Il Maestro di color che sanno… Purgatorio XIX

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Amos Nattini (1892-1985), Gli avari e i prodighi, 1912-1941

 

Ne l’ora che non può ’l calor diurno

intepidar più ’l freddo de la luna,

vinto da terra, e talor da Saturno

 

– quando i geomanti[1] lor Maggior Fortuna

veggiono in orïente, innanzi a l’alba,

surger per via che poco le sta bruna -,

 

mi venne in sogno una femmina[2] balba,

ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,

con le man monche, e di colore scialba.

 

Io la mirava; e come ’l sol conforta

le fredde membra che la notte aggrava,

così lo sguardo mio le facea scorta

 

la lingua, e poscia tutta la drizzava

in poco d’ora, e lo smarrito volto,

com’ amor vuol, così le colorava.

 

Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,

cominciava a cantar sì, che con pena

da lei avrei mio intento rivolto.

 

«Io son», cantava, «io son dolce serena,

che ’ ’marinari in mezzo mar[3] dismago[4];

tanto son di piacere a sentir piena!

 

Io volsi Ulisse del suo cammin vago

al canto mio; e qual meco s’ausa,

rado sen parte; sì tutto l’appago!».

 

Ancor non era sua bocca richiusa,

quand’una donna apparve santa e presta

lunghesso me per far colei confusa.

 

«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,

fieramente dicea; ed el venìa

con li occhi fitti pur[5] in quella onesta.

 

L’altra prendea, e dinanzi l’apria

fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;

quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

 

Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: «Almen tre[6]

voci t’ho messe[7]!», dicea, «Surgi e vieni;

troviam l’aperta per la qual tu entre[8]».

 

Sù mi levai, e tutti eran già pieni

de l’alto dì i giron del sacro monte,

e andavam col sol novo a le reni.

 

Seguendo lui, portava la mia fronte

come colui  che l’ha di pensier carca,

che fa di sé un mezzo arco di ponte;

 

quand’io udi’ «Venite; qui si varca»

parlare in modo soave e benigno,

qual non si sente in questa mortal marca[9].

 

Con l’ali aperte, che parean di cigno,

volseci in sù colui che sì parlonne

tra due pareti del duro macigno.

 

Mosse le penne poi e ventilonne,

‘Qui lugent’ affermando esser beati,

ch’avran di consolar l’anime donne[10].

 

«Che hai che pur inver’ la terra guati?»,

la guida mia incominciò a dirmi,

poco amendue da l’angel sormontati.

 

E io: «Con tanta sospeccion fa irmi

novella visïon ch’a sé mi piega,

sì ch’io non posso dal pensar partirmi».

 

«Vedesti», disse, «quell’antica strega

che sola sovr’a noi omai si piagne;

vedesti come l’uom da lei si slega.

 

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro[11] che gira

lo rege etterno con le rote magne».

 

Quale ’l falcon, che prima a’ pié si mira,

indi si volge  al grido e si protende

per lo disio del pasto che là il tira,

 

tal mi fec’io; e tal, quanto si fende

la roccia per dar via a chi va suso,

n’andai infin dove ’l cerchiar si prende.

 

Com’io nel quinto giro fui dischiuso,

vidi gente per esso che piangea,

giacendo a terra tutta volta in giuso.

 

‘Adhaesit pavimento anima mea’

sentia dir lor con sì alti sospiri,

che la parola a pena s’intendea.

 

«O eletti di Dio, li cui soffriri[12]

e giustizia e speranza fa men duri,

drizzate noi verso li alti saliri».

 

«Se voi venite dal giacer sicuri,

e volete trovar la via più tosto,

le vostre destre sien sempre di fori[13]».

 

Così pregò ’l poeta, e sì risposto

poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io

nel parlare avvisai l’altro nascosto,

 

e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:

ond’elli m’assentì con lieto cenno

ciò che chiedea la vista del disio.

 

Poi ch’io potei di me fare a mio senno,

trassimi sovra quella creatura

le cui parole pria notar mi fenno,

 

dicendo: «Spirto in cui pianger matura

quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi,

sosta un poco per me tua maggior cura.

 

Chi fosti e perché vòlti avete i dossi

al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri

cosa di là ond’io vivendo mossi».

 

Ed elli a me: «Perché i nostri diretri

rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima

scias quod ego fui successor Petri.

 

Intra Sïestri e Chiaveri s’adima[14]

una fiumana bella, e del suo nome

lo titol del mio sangue fa sua cima[15].

 

Un mese è poco più prova’ io come

pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,

che piuma sembran tutte l’altre some.

 

La mia conversïone, omè!, fu tarda;

ma, come fatto fui roman pastore,

così scopersi la vita bugiarda.

 

Vidi che lì non s’acquetava il core,

né più salir potiesi[16] in quella vita;

per che di questa in me s’accese amore.

 

Fino a quel punto misera e partita

da Dio anima fui, del tutto avara;

or, come vedi, qui ne son punita.

 

Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara

in purgazion de l’anime converse[17];

e nulla pena il monte ha più amara.

 

Sì come l’occhio nostro non s’aderse

in alto, fisso a le cose terrene,

così giustizia qui a terra il merse[18].

 

Come avarizia spense a ciascun bene

lo nostro amore, onde operar perdési,

così giustizia qui stretti ne tene,

 

ne’ piedi e ne le man legati e presi;

e quanto fia piacer del giusto Sire,

tanto staremo immobili e distesi».

 

Io m’era inginocchiato e volea dire;

ma com’io cominciai ed el s’accorse,

solo ascoltando, del mio reverire,

 

«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».

E io a lui: «Per vostra[19] dignitate

mia coscïenza dritto mi rimorse».

 

«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,

rispuose; «non errar: conservo sono

teco e con li altri ad una podestate.

 

Se mai quel santo evangelico suono

che dice ‘Neque nubent’ intendesti,

ben puoi veder perch’io così ragiono.

 

Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;

ché la tua stanza[20] mio pianger disagia,

col qual maturo ciò che tu dicesti.

 

Nepote ho io di là ch’à nome Alagia,

buona da sé, pur che la nostra casa

non faccia lei per essempro malvagia;

 

e questa sola di là m’è rimasa».

 

 

[1] Il nome «geomante» indica, etimologicamente, quegli indovini che traggono i loro presagi da figure disegnate sul terreno (dal greco ghé, «terra», e mantis, «indovino»). Formazione simile è quella di «negromante» (attraverso la frequentazione dei morti: necrȯs, «morto»), «chiromante» (attraverso la lettura della mano: cheira, «mano») e «oniromante» (attraverso l’interpretazione dei sogni: oneirata, «sogni»).

[2] Il termine ha qui valore chiaramente dispregiativo, come si può argomentare sia dal contesto che dalla contrapposizione con «donna» del v. 26.

[3] Costruzione latineggiante, equivalente a in medio mari («nel mezzo del mare»).

[4] Come anche «smago, vale letteralmente «indebolire, fiaccare»: qui, con maggiore intensità, «affascinare» o, addirittura, «far venir meno per il piacere».

[5] Qui «pur» assume entrambi i valori consueti nell’opera: sia «solamente» sia «continuamente».

[6] Altro esempio di rima composta: si deve leggere come un’unica parola, come se fosse quindi «alméntre».

[7] Dal participio latino missae (< verbo mittere), vale «indirizzate, inviate».

[8] Forma arcaica della 2a persona singolare del congiuntivo presente, così da non confonderla con la 1a (in -i) e la 3a (in -a): «che io dichi, che tu diche, che egli dica».

[9] Termine di origine feudale indicante una regione di confine, retta da un marchese o (alla tedesca) da un margravio (< Markgraf, letteralmente «conte di una Marca»). Di qui il toponimo odierno della regione Marche.

[10] Non col valore moderno generico, ma con quello specifico di «signore» (< lat. domina, «padrona»).

[11] Letteralmente il «logoro» era un finto uccello che, mosso dal falconiere, serviva da richiamo per gli uccelli da cacciare. Qui ha il valore traslato di «richiamo, invito».

[12] Caso, abbastanza raro, di infinito sostantivato declinato al plurale (vale dunque «sofferenze»). Allo stesso modo, anche per esigenze di rima, del «saliri» al v. 78.

[13] Rima composta e imperfetta (detta anche «siciliana»), in quanto rimante con «sicuri».

[14] Dall’aggettivo latino imus («basso»), è neologismo dantesco per significare «si abbassa, scende».

[15] L’espressione «fa sua cima» quasi certamente è del linguaggio araldico e significa «segna la parte superiore di uno scudo» (o di uno stemma): infatti il nome del fiume si trova sulla parte superiore del blasone della famiglia Fieschi di Lavagna.

[16] Il riferimento agli onori indica che qui il termine «avarizia» va inteso nel senso di «cupidigia». Infatti il termine latino avaritia deriva dal verbo aveo («desidero, bramo»).

[17] Da intendere in due modi possibili: «convertite, pentite» o «girate in giù, bocconi», dato che le anime in questa cornice sono appunto coricate col viso rivolto verso terra.

[18] Dal latino mergere, vale «abbassò, volse in giù». Nell’uso odierno abbiamo solo i composti (di significato opposto tra loro) «immergere» ed «emergere».

[19] Saputo che l’anima fu in vita Pontefice, Dante passa dal «tu» (vv. 93-96) al «voi» di cortesia e di rispetto.

[20] Il termine equivale ad un infinito sostantivato: «il tuo fermarti qui».

 

 

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