Branda de’ Lucioni, «comandante dell’ordinata Massa Cristiana», e la disonestà della propaganda faziosa

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Nel dizionario della lingua piemontese di Casimiro Zalli[1], pubblicato nel 1815, s’incontra la voce Branda, o Brandalucion. A questi termini, che pur sono registrati anche da qualche moderno vocabolario della lingua italiana (ad esempio dal «Battaglia»), non tutti saprebbero oggi dare un significato preciso. Zalli fu tra i primi a spiegare che il nome era derivato «dal maggior giubilato Branda de’ Lucioni, il quale l’anno 1799 fece il precursore delle armate austro-russe, raccogliendo masse di villani ed altri realisti o nemici dei francesi» e precisò che il termine si era poi esteso in senso spregiativo a «tutti gli amici della casa di Savoia e a tutti quelli che si volevano rendere sospetti o calunniare».

La lingua piemontese e quella italiana hanno tramandato sino ai giorni nostri, in modo complessivamente corretto, la memoria dei «Branda» e del loro comandante. Assai meno obiettivo è invece il ricordo delle gesta di quegli antichi difensori della libertà del Piemonte tracciato da tanti storici, che sembrano aver studiato gli eventi del 1799 attraverso il filtro della propaganda degli invasori, o attraverso quello della propria diretta faziosità più che alla luce di quanto accadde effettivamente.

Nel bisecolare periodo trascorso dalla Rivoluzione Francese, infatti, una sorta di lobby dominante in ambito storiografico, ha inalveato – anche a livello piemontese – la propria visione in una corrente ideologica informata ai principi rivoluzionari. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: mentre i giacobini sono stati celebrati in ogni modo, sulla generalizzata insofferenza popolare nei confronti degli invasori si è, per quanto possibile, taciuto. Come si è taciuto (provate, ad esempio, a trovarne notizia nei libri di scuola) sulla resistenza che portò, non solo in Piemonte, ma in tutt’Italia, al fenomeno capillare e vasto delle insorgenze antigiacobine e antirepubblicane.

Se si volesse ricostruire una biografia del Branda Lucioni denigratoria a senso unico o all’insegna di una conclamata malafede, non ci sarebbe, nell’individuazione delle fonti, che l’imbarazzo della scelta. Le accuse rivolte contro di lui sono un trionfo di luoghi comuni e generiche affermazioni di ogni possibile bruttura e gratuita violenza. Terribili e variegatissime sono, infatti, le colpe che i suoi nemici giurati pretesero o pretendono di attribuirgli; fra essi figuravano in primis, superfluo dirlo, gli invasori del Piemonte, giacobino-repubblicani o sostenitori del carnevalesco ed effimero impero napoleonico, poi la compagine, relativamente striminzita, ma assai attiva, di collaborazionisti e traditori che servirono gli aggressori e occupanti, talora con alibi ideologici, altre volte per palese codardia o opportunismo. Ai contemporanei seguirono i loro sodali nel campo della divulgazione (o, letteralmente, invenzione) storiografica, pronti ad assumere il ruolo di pedissequi ripetitori e reiteratori delle fandonie coeve, ora per faziosità, adesione e intenti ideologi, ora per semplice sciatteria o pigrizia.

 

Abbattimento dell’albero della libertà in piazza Castello a Torino (26 maggio 1799), riproduzione fotografica da G. Verani, acquerello,  1800 ca.,  R0344109 – Sala 5 – Italia: occupazione francese e triennio rivoluzionario 1796-1799 Museo del Risorgimento di Torino 

 

Chi scrive ha tentato, molti anni fa, di dare consistenza concreta alle generiche accuse di malversazioni d’ogni genere rivolte al Lucioni e ai suoi Brandalucioni: negli archivi o nelle storie comunali pubblicate di diversi luoghi toccati da Branda Lucioni e dalla Massa Cristiana che egli guidava è stato più agevole trovare le prove e conferme di soprusi commessi dagli invasori, come pure dei prelievi fiscali e pesanti gravezze da loro imposti a danno dei Piemontesi che delle malversazioni “reazionarie”.

Nei fraudolenti e falsificatori editti pubblicati dal governo franco-giacobino, o da quello piemontese collaborazionista, si potevano trovare sul maggiore Branda frasi come questa: «Uno schiavo, un satellite di un despota, un uomo, che si fa chiamare Branda Lucioni, e si dice Comandante dalla parte dell’Imperatore la Massa Cristiana, alla testa di alcuni briganti, cerca di portare la desolazione, il terrore, e la morte nel seno delle […] famiglie e ardisce ciascun giorno mandare lettere per far insorgere il Popolo contro i Francesi […]». Oppure si leggeva che la pubblica tranquillità era turbata «da gente ingannata, e sedotta dalle lusinghe, e dalla malizia del sedicente Comandante la Massa Cristiana, Branda de Lucioni, e da nemici di ogni ordine sociale […]».

Bene, le stesse posizioni, quando non addirittura le stesse espressioni, le possiamo ritrovare nell’opera di storici più e meno noti.

Un ruolo potente nel creare un’immagine negativa a senso unico di Lucioni lo ebbe Carlo Botta che lo dipinse a tinte fosche nel volume 3° della sua diffusissima Storia d’Italia dal 1789 al 1814, data alle stampe in anni non molto lontani dai fatti. Ma Botta era sostanzialmente un giacobino e i suoi giudizi non erano per nulla affidabili, né quando era tra i capi del governo piemontese al servizio degli invasori, né nel quadro della sua opera di storico palesemente di parte, sicché, come annota Andrea Merlotti nella voce dedicata a Branda nel Dizionario biografico degli Italiani «di rado i dati di Botta sul Lucioni sono attendibili: quando è possibile sottoporli al vaglio delle fonti, risultano spesso erronei» mentre «il suo giudizio storico si confonde spesso con quello politico».

Le orme di Botta furono seguite pedissequamente dai suoi compagni e, in progresso di tempo, Lucioni e coloro che lo seguivano furono raccontati come sempre più feroci, sempre più ladri, sempre più ubriaconi. Troppi scrittori piemontesi e italiani, con lo sguardo velato da faziosità partigiana, anziché stigmatizzare le violenze giacobine, le molte vittime, gli incendi o i gravi danneggiamenti di interi borghi (Carmagnola e Strevi ne sono esempi) oppure i ladrocini sistematici messi in atto dagli invasori, trovarono funzionale per sostenere le proprie ideologie puntare il dito non sugli aggressori, ma sugli aggrediti che osavano difendersi.

Solo per citare qualche esempio, Giovanni De Castro, nel settimo volume della Storia politica d’Italia scritta da una società d’amici sotto la direzione di Pasquale Villari (Milano, Vallardi, 1881), scrive, scopiazzando da Nicomede Bianchi, a sua volta emulo di Botta e di altri:

«Un Branda-Lucioni, veterano dell’esercito austriaco, bevitore e fanatico, si associa due cappuccini, impugna la croce, si mette capo delle “masse cristiane”; e quel che fece lui, quel che i sanfedisti che egli menava al saccheggio e alla strage, se lo ricorda il Piemonte, dove si dà ancora del Branda ad un arrabbiato partigiano. In ogni luogo per cui passasse quel divoto ubbriacone atterrava l’albero [della libertà], rizzava la croce, a lungo pregava, si confessava, si comunicava, e così pareva pigliasse licenza a rubare e a scannare; c’era in lui del sacro e del profano, del frate e del bandito. Fra le altre bugiarderie spacciava, che gli era apparso Gesù Cristo a promettergli che di vittoria in vittoria avrebbe progredito sino a liberare la Francia dal giogo dei repubblicani.  I contadini gli credevano, e facevano schiamazzi e giuramenti parte ridicoli, parte terribili, ma seguiti da fatti atroci. Portavano via i calici dalle chiese, benché si dichiarassero servitori della fede, paladini della religione. Alcune borgate rifiutarono di riconoscere il Branda-Lucioni, ma avendo egli risposto che farebbe loro leggere il regio mandato al chiarore delle fiamme delle loro case incendiate, si rassegnarono ad essere taglieggiati. I Russi si stringono intorno a Torino, ed egli si mette con loro per far quell’ingresso, per trionfare, per sbevazzare.

Nella città non c’era un presidio francese sufficiente, ma c’era il generale Fiorella, uomo risoluto. Wukassowich gli intima la resa; risponde che vuol difendersi. I Russi piantano le batterie, slanciano delle bombe, incendiano alcune case; tra repubblicani e imperiali Torino correva estremo pericolo: ma la guardia urbana apre le porte, i Francesi si chiudono nella cittadella, i Russi e i villani armati col loro Branda-Lucioni si spargono nelle vie. Indescrivibile l’esultanza da un lato, il terrore dall’altro; parecchi liberali furono assassinati, ad alcune case si diede il sacco; gli onesti o timidi cittadini si appiattavano o fuggivano; dalle finestre si calavano continuamente mangiari e fiaschi di vino per festeggiare i soldati o meglio per abbonirli» (p. 40).

Con tanta “autorevole” disinformazione e con esplicite citazioni di brani tratti dalla citata Storia d’Italia del Botta, si giungerà alla definitiva acquisizione del termine Branda alla lingua piemontese e italiana cui si è accennato sopra. Lo troveremo menzionato e pappagallescamente definito anche nel curioso e per molti versi interessante Glossario storico popolare piemontese. Dichiarazione di CCX voci, motti locali e locuzioni proverbiali di origine storica di Ugo Rosa (Torino, Libreria Ermanno Loescher di Carlo Clausen, 1889, pp. 24-25).

 

La cinta muraria di Torino e le sue porte nel XVIII secolo

 

In realtà Lucioni veniva a liberare il Piemonte dagli invasori. Se vi era qualcuno che doveva essere terrorizzato dalle sue gesta, questi erano solo i franco-giacobini o i loro – per la verità mai numerosissimi – portaborse nostrani. Le popolazioni delle campagne, al contrario, lo seguivano con entusiasmo, ingrossando di paese in paese la cosiddetta «Massa Cristiana», da lui guidata per fare piazza pulita dei repubblicani.

Sotto il profilo storiografico molti considerano la rivoluzione francese come un evento ancora in pieno svolgimento, suscettibile di essere interpretato, in relazione alle differenti convinzioni politiche di chi lo studia, in modi diametralmente opposti. Una

piena libertà d’opinione si dovrebbe tuttavia accompagnare meglio ai francesi, piuttosto che ai piemontesi o ad altri italiani. I transalpini, osservando oggi la rivoluzione, che fu, in primis, una questione domestica della Francia, possono, in effetti assumere, più liberamente, la posizione che meglio credono: favorevole, tiepida, contraria, a seconda che si sentano intimamente più “giacobini”, “liberali”, “monarchici”. I piemontesi non dovrebbero avere altrettante possibilità di scelta: se si accantonano per un attimo le giustificazioni ideologiche, spesso strumentali, in campo restano aggressori ed aggrediti, invasori ed invasi.

Se il destino di Branda non fosse stato, per così dire, ingiusto, il nome del vecchio maggiore dell’esercito imperiale, anziché essere dimenticato o addirittura esecrato, sarebbe oggi, tra i popoli piemontesi, leggendario e campeggerebbe sul piedistallo di qualche monumento e sulle targhe che danno nome alle strade delle nostre città.

Per Branda, almeno sino a non molti anni or sono, l’antico detto proverbiale «il tempo è galantuomo» pareva non avere alcun significato. Recentemente però gli studi su di lui si sono moltiplicati e in alcuni di questi, finalmente, l’epopea degli insorgenti piemontesi è rievocata in modo obiettivo. Ne è un interessante esempio, tra altri, il volume di Marco Albera ed Oscar Sanguinetti, Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Massa Cristiana (Libreria Piemontese Editrice, 1999).

Gli autori si soffermano, come precisa il sottotitolo del libro, su vari aspetti e figure dell’insorgenza antigiacobina e della liberazione del Piemonte nel 1799. Essi effettuano una ricostruzione degli eventi, ponendo al centro della loro indagine la personalità e la biografia del Lucioni, sul quale, affermano, molto si è scritto, «ma quasi sempre con tale superficialità e tale faziosità da stuzzicare solo per questo l’interesse dello studioso».

Finalmente grazie alle ricerche condotte anche da alcuni altri studiosi seri e documentati, tra i quali si deve ricordare specialmente lo storico e poeta Gustavo Buratti, dagli anni novanta del secolo scorso la figura del Lucioni ha potuto affiorare dalla nebbia e dal mistero che l’avvolgevano, per assumere contorni biografici reali, con notizie sulla nascita, sulla famiglia (appartenente, come vari elementi indicano, alla nobiltà lombarda) e sulla carriera di ufficiale valoroso, talora sino alla temerarietà.

Branda era nato nella fortezza di Winterberg (oggi Wimperk, Boemia) nel 1740 da Giuseppe, ufficiale nell’armata imperiale che vi prestava servizio (la cui famiglia aveva sede in Abbiate Guazzone) e da Francesca Uslenghi, da Castiglione Olona, figlia anch’essa di un ufficiale di nobili natali. Seguendo le tradizioni dei propri avi intraprese la carriera militare. Sposò nel 1773 Maria Teresa Landriani figlia del conte Pietro Paolo, rappresentante di un’influente casata milanese. Nel 1799, senza dilungarci sul suo curriculum anteriore, lo troviamo in Piemonte, apripista, come si è accennato sin dall’incipit di questo articolo, dell’armata austro-russa.

Nel delineare le vicende della Massa Cristiana i citati Sanguinetti e Albera spazzano via una volta per tutte, «con pacata obiettività», come scrive Mauro Ronco nella prefazione, l’immagine del mostro fanatico e sanguinario che da sempre era stata riservata a Branda. L’ampia ricerca e la severa valutazione critica delle fonti d’archivio e bibliografiche non conducono certo – rilevando nell’operato del maggiore non solo luci ma anche ombre – a “beatificare” il condottiero degli insorgenti, ma certo non ne dannano la memoria. Il lettore anzi è portato a comprendere, dopo due secoli di silenzi o falsità sul Lucioni, che è giunto il momento di rivalutarne la personalità.

Per contro non è impossibile che un giorno, se è vero che «il tempo è galantuomo», nel dimenticatoio ci vadano gli storici e le case editrici che hanno fatto del conformismo e dello spirito di fazione (ma non l’ammetterebbero mai) i cardini della propria attività editoriale e pubblicistica.

 

 

[1] Il Dizionario in questione viene ancora editato, come dimostra l’immagine, pubblicato da Forgotten Books, Londra 2018.

 

 

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