Modelli morali e familiari: un viaggio nel tempo – I

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DALL’ACCADEMIA PLATONICA ALLA “VILLA DEI MISTERI”

I promotori di un’Europa scristianizzata hanno il problema di darsi un passato, cercando nell’antichità classica precedenti e analogie, possibilmente con letture sensazionalistiche di reperti e documenti. Ma al di là delle operazioni destrutturanti e banalizzanti, e a smentire i ricorrenti aneliti neopagani evocanti un indistinto balenare di efebi e nude beltà, l’antichità greco-romana offre un volto marmoreo poco adattabile ai moderni relativismi; essa testimonia e ci ammaestra casomai sul fatale intreccio tra decadenza morale e catastrofe politica.

Platone sarebbe incorso oggi in reato di omofobia, visto che sull’omosessualità esprime nei Dialoghi e soprattutto ne Le leggi riprovazione morale e civile, e conseguente proibizione normativa. Nel dialogo Il Simposio mette in bocca prima a Fedro, poi a Pausania una tipica difesa della pederastia, quindi al commediografo Aristofane un apologo, appunto assai teatrale, dove in forma grottesca ne inventa un mito di origine.[1] Tali interventi rappresentano le tappe, le opinioni false ed infondate, lasciandosi indietro le quali si perviene alla coerenza razionale professata da Socrate; il quale del resto, anche in altri dialoghi, contrappone all’impostura retorica di tali rilassati costumi, il dominio di sè e l’integrità morale.

Particolare, Dioniso visita la casa di Icarios, rilievo in marmo, I secolo a.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale

La mitologia evocava, nella personificazione analitica e visionaria degli impulsi originari, delle passioni e delle follie umane, tutte le possibili varianti della sensualità. Il filosofo, il legislatore, di ciò consapevole, doveva operare per l’equilibrio e l’ordine nell’individuo e nella polis, pena la degenerazione e il soccombere al caos e ai nemici. In tale prospettiva, nell’Atene del V secolo a.C. l’omosessualità veniva a costituire un problema, anche perché moda influenzata dal regime militare di Sparta e dalle corrotte corti orientali.

Quindi l’immagine di una Grecia che aveva normalizzato omosessualità e pederastia, non corrisponde a verità, dato che tali comportamenti erano pubblicamente disapprovati e puniti se vi era coercizione o mercimonio. Vi erano norme per la protezione dei ragazzi, mentre i trascorsi omosessuali tra adulti potevano comportare la perdita di diritti civili e in ogni caso non dovevano essere esibiti, in quanto indecorosi per la polis.

Il fatto che ci siano pervenuti ovviamente solo testi di letterati, filosofi e legislatori, ci dà d’altra parte una visione probabilmente accentuata del fenomeno, perché è proprio nell’élite che esso aveva i suoi propagandisti e i suoi normatori. Dai primi venivano idealizzati rapporti maestro allievo –che oggi chiameremmo senz’altro pedofili – in cui si eufemizzava una specie di scambio tra dono intellettuale e favori sessuali; ciò era inoltre giustificato con la più esplicita misoginia, dando per scontata l’esclusione delle donne dall’istruzione e quindi da ogni elevatezza di pensiero. Solo tra uomini –sostenevano i vari Alcibiade – potevano esserci rapporti ispirati a sentimenti superiori, puri, disinteressati: argomento che puntualmente fa capolino presso gli omosessualisti di ogni epoca. Va anche detto che proprio in quella stessa élite, per motivi di trasmissione dei patrimoni, più rigida ed esclusiva era la divisione dei ruoli e degli ambiti di vita tra uomini e donne.

Stele tombale del saluto, metà IV secolo a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale

Eppure –o forse proprio per questo- Platone fa culminare l’ascesa razionale del Simposio[2] con il discorso di Diotima, sacerdotessa di Mantinea, quindi dando la parola –nella finzione letteraria- ad una donna. Che significato ha questo? Di un paradosso? O si riconosce nella donna una più acuta consapevolezza delle leggi profonde dell’essere? O si dà testimonianza che ai livelli della più alta moralità ed intellettualità, lo squilibrio tra i due sessi si rivela irrilevante e contingente?

Interrogativi a cui in una certa misura dà risposta il dialogo La Repubblica, ove, prefigurando uno Stato ideale informato alle supreme finalità morali e governato da un re-filosofo e da una casta di “custodi”(o “guardiani”), affronta in termini espliciti la questione della differenza tra i sessi: i custodi possono essere sia uomini che donne, scelti con criteri etici rigidissimi, votati al bene pubblico, incorruttibili, la cui stessa sessualità è disciplinata a fini eugenetici. In tale contesto, il genere è un particolare ininfluente, la selezione è sull’idoneità del singolo/a a far parte della casta. Questo, data la proiezione utopica antidemocratica della Repubblica platonica, è un’intransigente e inequivocabile affermazione di principio sulla parità uomo-donna.

Diverso è il trattamento della questione quando Platone affronta ne Le leggi un complesso di norme per disciplinare concretamente l’ordine politico e sociale di un modello di  città, ipotetico anch’esso, ma calato nella dimensione storica. Risalendo indietro nel tempo individua l’equilibrio e la giusta misura nella società agricola precapitalista, autosufficiente e conservatrice. In essa è essenziale la trasmissione tra generazioni di competenze e valori, corrispondenti alla dimensione dell’economia contadina, non consumistica e moderatamente mercantile: solo l’istituto matrimoniale tradizionale patriarcale –che unisce la spontaneità naturale ed affettiva alla responsabilità- dà fondamento alla famiglia in quanto nucleo educativo, economico e di stabilità morale e civile.

Del resto, nella Grecia classica, quando si parla di ambito domestico, non si intende uno spazio angusto e chiuso nel privato, ma un insieme di attività produttive e amministrative; e più si saliva nella scala sociale, più l’oikos era un centro complesso ed affollato, piccola società di persone e di funzioni, da organizzare, dirigere, supervisionare, il tutto da parte della dèspoina, anzi la oikodèspoina, la padrona di casa. Nell’unico termine, oikos, è compreso infatti anche il luogo, le attività, la comunità di chi vi vive ed opera: costituiva quindi il sostrato essenziale dell’organizzazione della polis, che perderebbe essa stessa il proprio senso se non avesse all’interno le strutture portanti della trasmissione della vita, delle tradizioni e del complesso culturale identitario.

Stele tombale di Eghesò 410 a.C. ca., Atene, Museo Archeologico Nazionale

Queste finalità informano il modello civile del matrimonio finalizzato alla prole, ovvero al succedersi delle generazioni, che è l’interesse fondamentale, letteralmente vitale, della civiltà antica e che spiega le stesse costrizioni ed insieme privilegi della condizione della donna.

Per questo, le letture “femministe” di tali epoche non fanno che proiettare all’indietro categorie e parametri ideologici anacronistici, ricercando nel passato un’irriducibile contesa tra i sessi e una millenaria schiavitù della donna.

L’uomo è sempre lo stesso, e si può leggere gli antichi filosofi, i poeti, i dottori della Chiesa, trovandoci i nostri sentimenti, aspirazioni, interrogativi. Ma il contesto materiale, la struttura economica e sociale, le abitudini, sono spesso non paragonabili. Né vale la lettura progressista, rettilinea, perché la storia pare si muova su immensi cicli, e per quanto riguarda la civiltà dell’occidente, oggi ci troviamo in un’epoca di decadenza, in cui si manifestano non solo crisi politiche ed economiche, ma processi più profondi  di disgregazione collettiva ed individuale.

Per esempio, parlare di impedimenti all’accesso all’istruzione delle donne, nell’antichità –e fino ad un passato recente- è una valutazione che può riguardare solo i ceti superiori, perché per tutto il resto –la stragrande maggioranza- della popolazione, la situazione era identica per uomini e donne.

Placca votiva, Locri-Epizefiri 490-460 a.C., Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale

Spostandoci nel tempo, e già via via mutando norme ed usi proprio quanto all’istruzione e allo stato giuridico delle donne, quella del matrimonio si conferma nella Roma repubblicana come istituzione fondante, nucleo esemplare delle virtù civiche, con al centro la domina, di ciò garante dall’interno. L’unione tra i due giovani, combinata dalle famiglie (non senza che abili tattiche domestiche verifichino il gradimento da parte degli interessati), con fasi di corteggiamento e convivialità, è un evento solenne, che colloca, proprio per la dimensione contrattuale delle nozze, la nuova coppia in un quadro di responsabilità reciproche e pubbliche. Vari testi della letteratura e raffigurazioni artistiche ci tramandano questi esempi, magari idealizzati, ma certamente condivisi, di dignità, tenerezza, armonia. Più compiutamente li raffigurerà Plutarco di Cheronea[3] nei Precetti coniugali, con cui si indirizza a due allievi dell’Accademia, Polliano ed Euridice, che andavano a nozze, richiamandoli affettuosamente alla responsabilità di assicurarsi l’un l’altro un avvenire prospero e sereno. Egli usa le risorse del buon senso e il racconto di vari esempi ed episodi, per dare consigli –talvolta un po’ da “posta del cuore”- che, mentre riaffermano la superiorità maschile nell’istituzione, di fatto la condizionano ad una sorta di complicità della moglie, la cui psicologia più acuta e sollecita è infine quella che può fare della coppia un’unione di anime. La loro preparazione filosofica deve assisterli anche nei casi spiccioli della vita, nella quotidianità:

«Infatti gli antichi innalzarono accanto a quella di Afrodite, la statua di Ermes, perché sapevano che il  piacere del matrimonio dipende soprattutto dalla ragionevolezza, e le affiancarono anche la Persuasione e le Grazie, affinché gli sposi riuscissero ad ottenere quel che volessero l’uno dall’altro, facendo uso della persuasione e non combattendo, né litigando per averla vinta.»

In altri testi dei Moralia, Plutarco fa l’apologia delle virtù femminili, contesta l’impostura intellettualistica  dell’omosessualità, e addirittura racconta in forma di piccante novella (Eros), il trionfo dell’amore, per cui un giovane, corteggiato da due uomini, preferisce le nozze con una vedovella trentenne, con grande gioia di tutto il vicinato.

Più volte in tali testi si fa riferimento al matrimonio sotto il duplice inscindibile aspetto di comunità naturale, di affetti, solidarietà, generazione e cura della vita, e di sede di esercizio e trasmissione delle virtù personali e collettive che stanno alla base della civitas romana. Plutarco ci dà quindi testimonianza, tra il I e il II secolo d.C., nella massima espansione dell’Impero romano, della sostanziale continuità con gli ideali etici dell’antica Grecia e della Roma repubblicana; tutto ciò a fronte di un assetto giuridico del matrimonio e della posizione della donna nel frattempo profondamente modificati;  ma soprattutto, come vedremo, nell’acuirsi della contraddizione tra tali modelli morali e civili, vivi soprattutto nella realtà provinciale, e le mode culturali, i costumi, le tendenze dell’élite della metropoli capitale dell’Impero.

Affresco, Villa di Livia a Prima Porta, fine I secolo a.C., Roma, Museo Palazzo Massimo alle Terme

IL PROGETTO DI AUGUSTO 

Se ancora nel II secolo d.C., come appunto testimoniano i testi di Plutarco, i modelli morali e familiari permangono ispirati al senso civico, alla morigeratezza e alla comunione di affetti, non significa infatti che tali fossero professati dall’élite dell’impero romano, ai vertici politici, nell’alta burocrazia e nei ceti arricchitisi con gli affari e lo sfruttamento delle Province.

Già alla fine del I secolo a.C., alla conclusione delle guerre civili, nel principato di Augusto, si può cogliere la tensione tra tali modelli, ufficialmente posti a fondamento della civitas romana, e i concreti comportamenti delle classi privilegiate e dei gruppi sociali che intorno ad esse prosperavano, parassitavano o servivano.

Ara Pacis Augustae (Altare della pace di Augusto), fatto costruire da Augusto nel 9 a.C. alla divinità della Pace, Processione sud con Augusto e i suoi familiari, Roma

Tale contraddizione corrispondeva solo in parte agli schieramenti politici –aristocratici-tradizionalisti / ”democratici- cosmopoliti”-, ma era piuttosto intergenerazionale, ed era indotta dallo stesso quadro giuridico, che da una parte trattava severamente malcostume e adulterio, dall’altra aveva reso facile ed usuale il divorzio e sconvolto di fatto l’assetto patriarcale della famiglia[4]. La donna aveva acquisito una quasi completa autonomia ed uguaglianza giuridica e patrimoniale, anche se ciò non era stabilito formalmente, ma attraverso complicati espedienti legali che aggiravano le residue tutele. Nella prima generazione cresciuta dopo decenni di lotte sanguinose –civili  e di conquista- tale allentamento di vincoli e uno stile di vita più individualistico avevano portato al disimpegno politico, al relativismo morale e al culto estetico dei piaceri e del lusso. I modelli tradizionali erano sì tuttora celebrati, la fatuità e la dissolutezza erano sì disapprovate ufficialmente e punite, ma la ricchezza, il privilegio, il compiacimento dello scandalo, il cinismo s’imponevano, rispetto a precetti religiosi e filosofici ormai logori ed eticamente ambigui. Il flusso di denaro drenato dall’Impero, il moltiplicarsi di attività che servivano ai lussi e ai vizi dei ricchi, il contorno di trafficanti, adulatori e parassiti, tutto contribuiva a dare all’élite un senso d’impunità, una torbida sregolatezza, ispirata che fosse alle raffinatezze “greche” o alle abiezioni della suburra.

Le stesse dottrine stoiche ed epicuree, pur richiamando in modo diverso alla morigeratezza di costumi, finivano per alimentare una cupa o ironica o rassegnata presa d’atto del precipitare dei tempi. La posizione femminile decisamente moderna, mentre dava per contrasto ancor più prestigio alle matronae operose e caste, spose e madri amorevoli, generava altresì la casistica famosa –perché come in tutte le epoche è dello scandalo che resta maggior memoria- di figure nevrotiche, dissolute, intriganti. Anche in questo caso la lettura “di genere” della storia nulla ci dice sui processi profondi e di lunga portata, di cui le donne erano parte attiva, spesso decisiva, sia come ispiratrici e testimoni della più alta moralità, sia come emule degli uomini nel vizio e nelle lotte di potere.

Riuscito vincitore contro la tendenza orientaleggiante di Antonio, Augusto era consapevole di tale pericolosa crisi morale, e aveva operato per la restaurazione dell’autorità del Senato, nonché per il ripristino, attraverso leggi mirate e severe, del modello familiare ispirato ai costumi austeri dell’epoca repubblicana e alle virtù pubbliche e private.

Le norme contro il lusso, gli adulteri, la promiscuità sessuale, quelle sull’obbligo di matrimonio e di avere figli[5], intendevano contrastare l’avidità, lo spreco, la dissolutezza, il calo demografico, l’indifferentismo politico e morale nelle nuove generazioni dell’élite romana. Ma la contraddizione corrodeva la stessa famiglia di Augusto e i suoi atti: lui per primo, per rafforzare e dare continuità al vertice del potere, ebbe a gestire una rete di alleanze matrimoniali e adozioni, anche a spese dei naturali affetti, realizzando un intreccio intergenerazionale di relazioni forzate e mal assortite. Così, pur non intendendo egli creare una dinastia, la “ragion di Stato” del consolidamento dell’Impero venne a generare poi intorno alla famiglia Giulio-Claudia quel complesso di vicende grottesche e terribili che tanto hanno fatto romanzare all’epoca e in seguito.

Proprio nell’ambito familiare di Augusto si può esemplificare il grande peso della componente femminile, in figure che di fatto e come immagine si contrapposero l’una all’altra: Livia, la moglie, esempio e ispiratrice di un ruolo di matrona aristocratica garante dei buoni costumi antichi, ma nello stesso tempo consigliera ascoltatissima, ed attivo riferimento per il partito tradizionalista; e dall’altra parte la figlia Giulia, utilizzata disinvoltamente dal padre come pedina politica, esempio della gioventù ricca e oziosa, gaudente e irresponsabile (La lettura femminista dal canto suo, oscilla tra fare della prima il “cervello” politico della famiglia e della seconda un’eroina dell’emancipazione femminile.).

Quale che sia la lacunosità e tendenziosità delle cronache antiche nel narrare le successive tenebrose vicende della famiglia Giulio-Claudia [6], certo corrisponde a realtà la compresenza di essa di figure di matronae devote al decoro e alla famiglia fino al sacrificio di sè, e di quelle che utilizzarono potere e lussuria l’uno in funzione dell’altra e viceversa.

I modelli morali tradizionali, mai scomparsi nell’aristocrazia rurale e nel ceto medio, vennero altresì a radicarsi nelle élites delle Province come elemento d’integrazione identitaria, orgoglio di appartenere alla gloria della romanità nel senso più alto; da là essi ritornavano su Roma, portando nuova vita alla componente d’ispirazione stoica, fedele alle antiche virtù. Questo flusso si accompagna ed insieme spiega la naturale, capillare e inarrestabile penetrazione del Cristianesimo, il quale, accolto nelle varie classi, sostenuto, protetto e ospitato in famiglie ricche e influenti, dette ad esse a sua volta nuova coesione, senso e dignità, e alle donne nuova coscienza di sé e della propria missione familiare e comunitaria.[7]

Catacombe di Priscilla, Roma, prima rappresentazione della Madonna con il Bambino, fine II-inizio III secolo

Si può pensare che la nostalgia, sempre presente nell’anima romana, di una moralità rigorosa, abbia avuto una parte non indifferente nell’avvicinamento di molti, disgustati dalla corruzione del presente, ad una religione che implicava un severo impegno morale e la pratica austera di virtù personali e familiari; si può pensare che la solidarietà interna delle comunità cristiane e la capacità assistenziale che esse rivelavano, sviluppando e arricchendo di contenuti nuovi e di più profonda umanità la pratica romana dei collegia, abbia contribuito ad attirare chi cercava nella comunità conforto e sicurezza. […] Io credo tuttavia che la conversione del mondo pagano al Cristianesimo sia stata innanzitutto una conversione religiosa e che l’immensa forza di attrazione della nuova fede esercitata fin dall’inizio nel più grande Impero antico e nella sua cosmopolita capitale sia rivelata dalla sua capacità di rispondere alle esigenze religiose più profonde dell’anima umana, che erano anche, nel particolare momento storico in cui il Cristianesimo entrò nel mondo, le esigenze religiose del mondo romano. [8]

Marta Sordi legge queste «segrete aspirazioni di un’epoca storica» nella famosa IV Egloga di Virgilio -che la tarda antichità e il medioevo interpretarono come profezia dell’avvento del Salvatore- in quanto speranza visionaria di rigenerazione e purificazione, che fa sì che  proprio in questa sua profonda e connaturata aderenza all’anima romana, l’Egloga riveli il suo significato più autenticamente anticipatore… (p.174)

Ma di simili suggestioni è ricco anche il carme 64 di Catullo, che colloca il suo rimpianto accorato per il passato nel contesto di immagini mitologiche delle nozze tra Peleo e Teti (un uomo e una dea) e Dioniso e Arianna (un dio e una donna). Tale visione, che impetra poeticamente un benevolo intervento divino per l’umanità degenerata, abbina il motivo nuziale idealizzato allo sdegno per il degrado dei costumi, il dilagare dell’ingiustizia, della cupidigia, del peccato, in un mondo in cui gli affetti familiari sono calpestati e pervertiti. (p.175)

Il testo e l’allusivo inserimento nel contesto nuziale dimostra come il dissolvimento dell’istituto matrimoniale e della famiglia fosse sentito all’epoca con sdegno e angoscia come aspetto saliente della decadenza che erodeva la civiltà romana. Lo stesso Catullo, più famoso per le poesie amorose dedicate ad una tipica rappresentante del bel mondo romano, collezionista di mariti e di amanti, così nel carme 76 chiedeva agli dei la pace dell’anima e la liberazione dalla passione:

eripite hanc pestem perniciemque mihi..

Ciò conferma come l’antichità romana, lungi dal compiacersi di un’immemore esaltata paganità, avvertiva nello splendore della sua civiltà e della sua cultura, un tarlo profondo, un vuoto, che si manifestava negli eccessi sanguinari, ma anche in una specie d’indistinta nostalgia, e nell’aspirazione ad un nuova -ed antica- integrità morale.

1 – continua

 

NOTE

[1]  E’ la famosa favola per cui gli uomini originariamente avevano forma sferica ed erano di 3 sessi, uno maschile, uno femminile ed uno misto. Tagliati a metà per lungo da Zeus, passerebbero la vita a cercare disperatamente l’altra parte di sé a cui riunirsi, e questo sarebbe l’amore. Platone inserisce con ciò nel dialogo una pausa quasi burlesca, prima del discorso di Socrate, che guida il ragionamento alla visione del sommo bene e bello, aspirazione dell’anima.

[2]  Diotima  -ovvero Socrate, quindi Platone- spiega Eros come un ardente desiderio dell’anima che, lasciando dietro di sé inganno e fatuità dei piaceri materiali, aspira alla “piena e perfetta visione” del bene assoluto, che è nello stesso tempo somma intelligenza e bellezza. A tale visione può pervenire attraverso un’ascesi mistica, ed insieme morale e razionale.

[3]  Plutarco  di Cheronea (ca 46 d.C./ca 125 d.C.), storico e filosofo greco, vissuto nell’ambito dell’Impero romano; studiò ad Atene, all’Accademia platonica, dove poi insegnò, e risiedette per lungo tempo a Roma, di cui ebbe la cittadinanza. Oltre a numerose cariche politiche e amministrative, divenne sacerdote del santuario di Delfi. La sua opera più nota è Vite parallele, in cui fa accostamenti tra le biografie di personaggi greci e romani, (una miniera di notizie storiche) anche allo scopo di argomentare la continuità tra le due culture. Ci sono pervenuti inoltre una grande varietà di testi, raccolti sotto il titolo Moralia, di argomento filosofico, storico, scientifico, estetico, e anche di riflessione sugli aspetti quotidiani della vita ai suoi tempi. Le valutazioni espresse da Plutarco, per il suo prestigio intellettuale e morale, testimoniano della resistenza dell’antica tradizione e insieme dei processi degenerativi in atto, su cui egli volgeva uno sguardo critico fondato sulla vasta conoscenza dell’Impero.

[4]  Nella società romana, soprattutto per la classe senatoriale e le élites economiche e militari, il matrimonio era ed era sempre stato un’istituzione con finalità per così dire “esterne” ad esso: alleanze, consolidamento e trasmissione del potere. Del resto ciò si è verificato fino a tempi assai recenti nell’aristocrazia e nell’alta borghesia.

[5]  Principalmente la Lex de maritandis ordinibus contro il celibato e la sterilità, Lex de adulteriis, Lex sumptuaria contro il lusso.

[6]  Guglielmo Ferrero in Le donne dei Cesari (ed.Athena 1925) deve prendere atto di un destino comune dei Giuli-Claudi «fortunatissima o sciaguratissima tra le famiglie del mondo antico», quasi Roma avesse voluto vendicarsi «di questa famiglia, perché per ridarle la pace e conservarle l’impero, aveva dovuto innalzarsi un poco sopra la comune grandezza dell’antica aristocrazia.» Ferrero si riferisce soprattutto alle “leggende nere” tramandate su Tiberio e Claudio, calunniati ai loro tempi e dai posteri. Ma «il destino delle donne fu ancor più terribile» perché, le une impersonando la dignità e la virtù, le altre la fatuità e il vizio, furono in entrambi i casi oggetto dell’odio della parte avversa, spesso all’interno della famiglia stessa, fino a mesta o tragica fine.

[7]  La critica biblica di orientamento femminista sembra paradossalmente cieca di fronte al ruolo decisivo della famiglia e quindi della donna nella diffusione del cristianesimo, andando invece ostinatamente in cerca delle tracce di un sacerdozio femminile individuale (v. E. Schussler Fiorenza, In memoria di lei, Claudiana ed.1990).

[8]  Marta Sordi, I Cristiani e l’Impero Romano, ed.Jaca Book 1983. Citazioni da ed. Mondadori  1990 (pagg.171/172 e segg.)

 

 

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