Il Maestro di color che sanno… Purgatorio, canto V

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Pia de’ Tolomei e Nello della Pietra (1861) di Pio Fedi (1816-1892)

 

Io era già da quell’ombre partito,

e seguitava l’orme del mio duca,

quando di retro a me, drizzando ’l dito,

 

una gridò: «Ve’ che non par che luca

lo raggio da sinistra a quel di sotto,

e come vivo par che si conduca![1]».

 

Li occhi rivolsi al suon di questo motto,

e vidile guardar per maraviglia

pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.

 

«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,

disse ’l maestro, «che l’andare allenti?

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

 

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:

sta come torre ferma, che non crolla

già mai la cima per[2] soffiar di venti;

 

ché sempre l’omo in cui pensier rampolla

sovra pensier, da sé dilunga il segno,

perché la foga l’un de l’altro insolla».

 

Che potea io ridir[3], se non «Io vegno»?

Dissilo, alquanto del color consperso

che fa l’uom di perdon talvolta degno.

 

E ’ntanto per la costa di traverso

venivan genti innanzi a noi un poco,

cantando “Miserere” a verso a verso[4].

 

Quando s’accorser ch’i’ non dava loco

per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,

mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;

 

e due di loro, in forma di messaggi,

corsero incontr’a noi e dimandarne:

«Di vostra condizion fatene saggi[5]».

 

E ’l mio maestro: «Voi potete andarne

e ritrarre[6] a color che vi mandaro

che ’l corpo di costui è vera carne.

 

Se per veder la sua ombra restaro,

com’io avviso, assai[7] è lor risposto:

fàccianli onore, ed essere può lor caro».

 

Vapori accesi non vid’io sì tosto

di prima notte mai fender sereno,

né, sol calando[8], nuvole d’agosto,

 

che color non tornasser suso in meno;

e, giunti là, con li altri a noi dier volta

come schiera che scorre sanza freno.

 

«Questa gente che preme a noi è molta,

e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:

«però pur va, e in andando[9] ascolta».

 

«O anima che vai per esser lieta

con quelle membra con le quai nascesti»,

venian gridando, «un poco il passo queta.

 

Guarda s’alcun di noi unqua[10] vedesti,

sì che di lui di là novella porti:

deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?

 

Noi fummo tutti già per forza morti[11],

e peccatori infino a l’ultima ora;

quivi lume del ciel ne fece accorti,

 

sì che, pentendo[12] e perdonando, fora

di vita uscimmo a Dio pacificati,

che del disio di sé veder n’accora».

 

E io: «Perché[13] ne’ vostri visi guati,

non riconosco alcun; ma s’a voi piace

cosa ch’io possa, spiriti ben nati,

 

voi dite, e io farò per quella pace

che, dietro a’ piedi di sì fatta guida

di mondo in mondo cercar mi si face».

 

E uno incominciò: «Ciascun si fida

del beneficio tuo sanza giurarlo,

pur che ’l voler nonpossa non ricida.

 

Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,

ti priego, se mai vedi quel paese

che siede tra Romagna e quel di Carlo,

 

che tu mi sie di tuoi prieghi cortese

in Fano, sì che ben per me s’adori

pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.

 

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri

ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea[14],

fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,

 

là dov’io più sicuro esser credea:

quel da Esti il fé far, che m’avea in ira

assai più là che dritto non volea.

 

Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,

quando fu’ sovragiunto ad Oriaco,

ancor sarei di là dove si spira.

 

Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco[15]

m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io

de le mie vene farsi in terra laco».

 

Poi disse un altro: «Deh, se quel disio

si compia che ti tragge a l’alto monte,

con buona pietate aiuta il mio!

 

Io fui di Montefeltro, io son[16] Bonconte;

Giovanna o altri non ha di me cura;

per ch’io vo tra costor con bassa fronte».

 

E io a lui: «Qual forza o qual ventura

ti traviò sì fuor di Campaldino,

che non si seppe mai tua sepultura?».

 

«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino

traversa un’acqua ch’à nome l’Archiano,

che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

 

Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,

arriva’ io forato ne la gola,

fuggendo a piede e sanguinando[17] il piano.

 

Quivi perdei la vista e la parola

nel nome di Maria fini’, e quivi

caddi, e rimase la mia carne sola.

 

Io dirò vero e tu ’l ridì tra ’ vivi:

l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno

gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?

 

Tu te ne porti di costui l’etterno[18]

per una lagrimetta che ’l mi toglie;

ma io farò de l’altro altro governo!».

 

Ben sai come ne l’aere si raccoglie

quell’umido vapor che in acqua riede,

tosto che sale dove ’l freddo il coglie.

 

Giunse quel mal voler che pur mal chiede

con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento

per la virtù che sua natura diede.

 

Indi la valle, come ’l dì fu spento,

da Pratomagno al gran giogo coperse

di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento[19],

 

sì che ’l pregno aere in acqua si converse;

la pioggia cadde e a’ fossati venne

di lei ciò che la terra non sofferse[20];

 

e come ai rivi grandi si convenne,

ver’ lo fiume real[21] tanto veloce

si ruinò[22], che nulla la ritenne.

 

Lo corpo mio gelato in su la foce

trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse

ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

 

ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor[23] mi vinse;

voltòmmi per le ripe e per lo fondo,

poi di sua preda mi coperse e cinse».

 

«Deh, quando tu sarai tornato al mondo,

e riposato de la lunga via»,

seguitò ’l terzo spirito al secondo,

 

«ricorditi di me, che son la Pia:

Siena mi fé, disfecemi Maremma:

salsi[24] colui che ’nnanellata pria

 

disposando[25] m’avea con la sua gemma».

 

 

[1] “Si comporti” o, secondo altri interpreti, “si muova” (dal latino se conducere, “comportarsi, atteggiarsi”),

[2] Con valore concessivo-limitativo: “per quanto i venti soffino”.

[3] Col valore di “rispondere”

[4] Possibile una duplice interpretazione: 1) un verso dopo l’altro, sottolineando la lentezza meditativa del canto corale ; 2) a versi alternati, detti da due gruppi diversi di anime. Più probabile la prima, fondandosi sul fatto che nel Purgatorio il canto delle anime è sempre corale.

[5] “Rendeteci sapienti”, cioè “fateci edotti”.

[6] È il termine tecnico usato nelle ambascerie per indicare il “riferire”; cfr. anche l’operetta di Machiavelli Ritratto delle cose di Francia (cioè “Relazione degli avvenimenti in Francia”).

[7] Vale “abbastanza” (cfr. francese assè).

[8] Costruzione comparabile con l’ablativo assoluto latino (in questo caso: occidente sole).

[9] Uso arcaico del gerundio retto da preposizione (cfr. ancora il francese en allant o anche il piemontese an lesend, “leggendo”).

[10] Latinismo dotto < unquam (mai).

[11] Uso arcaico, abbastanza comune in Dante, di “morire” come transitivo per “uccidere”.

[12] Dal verbo “pentere” (< lat. paenitére), usato come riflessivo, pur in assenza di pronome personale.

[13] Col valore limitativo di “per quanto”.

[14] Era opinione comune, già nell’ebraismo e nell’antichità e poi nel medioevo, che l’anima risiedesse nel sangue.

[15] Dal tardo latino bracum, a sua volta dal gallico *brako- (“fango”).

[16] Chiaro è il motivo della differenziazione dei tempi verbali: il passato remoto (fui) indica il titolo nobiliare, che non esiste più dopo la morte, mentre il presente (son) il nome di battesimo di ciascuno, che resta per l’eternità.

[17] Forma semplice, rispetto al composto “in-sanguinando”, ma con lo stesso valore transitivo di “macchiare di sangue”, invece che col valore attuale, intransitivo, di “sangue che esce da una ferita”.

[18] La parte eterna dell’uomo, cioè l’anima.

[19] Col valore di “pieno di nuvole”.

[20] La pioggia che la terra non poté sopportare, cioè assorbire.

[21] Venivano detti “reali” i fiumi che, come qui l’Arno, sfociavano direttamente nel mare.

[22] Più che “precipitò” (l’Archiano scorre ormai in pianura quando entra nell’Arno) vale probabilmente “si gettò con violenza” (per la sua gran massa d’acqua dovuta alle piogge abbondanti).

[23] È il dolore per i propri peccati più che non quello fisico dell’agonia.

[24] Sincope per sàllosi (“lo sa”).

[25] I due verbi (“inanellare” e “disposare”) indicano i due momenti della cerimonia delle nozze: la volontà (in latino spondeo, ed il suo composto dispondeo, significano “promettere”) e il gesto concreto di tale volontà, cioè il mettere l’anello al dito.

 

 

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