Nel Vangelo di Luca è contenuta una parabola o, meglio, un detto del Signore Gesù, a prima lettura pare inaccettabile. Parliamo della parabola del servo inutile: «Chi di voi, se ha un servo a pascolare il gregge gli dirà quando rientra dal campo: Viene subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,7-10).
Il quadro è decisamente fastidioso: il padrone sta a casa e non fa nulla, il servo è fuori a faticare; al rientro di questi dai campi, trova il padrone a tavola che pretende di essere immediatamente servito, e gli si concede di poter mangiare più tardi, una volta accontentato il padrone. Il colmo lo si raggiunge quando si commenta che il servo non solo non deve lamentarsi, ma deve anche auto-riconoscersi come inutile.
Questa è Parola di Dio, santa e sacrosanta, quindi va capita nel suo significato.
Per poterci addentrare in una comprensione che ci faccia capire l’intendimento di Gesù, prendiamo le due parole chiave, servo e inutile, e concentriamoci su quelle.
Nella nostra cultura odierna, almeno in occidente, non esiste più la figura del servo, perché chiunque lavori per noi è uno stipendiato (una badante, un maggiordomo, un addetto alle pulizie) o un volontario (un familiare). Il servo che viva in casa e che non riceva uno stipendio, se non il vitto e alloggio, ma senza alcun diritto, non esiste più, come non esiste più la figura dello schiavo. Che poi ci siano altre forme di servitù e di schiavitù, oggi, è altro discorso. Rimaniamo al linguaggio del tempo e alla comprensione non simbolica del testo.
La parola “servo” pare dunque negativa alle nostre orecchie, ma non lo era per il Signore Gesù, tanto che Egli stesso si definisce servo quando afferma: «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito, e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). La Santa Vergine Maria non è da meno: dopo aver ricevuto l’annuncio dell’Arcangelo che la rese Madre di Dio per opera dello Spirito Santo, affermò: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). E il grande apostolo Paolo, come definisce se stesso? Guarda caso, con la stessa parola; scrive infatti all’inizio della Lettera ai Romani: «Paolo, servo di Gesù Cristo…» (Rm 1,1). Pietro non è da meno, nell’incipit della Seconda Lettera: «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo… (2 Pt 1,1). Poteva il primo Vescovo di Gerusalemme, l’apostolo Giacomo, cugino del Signore, scrivere diversamente? “Giacomo, servo di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo…”» (Gc 1,1).
Nell’Antico Testamento, tralasciando tutte le altre citazioni, basti quella dei famosi «Canti del Servo di Jawhè» contenuti nel libro di Isaia, che tutti i commentatori riferiscono a Gesù Cristo e ai suoi patimenti.
Dunque, la Sacra Scrittura è piena di persone che si definiscono servi. L’accezione perciò non può essere così negativa. Nella tradizione della Chiesa, troviamo che il papa Gregorio Magno si firmava «servo dei servi di Dio», e tale espressione poi passò come corretta e usuale per tutti i Papi successivi. Nessun Papa si vergogna di definirsi tale. Se andiamo nel mondo dei Santi, poi, ci si perde, tanti sono quelli che continuamente si definiscono con questa parola. Ne prendiamo però uno, che usò in modo del tutto positivo addirittura la parola e il concetto di schiavo: san Luigi Maria Grignion de Montfort. Il centro della sua spiritualità mariana fu quello di proclamare la propria schiavitù assoluta nei confronti della Vergine Maria. Si proclamò schiavo e scrisse un libro (Il trattato della vera devozione mariana) nel quale invitava tutti i cristiani a farsi schiavi della Madonna. Come segno visibile per tutti, affinché non si equivocasse, si era dato una catena, che si era legato al polso, e che portò per tutta la vita. La gente vedeva arrivare questo straordinario personaggio, un vero cataclisma e flagellatore del peccato, un predicatore come pochi ve ne furono al mondo, con una catena sempre stretta al braccio, segno della sua appartenenza definitiva e totale ad un altro, un padrone (in questo caso, ad una padrona).
Chi è lo schiavo? Ne capii l’essenza e il dramma quando lessi il libro Radici dello scrittore afroamericano Alex Haley. Qui si racconta il fenomeno della schiavitù americana dei secoli XVIII e XIX dando voce ai protagonisti, ossia agli uomini che furono realmente schiavi e proprietà di altri uomini. La cosa peggiore per uno schiavo non erano le punizioni, le frustate, il disprezzo da parte dei padroni – cose per altro orribili – ma il fatto di poter essere venduto. Vi era per esempio una famiglia di padre, madri e tre bimbi, che vivevano come schiavi, mettiamo, nella fattoria del padrone X. Arrivava un bel giorno il signor Y e comprava come schiavo l’uomo. Questo veniva prelevato immediatamente e portato magari a mille chilometri distante a lavorare nella fattoria del nuovo padrone, senza più alcuna possibilità di poter tornare dalla propria moglie e dai propri bambini. Stessa cosa se fosse stata comprata la moglie: il marito se la vedeva prelevare e rimaneva di punto in bianco senza la propria sposa e madre dei propri figli, senza sapere dove essa andasse a finire, perché comprata come una qualsiasi merce senz’anima. Al di là delle violenze che poi potevano essere perpetuate sugli schiavi, è il concetto della vendita che risulta essere la violenza delle violenze, l’umiliazione assoluta, l’annientamento totale e radicale di ogni dignità umana. La cosa è totalmente inaccettabile per principio. Nessun uomo può mai essere privato della propria dignità e della propria libertà. Nessun uomo “appartiene” per soldi ad un altro uomo.
Ebbene, è proprio questo il significato spirituale della parola “schiavo”, quando la persona decide di rendersi schiava volontariamente di altra persona. Lo schiavo, in questo caso, decide di non appartenersi più, di non avere più una propria volontà, una propria vita, un proprio progetto, di non avere più né moglie né marito, né figli né parenti, né proprietà né pensieri propri. Lo schiavo volontario si dona e si consegna totalmente ad altra persona, che è Dio, rinnegando pienamente se stesso. Ciò è assolutamente perfetto se viene fatto a Dio, è diabolico se viene fatto a qualsiasi cosa che non sia Dio. L’uomo spirituale sa di essere corrotto dal peccato originale, e al tempo stesso sa che Dio lo ama, vuole il suo bene, e conosce il bene dell’uomo più di quanto non lo conosca l’uomo stesso. Da qui ne viene la consegna. L’uomo spirituale dona la propria volontà a Dio perché sa che facendo giorno per giorno la volontà di Dio egli sarà realizzato e quindi felice; l’uomo spirituale non compie nulla che non sia nella volontà del “padrone” perché il padrone gli ordina giorno per giorno le cose che rendono felice l’uomo in una maniera impensabile. Dio, il “Padrone”, dona all’uomo-consegnato la sua stessa vita, e così l’uomo diviene partecipe della vita del Padrone, anzi, diventa misteriosamente padrone a sua volta. Quindi l’uomo schiavo non ha la mentalità dello schiavo, si sentirà al contrario perfettamente libero («la Verità vi farà liberi»), perché ha dato in schiavitù l’uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e di fatto dando se stesso rinasce come uomo nuovo, pienamente rinnovato nello Spirito. Tale uomo naturalmente potrà avere una famiglia propria, un lavoro, dei figli, ma non ha più una sua volontà, perché egli, in Cristo, è la volontà del Figlio al Padre.
Essere schiavi di Dio, in questo senso, significa gustare al sommo grado la libertà, quella che il mondo non può dare, perché non possiede.
E veniamo alla seconda parola fastidiosa: inutile. Io sono veramente inutile? Il solo pensarlo mi dà depressione. In realtà io voglio essere utile a qualcosa o qualcuno, e constatare che non servo niente a nessuno, che la mia vita scorre nel totale anonimato, che non so fare niente di buono e che non farò mai niente di valido, questo davvero non mi piace. Se faccio un buon piatto da mangiare, mi piace vedere il volto festoso dei commensali e sentire i loro ringraziamenti; significa che sono stato utile a loro; se lavoro dalla mattina alla sera negli uffici o nei campi, per mantenere la famiglia, mi sento utile almeno a loro e alla crescita dei figli… No, non posso proprio godere di essere inutile.
Ma, ragioniamo: il malato è utile a qualcosa? Il bambino appena nato, di due giorni di vita, è utile a qualcosa? Il ferito, l’anziano con il morbo di Alzeimer, l’invalido, il povero barbone che viene a bussare tutti i giorni alla mia porta, è utile a qualcosa? No, sono persone che non servono niente, se la mentalità con la quale valutiamo l’utilità è quella dell’homo faber che serve solo in quanto produce. Questo è l’uomo di Marx: una macchina da lavoro, un fabbricante di beni e di produzione, un fabbricatore. Beh, se le cose stanno così anche l’attore del cinema, il calciatore della squadra di calcio, il funambolo del circo, non sono utili: il mondo andrebbe avanti anche senza di loro. Infine, se avessero senso solo le persone utili nel senso produttivo-economico, il mondo sarebbe desolatamente semi-vuoto e triste.
Che valore ha quello che faccio, se esso non entra nella valenza dell’atto di amore? Questa è la bilancia d’oro con la quale pesiamo l’utilità dei nostri atti: se hanno la qualità dell’amore, perché l’uomo è fatto per l’amore. Dio infatti ci ha chiesto di credere al Suo Amore per noi e per ricambiarLo ci ha dato un infallibile strumento pratico: l’amore per il prossimo. Dunque, solo l’amore, nell’ottica vera, è utile, perché produce amore, fa dilagare la carità, rende bella la creazione, rende significativa e meravigliosa ogni vita. Sì, meravigliosa, come fu la vita di san Massimiliano Maria Kolbe nel lager, come fu quella dei martiri nei loro luoghi di prigionia, come fu quella di san Luigi Martin, che faceva l’orologiaio e di san Giuseppe Benedetto Labre, che cercava da mangiare nei bidoni della spazzatura. La loro vita, disprezzabile agli occhi degli uomini, era la sola cosa bella che irradiava luce nelle contrade e nei luoghi di questi mirabili eroi della santità nascosta.
Ogni nostro atto è inutile se non produce luce di amore, come a dire che è atto perduto per sempre, non salvato, non redento, non creativo. Se invece tutto questo fosse compiuto anche da un bambino, da un vecchio, da un ebete o semi-ebete, allora esso è totalmente utile.
Ne viene che i grandi e i ricchi e i potenti fanno fatica a salvarsi. Non lo dico io, ma Gesù nel Vangelo. E il motivo è perché contemplano le loro ricchezze e i loro atti di potenza come utili e buoni per gli altri, mentre non lo sono affatto. Sono ciechi e rapiti da se stessi. Il giglio del campo non sa di avere una veste splendida, non sa di essere bellissimo, non si guarda allo specchio: esso è utile. Un bambino di pochi giorni che fa il primo sorriso non aumenta il Pil dello Stato, ma rende bella la vita della casa e fa felice il cuore della mamma: è utile!
Cosa ne viene? Che le persone più utili sono quelle che accolgono il Vangelo e lo mettono in pratica. Agli occhi del mondo saranno forse anche disprezzati, emarginati e derisi… Non importa. È a questa “armata Brancaleone” che viene affidata la salvezza del mondo, o per lo meno, che porta avanti la Verità di Dio senza preoccuparsi troppo dei propri risultati più o meno “utili”. L’armata Brancaleone è la squadra degli utili “idioti” (non è un’offesa: anche san Francesco di Assisi si definiva un idiota, nel senso di illetterato, di poco sapiente) che rende bello il mondo con la propria fede e la propria libertà.
Il Vangelo traduce tutto questo con due semplici parole: servi inutili. Che sono due parole bellissime, perfette, che ci riempiono di felicità e di orgoglio di appartenenza. Io non sono né utile né interessante: sono amato. E questo mi basta.
A voi no?