

«Arrestati, non verrai fin qui, perché qui c’è il mio popolo, qui ho stabilito la mia reggia, qui si innalza la bandiera della Fede immacolata in mio figlio Gesù Cristo».

Leggendo frasi come queste ci rendiamo perfettamente conto, più che studiando trattati di teologia o dotti articoli esegetici, di come la gerarchia Cattolica sia radicalmente cambiata nel giro di un secolo per effetto soprattutto del Concilio Vaticano II. Erano ancora molto lontani i tempi della Dignitatis humanae e della “sensibilità” ecumenica.

 

Il Santuario oggi

Dal 1614 ai giorni nostri il santuario, con annesso il convento, fu sempre affidato alle cure dei Frati Francescani. Nella seconda metà del XVIII secolo essi furono però allontanati dal governo austriaco e poi anche dai napoleonici. Solo nel 1871, grazie all’interessamento della famiglia Manzi di Dongo, i figli di San Francesco poterono rientrare nella custodia del sacro edificio.

Oggi questo si presenta in forme semplici e massicce. Nella facciata, che costeggia la strada provinciale, un portico a quattro colonne accoglie il pellegrino. Vicino sorge il campanile ornato da bifore. L’interno è a navata unica contornata da quattro cappelle laterali.

Non mancano pregevoli opere pittoriche e scultoree realizzate da illustri religiosi appartenenti all’ordine: fra Girolamo Cotica da Premana, fra Diego Giurati da Careri e Andrea Gabasio detto il Pelagin.

Tutto l’insieme crea, dunque, un ambiente austero e spirituale, dove la preghiera può salire al Cielo fervorosa e devota.

 

 

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