Le parole del sacro e della religione – II

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Paolo Farinati (1524-1606), Incendio di Troia: Enea e Anchise (1590)

 

Passando ora dal concreto all’astratto, cominciamo col vedere i termini che indicano ciò che, in religione, è sacro, giusto e lecito (ed ovviamente anche i loro contrari).

Sacro, inteso come ciò che è giusto, bello, forte per gli dèi, in greco è hierós / ιερός (dall’i.e. *isәró-s > sanscrito iirá, «forte, fresco, fiorente»), da cui proviene anche il termine hieréus / ιερεύς (sacerdote), mentre santo è àghios / άγιος, parola usata ancor oggi in neo-greco davanti al nome del Santo (àghios Demétrios / Άγιος Δημήτριος, «San Demetrio»). Dal verbo ázomai / άζομαι («ho rispetto religioso per»), donde anche ághnos / άγνος («puro») da collegare forse al sanscrito yájati («io sacrifico»).

Così hósios / όσιος (ed il suo contrario anhósios / ανόσιος) vale l’italiano «ordinato (o permesso) dalla legge divina» e quindi «sacro, santo, puro», dall’indeuropeo *soto-.

Il latino invece (e da qui anche l’italiano) ci presenta sacer e sanctus, entrambi collegati al verbo sancio (< italico *sankto-; part. pass. sanctum) col valore di «proclamare come esecrabile, proibire solennemente»; sanctum vale dunque «reso inviolabile e sacro» (ma col senso di «votato agli dèi infernali, esecrabile»; cfr. francese sacré), forse parente dell’hittita šaklai– «costume, rito». Entrambe le lingue conserverebbero quindi una radice, riferibile a termini religiosi e giuridici, tra le più antiche dell’intero lessico indo-europeo.

Ciò che è giusto in relazione alla divinità (diverso era il concetto di «giusto» in relazione all’uomo) era, per i romani, fas[1], «ciò che è permesso o ordinato dagli dèi», probabilmente dal verbo for (parlare), da cui provengono termini quali fastus, nefastus, (forse) fastigium.

Ciò che invece è «giusto» in relazione alle leggi degli uomini è lo ius, da ious di etimo incerto, ma comunque indo-europeo (cfr. irlandese huisse, «giusto»). Tuttavia anche ius inizialmente apparteneva al lessico religioso, a mostrarci come per il mondo romano religiosità e legge umana non potessero essere separate[2], col significato di «formula religiosa che ha forza di legge». Da ius (che traduciamo in genere come «diritto») derivano sia iustum («ciò che è stabilito dallo ius») che iudex («colui che pronuncia la formula»), ma poi anche il verbo iuro ed i suoi derivati come periuro e periurus, ius iurandum, poi sostituito, col medesimo significato, da iuramentum. Ius manteneva comunque il suo antico valore religioso in formule quali iustae nuptiae e iusta funera.

Fondamentale nella religione (e nella morale) romana era l’uomo (o anche il gesto o il luogo) pius (con il suo contrario, ovviamente, impius)[3], cioè letteralmente «dal cuore puro» (< verbo pio, «purificare», da cui anche expiare), da cui deriva il concetto di pietas, la virtù praticata appunto dal pius. Abbiamo parecchi esempi anche in altre lingue italiche antiche, come per es. il volsco pihom (pium) ed il marrucino peai (piae).

Purus (negativo: impurus) indicava colui o ciò che era libero da imperfezioni nella sfera religiosa (in greco il suo equivalente era katharòs / καθαρός[4]); incerta la sua origine, ma forse da una radice bisillabica da cui anche i termini sanscriti pavitár– «colui che purifica» e pavitram, «strumento di purificazione».

Religio, con doppio valore, sia positivo (religione) che talora negativo (superstizione; cfr. Lucrezio [99-55 a.C.], De rerum natura, passim), risulta formato dal prefisso re– (red-) e da una seconda parte di senso oscuro: alcuni autori latini la collegano a relegere, altri invece (tra cui il cristiano Lattanzio [240-320]) a religare, col valore di «legame, obbligazione stretta con la divinità». Il termine superstitio deriva da super-stare (sistere, se l’azione è transitiva, «collocare»), venendo così a significare «ciò che sta (o che si colloca) oltre» e quindi «ciò che è superfluo».

Quando ci mettiamo di fronte a Dio, a Maria ed ai Santi esplichiamo il nostro rivolgerci ad Essi con almeno tre verbi: adorare, venerare, pregare.

Adoro, equivalente al greco proskuneo / προσκυνέω (letteralmente «faccio la proskúnesis», vale a dire l’inchino fino a terra d’obbligo di fronte al Gran Re, cioè l’Imperatore dei persiani), è composto dalla preposizione ad seguita dal verbo oro (letteralmente «pronunciare una formula rituale o una preghiera a qualcuno»)[5], appartenente al lessico sia religioso che giuridico. Da questo verbo abbiamo, sempre in ambito religioso, oraculum, «luogo dove si fanno preghiere agli dèi», e poi per metonimia il responso stesso della divinità. Il termine oro era spiegato, da alcuni grammatici latini, come denominativo da os («bocca, volto»), ma questa etimologia è ritenuta come popolare. Certamente questo verbo è da collocare in un gruppo di termini indicanti, nell’indoeuropeo, «richiesta con parole solenni» (cfr. arm. uranam, «nego», hitt. ariya-, «interrogare l’oracolo» e gr. Arnéomai / αρνέομαι, «nego»).

Veneror è denominativo da Venus (la dea Venere), poi applicato anche alle altre divinità ed a persone degne di, appunto, «venerazione». Data la sua origine etimologica è un verbo piuttosto recente nella storia della lingua latina, senza riferimenti possibili ad altre lingue.

L’equivalente greco di veneror è sebo / σέβω (letteralmente «retrocedere davanti a qualcuno»), probabilmente legato alla radice indo-europea *tiegu- (cfr. anche il sanscrito tyájati, «abbandonare, rinunciare»). Da questo verbo abbiamo il termine greco per rendere il latino Augustus, cioè Sebastés / Σεβαστής (letteralmente «venerabile»; mentre Augustus vale «colui che rende grande» < augeo, «aumentare, ingrandire»), da cui derivano anche i toponimi Sebaste, Sebastea, Sebastopoli (Città di Augusto, così come le varie Augustae nel mondo romano: Augusta Taurinorum, A. Praetoria…) e il nome proprio Sebastiano (che equivale, dunque, ad Augusto, così come Ciriaco a Domenico, Arsenio a Mario, Gregorio a Vigilio).

Anche preco è un denominativo, da *prex (attestato l’accusativo precem), di origine incerta, ma forse dalla radice *prek-, che troviamo anche nel verbo posco («chiedere»), da *p(o)rc-sco con metatesi r/o (cfr. sanscrito pŗccháti, «egli interroga» e avestico pәrәsaiti «egli interroga»)[6]. Suoi derivati sono imprecare, ma anche, non nel lessico religioso, precario, colui cioè che «prega» per una sistemazione definitiva.

 

 

[1] Il suo contrario era nefas, da cui nefastus («nefasto», cioè quanto è vietato dagli dèi), da non confondere, quanto a significato, con «nefando» (< lat. ne + fandum, gerundivo dal verbo for, «dire»), cioè «cosa che non può (o addirittura non deve) essere pronunciata». Nella pratica linguistica comune, spesso usiamo i due termini (nefasto/nefando) come sinonimi, mentre in realtà i due significati, pur se entrambi negativi (ne-), sono differenti. In altro ambito, simile è la confusione semantica tra «fievole» («voce poco udibile, poco percettibile») e «flebile» («voce incrinata dal pianto»), termini che, pur derivando entrambi dal verbo latino flere («piangere»), risentono tuttavia della loro diversa collocazione diastratica, vale a dire l’uso di differenti termini da parte di vari gruppi di persone: dotta («flebile») e popolare («fievole»).

[2] Ciò tuttavia accadeva anche nel mondo ebraico, come si desume con estrema facilità dal Pentateuco. Quando si dice che le nostre radici europee sono «ebraico-cristiane» e «greco-romane» si intende anche questo aspetto.

[3] Pensiamo solamente all’importanza di questo termine nell’Eneide di Virgilio, applicato al protagonista Enea: pius erga deos, erga patriam, erga parentem (rispettoso verso gli dèi, verso la patria, verso il padre).

[4] Da questo vocabolo greco deriva il nome dell’eresia medievale dei «catari» (lett. «i puri»).

[5] Da questo verbo, in ambito più genericamente culturale, deriva il sostantivo oratio, cioè un discorso elaborato con artifici retorici, di contro a sermo, discorso fatto senza seguire regole particolari.

[6] Una curiosità “erudita”: dalla stessa radice deriverebbe anche il verbo proco, da cui il vocabolo procus (arcaico e poetico) per indicare «colui che chiede in matrimonio». Questo l’etimo per i pretendenti di Penelope nell’Odissea: i proci.

 

 

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