Festa della Repubblica e Costituzionalismo

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Ogni anno i festeggiamenti del 2 giugno ci riportano al momento fondativo della Repubblica italiana: il 2 e il 3 giugno 1946 gli italiani vennero chiamati alle urne per decidere, tramite un referendum, se adottare la forma repubblicana di Stato o conservare quella monarchica. Il risultato della consultazione popolare, con 12.717.923 voti per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia, portò ad adottare la forma repubblicana. Pochi giorni dopo l’ufficializzazione definitiva del risultato del referendum, il 25 giugno 1946 si insediò anche l’Assemblea Costituente, con Giuseppe Saragat (1898-1988) alla presidenza, incaricata di redigere una nuova Carta costituzionale.

La Costituzione, intesa come legge fondamentale dello Stato, cristallizzata in un testo scritto, che sancisce tutti i principi che regolano i rapporti pubblici e privati, è un’idea relativamente recente. Ci si propone qui di analizzare, sia pur brevemente, l’origine di questa idea di Costituzione e vedere quale fu, invece, il modello cui si contrappose la Costituzione o, per meglio dire, il Costituzionalismo.

Innanzitutto la nostra Costituzione, intesa come carta formale che regola l’organizzazione dello Stato e sancisce diritti e doveri dei cittadini, presuppone il costituzionalismo, che (con la terminazione -ismo) indica l’ideologia, alla base della realizzazione della Costituzione stessa.

Le prime Costituzioni moderne che pongono le basi per quelle successive, in particolare per quelle ottocentesche, sono quella americana del 1787 e quella francese del 1791. Prima non esistevano altre forme di Carta fondamentale simili; se taluno citasse la Magna Charta[1], il Bill of rights[2]o le Constitutiones Melphitanae[3], con l’intenzione di annoverarle come Costituzioni, rischierebbe di mettere sullo stesso piano situazioni storiche e dottrine politiche e giuridiche profondamente diverse.

Il Costituzionalismo assume come postulati la «teoria della divisione dei poteri» e la «teoria dei diritti dell’uomo». Il potere (costituito) ne costituisce la premessa nella sua supposta sovranità ed il termine (nei risultati costituzionali da ottenere). Il potere è limitato nei modi e nelle forme che il potere stesso stabilisce, con le procedure e con gli obiettivi che esso si dà, a garanzia dei diritti, che l’autorità politica considera tali, da esercitarsi nel perimetro normativo che il potere stesso stabilisce.[4]

A fianco del Costituzionalismo, caratterizzano la modernità sul piano politico e giuridico l’Assolutismo, il concetto di Sovranità, il Contrattualismo e la teoria giusnaturalistica di matrice protestante e razionalista dei diritti naturali innati. Tutti concetti di cui ci occuperemo in appositi articoli specifici.

I modelli monarchici proficui allo sviluppo di queste idee sono la Monarchia assoluta e quella parlamentare, che hanno come prototipo rispettivamente il Trono francese con Luigi XIV (1638-1715) e quello inglese con Guglielmo III d’Orange (1650-1702), chiamatovi dal Parlamento nella Gloriosa Rivoluzione del 1688-1689. Entrambe affondano le loro radici nell’esperienza delle Monarchie nazionali del Rinascimento, ma ne sviluppano due aspetti diversi. La Monarchia assoluta pone l’accento sulla concentrazione del potere e sulla Sovranità, con la separazione progressiva dai ceti intermedi, privati gradualmente di ogni potere. Quella parlamentare inglese, “limitata”, mantiene i legami con la nobiltà e il clero (che componevano la Camera dei Lords) e l’alta borghesia (che componeva la Camera dei Comuni); questi limiti vengono segnati nel Bill of rights (1689), anche se non si può qui parlare di una Costituzione moderna vera propria, perché si tratta di un mero patto tra Re e Parlamento, patto che non pretende di fondare nuovi diritti, ma di  ribadire i vecchi principi che hanno da sempre regolato i rapporti tra Monarchia e Parlamento inglese.

Questi due diversi modelli monarchici sono alla base delle due diverse Rivoluzioni che segnano la nascita dello Stato contemporaneo (o, meglio, saranno alla base dei modelli di Stato liberale ottocentesco): all’esperienza della Monarchia limitata si riallaccia la Rivoluzione americana, che, però, darà alla luce una Repubblica presidenziale; a quella della Monarchia assoluta la Rivoluzione francese che ribalterà la sovranità del Re con quella del popolo o, rectius, della nazione, come vedremo.

I coloni americani, dopo la vittoriosa guerra contro la madrepatria, approvarono la loro Costituzione, la cui ispirazione derivava dall’idea puritana, secondo la quale la Chiesa e lo Stato sono fondati su un contratto (Covenant: nella Chiesa, tra Dio e i fedeli; nello Stato, tra i cittadini). La Costituzione americana è stata la prima ad essere scritta, dopo l’Agreement of the people, approvato dall’esercito di Oliver Cromwell (1599-1658) nel 1647, ma mai entrato in vigore, perché i suoi autori volevano sottolineare che essa è un atto consapevolmente voluto dal popolo. Si tratta di un atto voluto in modo cosciente, in un momento preciso che pone le basi dello Stato e lo rende legittimo; nella prospettiva antica e medievale la “costituzione”, intesa come forma dell’organizzazione politica e sociale è un’eredità, non una legge posta.

La Rivoluzione francese fece tabula rasa della vecchia organizzazione sociale e politica. Rovesciò l’assolutismo monarchico e affermò la concezione totalitaria della rappresentanza: il soggetto rappresentato non è il popolo reale nel suo complesso, con le sue articolazioni, ma un’astrazione: la Nazione, in senso rivoluzionario e razionalistico, poi riassunta nella famosa definizione di Joseph Ernest Renan (1823-1892) come «un plebiscito di tutti i giorni». Questa sostituzione di un’idea astratta al popolo reale, politicamente organizzato, consentì alla borghesia, una classe ristretta, di presentarsi non già come un ceto tra gli altri, ma come la portatrice (la rappresentante) della volontà di tutti: la sua volontà è la volontà della nazione. Questo segna la moderna rappresentanza e la subordinazione diretta della società al potere politico, senza più alcuna mediazione di corpi intermedi dotati di potestà: il sogno dell’assolutismo, solo con la differenza che la sovranità non appartiene più al Re, ma alla nazione (ossia sempre più al ceto borghese). Per la prima volta nella storia, tutto il potere viene concentrato in un solo organo: nessuno ne conserva una briciola.

Queste tappe, brevemente esposte, mostrano come la nostra Costituzione sia eredità di eventi ed elaborazioni che hanno poco più di duecento anni, un’esperienza relativamente recente, se si guarda la storia nel suo complesso. Riportiamo qui le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, proferite durante la Festa della Repubblica di questo 2 giugno, che indicano proprio la mentalità scaturita dalle idee delle due Rivoluzioni:

«Il Costituzionalismo ispirato dall’Illuminismo inseriva nelle Carte il diritto alla ricerca della felicità. Il preambolo alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti reca questo inciso, peraltro suggerito da un grande pensatore italiano, Gaetano Filangieri. Da quel bellissimo richiamo – presente in qualche Costituzione ai giorni nostri – la nostra Carta indica il diritto al lavoro, che, a ben vedere, è un altro modo di declinare la dignità umana, fatta di realizzazione personale e di strumenti di sostentamento, sulla strada della felicità. Questo è un impegno impresso come incipit nella nostra Costituzione e ripreso nei primi quattro articoli con una chiarezza e una forza eccezionali. Sono anche articoli pieni di speranza e proiettati verso le nuove generazioni».

La speranza, la dignità umana, la felicità sono riposte nell’elaborazione illuministica delle prime Carte costituzionali; pare che, se non ci fossero arrivati loro, gli Illuministi, i cittadini non avrebbero saputo vivere dignitosamente. La Repubblica, il potere politico costituito, garantisce tutto questo e lo sottoscrive formalmente in un pezzo di carta. Al di fuori di tutto questo, cosa esisteva? Ci si potrebbe domandare come vivessero prima del Costituzionalismo, come facessero a realizzare le libertà, come facessero ad essere realmente felici, senza una carta che formalmente indicasse questo a tutti i cittadini. Molto semplicemente l’ordine politico e giuridico era basato sulla Consuetudine, su una Costituzione storica, ossia un’eredità tramandata nel tempo, in una parola, sulla Tradizione.

La Consuetudine consiste in un comportamento costante e uniforme (diuturnitas), con la convinzione che tale comportamento sia doveroso e moralmente obbligante; questo, però, nulla ci dice sulla sua validità e sull’origine della Consuetudine stessa: da dove riceve la sua forza obbligante? Il contenuto della Consuetudine è fondamento del suo attuarsi o il suo attuarsi è il fondamento del suo contenuto. Nel primo caso l’ontologia del contenuto della Consuetudine fonda la sua deontologia: la sua legittimità si fonda sulla sua finalità, nell’ordine etico-metafisico, in quanto l’essere precede e fonda l’agire. Nel secondo caso, invece, il contenuto della Consuetudine risulterebbe indifferente e sarebbe l’azione a precedere l’essere: l’indeterminato avrebbe priorità sul determinato[5].

La Consuetudine è il consolidamento di un agire, che a sua volta si basa sull’ontologia di chi agisce. La Consuetudine ha la sua incidenza sull’agire, in quanto rende agevole e spedito un determinato atto o comportamento. La Consuetudine è quasi naturale (consuetudo est similis naturae diceva San Tommaso), perché è ordinata alla natura e vi coopera con il vigore dell’inclinazione oggettiva del soggetto agente. Emerge, così, la profonda umanità nella Consuetudine, più che nel cristallizzare un testo scritto con la formulazione astratta di specifici principi, in quanto la Consuetudine esprime la naturale razionalità e libertà del soggetto umano: si aderisce spontaneamente ad una consuetudine, la si può tenere in vita, trasmettere o modificare. Si resta realmente liberi nella Consuetudine, ma si rimane ad essa inclinati, perché ne si coglie, secondo il nostro giudizio razionale, un valore autentico a cui ci si sente spontaneamente di conformarsi.

La legge consuetudinaria (non scritta o, eventualmente, poi consolidata in un testo scritto) è ciò che ha retto e mosso ogni civiltà antica e medievale, pressoché fino all’epoca contemporanea, quando, poi, è diventata subordinata alla legge (consuetudo secundum legem).

L’esperienza mostra sia consuetudini virtuose che cattive, ma c’è altresì da dire che quelle virtuose lo erano perché conformi al diritto divino, naturale o rivelato.

 

 

[1]La Magna Charta Libertatum è una carta emanata nel 1215 dal Re Giovanni Senzaterra Plantageneto (1166-1216), costretto dai baroni inglesi a riconoscere loro una serie di libertà e privilegi in un documento solenne. Le parti non rispettarono gli accordi sanciti nella Carta e scoppiò la «guerra dei baroni» (1215-1217). Terminato il conflitto tra nobiltà e Re di Inghilterra, essa fu nuovamente concessa, con alcune modifiche, nel 1225 da Enrico III (1207-1272) e confermata nel 1297 da Edoardo I (1239-1307), entrando a far parte delle leggi fondamentali del regno inglese.

[2] È una dichiarazione degli «antichi diritti e libertà» dei ceti intermedi inglesi elaborata dal Parlamento e accettata dal Re Guglielmo III d’Orange (1650-1702), chiamato sul trono di Inghilterra dopo la deposizione di Giacomo II Stuart (1633-1701), nel 1689. Da non confondere con i primi dieci emendamenti della Costituzione americana, che enunciano i diritti fondamentali del cittadino, approvati nel 1791 anch’essi con il nome di Bill of rights.

[3] Compilazione legislativa di Federico II di Svevia (1194-1250) realizzata nel 1231.

[4] Cfr. Giovanni Turco, Costituzione e Tradizione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2014, p. 11.

[5] Ivi, pp.124-125.

 

 

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