Beato Sinforiano Ducki, il frate martirizzato ad Auschwitz

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«Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi militi ignoti della grande causa di Dio. Per quanto è possibile, non devono andare perdute nella Chiesa le loro testimonianze»: così scriveva il pontefice polacco Giovanni Paolo II nella memorabile lettera apostolica Tertio Millennio adveniente.
Tra gli innumerevoli testimoni della fede elevati agli onori degli altari nel suo lungo pontificato, il 13 giugno 1999, a Varsavia, ne beatificò ben 108, suoi connazionali e vittime del regime nazista. In quel numero erano inclusi 5 Frati Minori Cappuccini, che subirono il martirio singolarmente in date diverse e furono poi accorpati successivamente in un’unica causa di beatificazione.
Il Martyrologium Romanum, nella sua ultima edizione, li commemora separatamente nell’anniversario del martirio di ciascuno.

Tra pochi giorni ricorre l’ottantesimo anniversario della nascita al Cielo di uno di essi, il Beato Sinforiano Ducki, che nacque il 10 maggio 1888 a Varsavia da Giuliano Ducki e Marianna Lenardt. Al battesimo, celebrato il 27 maggio seguente, ricevette il nome di Felice (in polacco Feliks). Egli frequentò le scuole elementari nella nativa Varsavia.
Quando nel 1918 i Cappuccini fecero ritorno al proprio convento, abbandonato in seguito alla soppressione zarista del 1864, Felice, «definendosi aspirante di vecchia data all’Ordine», si unì a loro, prima come aspirante, rendendosi utile alla riorganizzazione del convento, e poi come postulante, nel giugno del 1918. Dopo un biennio di prova, il 19 maggio 1920, iniziò a Nowe Miasto, con il nome di Sinforiano, il noviziato, che concluse il 20 maggio 1921 con la professione temporanea. Terminato l’anno di noviziato, si dedicò al servizio fraterno nei conventi di Varsavia, di Lomza e di Varsavia (dal 27 maggio 1924), fino alla professione solenne, che si celebrò il 22 maggio 1925.
A Varsavia svolse prima la mansione di fratello questuante, impegnandosi nella raccolta di offerte per la costruzione del Seminario minore di San Fedele e poi fu nominato, per diversi anni, fratello compagno del ministro provinciale. Di carattere semplice e amichevole, facilmente conquistava la simpatia del popolo e nuovi amici all’Ordine. Nonostante la sua vita molto attiva tra la gente, non perse mai lo spirito di preghiera e di devozione, distinguendosi per una orazione devota e fervorosa. Era molto stimato dagli abitanti della capitale.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale si adoperò per non far mancare il necessario né ai suoi frati né ai bisognosi fino al 27 giugno del 1941, giorno in cui la Gestapo arrestò tutti i 22 Cappuccini del convento di Varsavia. In un primo tempo Sinforiano fu internato nella prigione di Pawiak, e poi, il 3 settembre, ad Auschwitz. Di costituzione robusta, soffrì più degli altri la fame, sopportando tutto in silenzio. Le misere razioni fornite dai tedeschi, infatti, non coprivano nemmeno un quarto del fabbisogno dell’organismo di un uomo normale. Dopo sette mesi, fu condannato ad una morte lenta ed atroce.
Una sera, mentre i tedeschi avevano iniziato a trucidare in modo bestiale i prigionieri, fracassando loro la testa a manganellate, Sinforiano li affrontò segnando su di loro il segno della croce. Il testimone oculare e compagno di prigionia, Czeslaw Ostankowicz, dichiara che ci fu un attimo di sbigottimento, seguito dall’ordine di bastonarlo. Fra’ Sinforiano fu colpito da una manganellata in testa e stramazzò al suolo, ai piedi dei tedeschi, fra loro e i prigionieri. Poco dopo ebbe la forza di risollevarsi e rifece il segno della croce. Fu allora che lo assassinarono. Era l’11 aprile 1942. La morte di Sinforiano mise fine alla tremenda esecuzione che i tedeschi stavano perpetrando e una quindicina di prigionieri si salvò grazie al suo intervento. Questi caricarono con grande venerazione la salma del frate milite di Cristo, insieme alle altre sul carro che le avrebbe portate al forno crematorio. Con il suo martirio Sinforiano ha dimostrato grande eroismo, ha professato la fede nella Santissima Trinità e ha salvato la vita a molti compagni di sventura.

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26-27). In questo religioso scorgiamo un uomo che ha vissuto tutto ciò in pienezza.

 

 

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