Quarant’anni fa lasciava il mondo una grande anima, Re Umberto II

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Quest’anno ricorrono 40 anni dalla dipartita del sovrano re Umberto II, ultimo Re d’Italia, una straordinaria figura storica, ma anche di coscienza squisitamente cattolica. Il suo alto profilo istituzionale, patriottico e spirituale fanno di lui un’eccellenza nel panorama dei monarchi. La tragedia della seconda guerra mondiale lo ha travolto, fino a fargli scegliere l’esilio volontario in Portogallo – terra per molti versi sabauda, a cominciare dalle sue stesse origini con la Regina Mafalda di Savoia, sposa di Alfonso I, che edificò sul luogo delle future apparizioni di Fatima una chiesa alla Gran Madre di Dio nel 1154 – per non incorrere, nonostante gli appoggi che avrebbe avuto non solo dalla maggioranza monarchica popolare (che venne ingannata dai brogli elettorali perpetrati in particolare da Palmiro Togliatti in accordo con l’ala democristiana, solidale alle volontà antimonarchiche statunitensi) dall’esercito regio, dall’Arma dei Carabinieri e dalle forze militari polacche, in una nuova guerra civile, ma non l’ha scalfito dal punto di vista della sua personalità votata all’amore per l’Italia e gli italiani.

La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, in piazza Carlo Alberto, fondata dal grande Vittorio Amedeo II di Savoia, gli ha dedicato una mostra proprio per commemorare l’anniversario della sua scomparsa avvenuta a Ginevra alle ore 15:35 del 18 marzo 1983 all’età di 79 anni non ancora compiuti, essendo nato a Racconigi il 15 settembre 1904.

Prezioso, dunque, il ricordo di questo anniversario che viene realizzato grazie alla documentazione e alle testimonianze provenienti dalla stessa Biblioteca Nazionale, dal Centro Studi Piemontesi e da un archivio privato. La mostra, aperta il 17 marzo scorso, presenta libri, giornali, cartoline, cimeli che evocano momenti di vita pubblica e intima di Umberto II ed è visitabile fino al 30 aprile, dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle 16, a ingresso gratuito.

La mostra è stata allestita dove l’esposizione permanente della Libreria della Regina Margherita nella Biblioteca, il cui direttore, Guglielmo Bartoletti e il presidente dell’Associazione Amici della Biblioteca Nazionale, Antonielli d’Oulx, hanno dichiarato: «La Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ha sempre avuto un profondo legame con la Città e con la Real Casa di Savoia. Fondata da Re Vittorio Amedeo II nel 1720 ed aperta al pubblico nel 1723 quale prima biblioteca al servizio di tutti, da quei primi “doni” del Sovrano, si è arricchita di innumerevoli tesori che oggi, dopo 300 anni, continua a custodire e preservare affinché il sapere sia a disposizione di tutti. Il legame con Casa Savoia è proseguito in vari modi e con varie donazioni, ma uno dei fondi che più si lega alla Real Casa d’Italia è la biblioteca della Regina Margherita di Savoia.

 Nel corso del 2022, l’intero fondo librario – composto da 13.560 volumi – è stato oggetto di un nuovo ambizioso progetto, promosso dalla Biblioteca Nazionale in collaborazione con Culturalpe s.c. e con il supporto di ABNUT, volto alla conservazione, valorizzazione e libera fruizione della raccolta tramite la revisione inventariale e la catalogazione informatica di tutte le opere in essa comprese, in funzione del loro trasferimento dai depositi alla Sala mostre della Biblioteca, secondo un allestimento permanente atto a favorirne una conoscenza quanto più ampia e trasversale possibile.

Non c’è quindi luogo migliore dell’atrio della Sala Regina Margherita per rendere omaggio a S. M. Umberto II».

Il Centro Studi Piemontesi nel contribuire ad accrescere la documentazione presente alla mostra si è valso delle proprie testimonianze, a cominciare dai contatti personali che legarono il suo fondatore, Renzo Gandolfo, con Umberto II, producendo così una raccolta bibliografica e fotografica di valore, arricchita da un insieme di eloquenti memorie umbertine di vita quotidiana e politica, messo a disposizione della mostra grazie ad un socio anonimo del Centro stesso.

Scrive Gustavo Mola di Nomaglio, vice presidente del Centro Studi Piemontesi, all’interno di un opuscolo di presentazione dell’allestimento torinese: «Nel sintetico panorama tracciato nella mostra si susseguono e intrecciano evocazioni dei ruoli di Umberto in diversi momenti di una vita in cui ebbe ruoli forse più autonomi e determinanti, talora, più di quanto una certa vulgata intenda accordargli. La sua stessa carriera militare è talora sottovalutata, quasi la divisa che ordinariamente indossava, come tante fotografie e cartoline esposte in mostra documentano, fosse solo meramente formale. Nel decennale della morte Alessandro Cavalchini Garofoli, compianto socio del Centro Studi Piemontesi, partigiano valoroso e docente universitario, ricordò che Umberto adempì sempre con estremo rigore ed efficacia ai propri doveri militari. Lo fece nelle incombenze quotidiane, nei viaggi di Stato in cui gli erano riservate trionfali accoglienze e anche nelle contingenze belliche dalle quali i comandanti militari non riuscirono a tenerlo lontano (nel tentativo di preservare l’incolumità dell’erede al trono) come accadde alla vigilia della battaglia di Montelungo, quando, volontario, volò a fianco di un pilota americano in una ricognizione aerea irrinunciabile per la sua importanza ma pericolosissima, poiché doveva solcare un tratto di cielo capillarmente battuto dalla contraerea tedesca, il cui attraversamento già era costato caro ad altri ricognitori. Vi fu chi considerò la missione quasi suicida. Umberto fu proposto per la Silver Star americana e solo per questioni di “opportunità politica” non ne fu poi decorato».

Che cosa sarebbe successo se Umberto II fosse rimasto a Roma come avrebbe voluto? Che cosa sarebbe successo se non avesse scelto l’esilio, ma la lotta per la corona? Non possiamo sapere, di certo Umberto II fu non solo fisicamente, ma anche caratterialmente e politicamente diverso da suo padre. Quando incontrammo nella sua proprietà di Bolgheri, il luogo dei cipressi poeticamente declamato ed eternato da Giosuè Carducci, il marchese Fausto Solaro del Borgo, che fu incaricato di raccogliere le volontà di re Umberto II nel corso degli ultimi anni della sua vita, ebbe a dire: «Se fosse morto in Portogallo lasciò detto che doveva essere sepolto nel cimitero dei poveri con una croce di pietra […]. Molto difficile da analizzare [il suo temperamento, ndr],  perché aveva degli aspetti inspiegabili. Riservatezza, reticenza, preoccupazione costante […] tutto ciò derivava per me dal rapporto con il padre. Di Vittorio Emanuele II non parlava mai, neppure con mio padre Alfredo, amico d’infanzia del Re, nonché suo procuratore generale; ma non solo, ha distrutto tutto ciò che riguardava suo padre. Non è stato trovato un pezzo di carta, nulla. L’archivio raccoglie la documentazione fino a re Umberto I. Dopo, più nulla. Io ho trovato le cartelle che teneva nel suo studio, che evidentemente dovevano contenere carteggi di consultazione, vuote. Due aiutanti di campo di Umberto II mi hanno raccontato che nel febbraio 1982 per due giorni il sovrano avrebbe dato fuoco a delle carte. Come avesse voluto cancellare il periodo che ha portato alla fine, il dramma dal fascismo in avanti. Una questione personale, una tragedia familiare: non se ne doveva parlare.

Da qui si spiegherebbe anche la ricerca della dimensione triste: Cascais, non l’allegra Madrid! Non andava mai nei ristoranti, cercava trattorie e pizzerie. Quando lo vedevo a Ginevra andavamo in una piccola pizzeria italiana. A Cascais mangiava invece da un pescatore.

La sua religiosità – dalla quale il padre Vittorio Emanuele rimase sempre orgogliosamente distante – si accrebbe di giorno in giorno.

Un eremitico stile di vita il suo, dove trovava spazio una profonda vita di fede, nella continua ricerca della modestia, della preghiera, della mortificazione […]. Non si considerava un ex re d’Italia, si considerava un esiliato. Non usava il passaporto diplomatico rilasciatogli dal nipote, re del Belgio, viaggiava con un passaporto da apolide con le conseguenze immaginabili: a ogni frontiera veniva invitato al posto di polizia per accertamenti!

Non si apriva con nessuno, anche con gli ufficiali che hanno vissuto con lui più di trent’anni di esilio […]. A questo sovrano va riconosciuto l’enorme merito di aver salvato l’Italia dalla rivoluzione»[1].

 

Re Umberto II, che da giovane fu principe amato e stimato in Italia e non solo, ad esclusione del regime fascista, è stato un raffinato intellettuale, amante delle lettere, bibliofilo,  numismatico ed esperto in sfragistica,  lo studio dei sigilli dal punto di vista diplomatico, tecnico, storico e artistico, una scienza che ha stretti legami con l’araldica. Appassionato cultore degli studi storici, ha dedicato gran parte delle sue giornate in esilio ad approfondire ed analizzare saggi, arricchendo sempre più la sua formidabile biblioteca, il luogo prediletto del suo eremitaggio lusitano.

Cristianamente riservato, parco e umile com’era, documentalmente parlando ha lasciato ben poco di sé, se non le fotografie che gli altri gli scattavano e le testimonianze su di lui, ed è anche per questa ragione che risulta interessante la mostra di Torino che è stata organizzata in suo onore.

Alle sue esequie disertarono le autorità italiane[2] e disertò la RAI. La sola manifestazione di pubblico cordoglio in Italia al Re fu il segno di lutto al braccio di tutti i giocatori della Juventus nella partita del 20 marzo 1983 contro il Pisa.  Le sue ultime parole non potevano che essere rivolte alla sua carissima Italia, della quale desiderava baciarne il suolo prima di morire. Correva voce che il presidente della Repubblica Sandro Pertini fosse incline a permetterglielo, ma l’iter burocratico ne impedì la realizzazione. Nella mostra è presente una vignetta di Forattini, pubblicata da «La Stampa» il giorno 19 marzo 1983, che rappresenta Pertini con le braccia legate in forma di nodo sabaudo. Tuttavia, se Umberto II non poté andare nella sua terra, furono molti italiani ad andare da lui al suo solenne funerale, celebrato all’Abbazia di Hautecombe, fondata dal suo antenato, il crociato Amedeo III[3], conte di Savoia: erano in 10 mila[4].

 

 

 

 

 

[1] C. Siccardi, Maria Josè – Umberto di Savoia. Gli ultimi sovrani d’Italia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, pp. 290-291.

[2] Con l’eccezione di Maurizio Moreno, console generale d’Italia a Lione, in rappresentanza del governo.

[3] Le origini risalgono ad una comunità religiosa di monaci cistercensi dell’abbazia di Clairvaux, che avevano aderito alla regola benedettina proposta da San Bernardo e intorno al 1100 si erano stabiliti in un vallone alto (alta comba, haute combe) su una montagna vicino al lago del Bourget che allora si chiamava Lago di Chatillon. Nel 1125, il monaco cistercense san Bernardo di Chiaravalle, esortò gli eremiti a stabilirsi sulla sponda opposta del lago, su un terreno che era stato donato ad Amedeo di Clermont d’Hauterives (secondo abate) dalla famiglia Savoia.

[4]  Alle esequie erano presenti, oltre ai membri di Casa Savoia: Juan Carlos I di Spagna e Sofia di Grecia; Baldovino e Fabiola del Belgio; Giovanni di Lussemburgo e Giuseppina Carlotta del Belgio; il principe Ranieri di Monaco con il figlio Alberto; il duca Eduardo di Kent in rappresentanza di Elisabetta II del Regno Unito; i sovrani detronizzati Simeone II di Bulgaria, Michele I di Romania e Costantino II di Grecia, Ottone d’Asburgo-Lorena con il figlio Carlo d’Asburgo-Lorena, Ferdinando di Borbone delle Due Sicilie con il figlio Carlo, Enrico d’Orléans, Carlo Napoleone Bonaparte, Duarte Pio di Braganza del Portogallo, e i rappresentanti di altre case già regnanti. La Santa Sede era rappresentata dall’allora arcivescovo Angelo Felici, nunzio apostolico a Parigi.

 

 

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