Come un videogioco

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   L’episodio del mese scorso al Salone del libro di Torino, del resto forse favorito dall’establishment politicamente corretto del Salone in cerca di visibilità, è da valutarsi anche nel merito. Si è infatti stabilita una correlazione stretta e automatica tra il femminismo militante e forme di violenza sistematizzata, che non a caso e simbolicamente assumono l’aborto come bandiera; progetto di morte, che porta con sé la morte della ragione, la morte delle idee, la morte del linguaggio.

Militanti? A parte l’evocazione aggressiva che viene dalla parola stessa[1], c’è da chiedersi per cosa e come effettivamente “militino” coloro che sono solo emanatori di slogan, i quali a loro volta non sono espressione di un’ideologia, di un interesse, di un movimento, ma si risolvono in sé, nell’imposizione violenta, nel silenzio imposto agli altri. Il diritto all’aborto, urlato come slogan di mera prepotenza sonora, isolato da qualunque ragionamento e contestualizzazione sociale, morale, psicologica, rivela la sua essenza omicidiaria e nihilista. Il femminismo che vi si identifica si autodistrugge, ridotto a mero puntello del sistema globalizzato, in gruppi di manovra da spostare a secondo delle opportunità mediatiche.

Non viene colta l’occasione di discutere, propagandare, far conoscere le proprie idee, persuadere, convincere; ma solo quella di produrre silenzio, sconcerto, o addirittura rigetto. Testimoniare una qualche convinzione in modo prepotente, in sfida a proibizioni che non esistono, non richiede né competenza né coraggio, né può contribuire ad una qualunque lotta, alla sua crescita, a fare proseliti. Si risolve in sé, per venire immediatamente assorbito dalla virtualità, dal social, come la mossa di un videogioco. Movimenti e rivoluzioni hanno forme di contestazione clamorosa, che vuole manifestare l’adesione di classe o di categorie sociali a parole d’ordine e ideologie, in quanto queste ultime intendono rivolgersi contro un sistema di potere, per combatterlo ed eventualmente sostituirsi ad esso. Ma qui siamo in presenza di attivisti pro-sistema, felicemente sponsorizzati da organizzazioni internazionali, apparati mediatici, star dello spettacolo, fondazioni, ricchissimi e potenti sostenitori: una vera e propria oligarchia tirannica.

Ciò che unisce questo complesso globalizzato è l’intento totalitario di imporre il silenzio a chi ne evidenzia lo strapotere e argomenta il dissenso: così, nel loro piccolo, le “femministe militanti” non fanno che eseguire gli ordini. Perché discutere, argomentare, quando si parte da un pregiudizio preconfezionato, pret-à-porter, e quando comunque per farlo occorrerebbe (saper) leggere, ascoltare, informarsi, parlare?

 

Servitù volontaria ai miti del postmoderno

 Fare dell’aborto un simbolo della libertà delle donne è purtroppo il punto di arrivo di uno svuotamento morale ed intellettuale del movimento femminista. Ma oggi siamo ad una svolta imposta dal sistema che dà ai presupposti insiti nelle parole d’ordine “il corpo è mio ecc..” uno svolgimento che vi era implicito e fatale. Negando le implicazioni morali dell’aborto, ed ogni considerazione per una vita negata anche in via concettuale, si rinuncia all’integralità dell’identità femminile, si fa del corpo della donna un involucro, si mutila la sua psiche (anima) dei legami profondi con la natura. Le teorie transfemministe completano l’opera, negando il sesso, definito mera accidentalità manipolabile, e consegnando le donne all’ideologia queer che le offende e le svilisce. Così quell’involucro può diventare macchina e merce, essere posto sul mercato senza che – come per l’aborto, mero scarto- vi sia pertinenza di morale, giustizia, diritti. Ecco l’utero in affitto, negazione definitiva del legame madre-figlio, alienazione di forza-lavoro strappata dal più profondo dell’essere, dal fondamento della vita; ecco il bambino-prodotto, il bambino fabbricato, i cui diritti umani essenziali, nativi, vengono negati originariamente e ripristinati successivamente solo in quanto oggetto di proprietà privata.

La contraddizione tra il femminismo “militante” superficiale e urlante, e l’utero in affitto è quindi apparente in quanto essi sono complici dei programmi di sfruttamento globalizzato delle donne. La donna-involucro può mettere sul mercato i suoi organi riproduttivi, liberarsi dei prodotti indesiderati e vendere le varie funzioni e il prodotto finale. Ed è già operante la feroce ipocrisia intorno al “diritto al figlio” e alle “madri surrogate” altruistiche ovvero emancipate imprenditrici.  Gena Corea, pioniera della critica alla MAP e al GPA, paragona l’attuale dispiegamento delle tecnologie riproduttive al Progetto Manhattan di costruzione della bomba atomica americana.

L’inimicizia donna-uomo, la narrazione femminista falsificata di lettura della storia in un’ottica riduttiva e anacronistica che disconosce in essa il ruolo e il contributo delle donne, perviene agli esiti del resto prevedibili: polarizzazione del mondo quanto alla condizione femminile, nuove forme di sfruttamento; le tante donne nell’establishment dell’occidente, servizievoli, fanno scrupolosamente la loro parte nel sostituire alle rivendicazioni sociali la mitologia dei diritti, in modo che appaia una sorta di continuità, tra il progresso delle donne nelle professioni, nella politica, nello spettacolo, e la negazione dell’identità femminile integrale. Questa è una falsificazione storica, perché la critica laica e la lotta contro il patriarcato laico – che non ha nulla a che vedere con il pater familias di natura cristiana – ha raccolto le donne intorno alla valorizzazione della loro specificità, alla responsabilità, sensibilità, intelligenza intorno ai temi della famiglia, educativi, delle comunità, del territorio, della pace. Tutto questo viene ignorato (da “ignoranza”), svenduto, rinnegato, a pro di un individualismo infelice e disorientato, di una servitù volontaria a miti consumistici, mediatici, estetici e peggio. E si può addirittura interpretare ciò come una forma di recupero e di rivincita da parte del patriarcato laico, per un sistema di potere totalitario, che prepara il passaggio al cyborg e all’uomo aumentato. A questa transizione l’establishment femminista, le carriere universitarie, politiche, mediatiche costruite sul gender e i diritti LBGT ecc. prestano spesso ciecamente il supporto ideologico.

D’altra parte l’espressione pubblica del dissenso, la protesta, va valutata in riferimento al contrapposto antagonista, clamorosa e assertiva più esso è impersonale; altrimenti è squadrismo, intimidazione e aggressione. Chi si presta a queste azioni si definisce da sé, ma anche chi commenta sul “dover aspettarsi il dissenso” si pone sullo stesso piano, perché ben sa, ovvero non arriva a capire, che in questo caso la protesta urlata esprime solo l’odio psicotico, di comparse nel teatrino della politica di mestiere.

Ma vi è qualcosa di più triste, in queste persone incapaci di relazionarsi al momento, per introdurvi istanze reali e programmi alternativi, vi è l’incapacità ad essere qualcosa al di fuori del social, dell’approssimazione mentale, del linguaggio spezzettato, dell’esecuzione di gesti prestabiliti, robotici. È la psicologia del videogioco, che cerca il nemico per distruggerlo, e gode in quel momento fuggente, e poi ricomincia da capo, all’infinito. Quest’astrazione dalla realtà, questa perdita delle proporzioni e degli spessori, è tipica di chi esegue, ripete: è agito e non agisce; è mancanza di attenzione, di ascolto, anche di curiosità verso l’altro da sé, il venir meno della presenza come intelligenza del reale per dominarlo e mutarlo.

 

Agenti di accettabilità sociale di un futuro disumanizzato

 Chi sono, quindi, queste “femministe” sbraitanti, se non i propagandisti e mistificatori sul fronte avanzante della tecnologizzazione dell’umano, per un mondo burocratizzato, diretto dalla casta dell’avere e del potere? La negazione del legame carnale, spirituale, affettivo che si stabilisce tra feto e madre nella gravidanza, è uno degli aspetti della propaganda abortista antifemminile, ma è anche una premessa teorica (completamente antiscientifica, ma a loro cosa importa?) della riproduzione artificiale degli esseri umani, dal GPA verso le manipolazioni eugenetiche basate sull’ectogenesi e l’ereditarietà.

Così il “progetto genitoriale” congegnato per soddisfare “il diritto al figlio” per tutte le varianti del gender, nega la donna, ma nega anche al bambino il diritto (questo sì!) di venire alla vita in un complesso umano integrale, di storia e memoria, non tecnologico, non mercantile, non reificato[2].

L’incapacità delle abortiste esagitate a confrontarsi e discutere non è quindi -purtroppo- il centro della questione; lo dimostra del resto la simpatia verso l’azione squadristica da parte del PD-ceto. Ben più ampi i programmi, gigantesche le risorse investite nel cyborg e nell’IA, di cui i “movimenti per i diritti” e la pseudosinistra forniscono gli agenti di accettabilità sociale.

[2] Nel 2001 Jurgen Habermas, in Il futuro della natura umana Einaudi 2002, rifletteva sui “rischi di una genetica liberale” prevedendo gli attuali scenari.

 

 

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