In viaggio con la Sindone
Rubrica di Franca Giusti
Nastro di Avèrole «La misura del Signore»
Ci sono narrazioni che, se pur inventate, si fanno ben volere, pur non avendo nemmeno la possibilità di sembrare vere, vengono adottate, riportate e, nell’era del copia-incolla, riciclate, subite ma non accettate. Accettarle sarebbe come insultare la nostra intelligenza ed il buon senso dei nostri avi. Una di queste narrazioni fantasiose più frequenti negli ultimi anni ha rumoreggiato di un trasferimento della Santa Sindone attraverso il valico del Moncenisio, in Val di Susa o forse addirittura passando sul Monginevro e anche, perché no, dalla Valle d’Aosta, più precisamente dal piccolo San Bernardo (La Thuile).
Per chi non avesse avuto occasione di salire su una delle citate incantevoli cime, ci preme ricordare brevemente che il Ducato di Savoia, negli anni in cui fu trasferito il Lenzuolo di Cristo tra Chambery e quello che oggi è il Piemonte, non si estendeva tanto, a pochi anni dalla sua costituzione (9 febbraio 1416) il Ducato aveva già perso Ginevra e tutto il circondario che aderiva alla Francia ed il Re di Francia occupava anche le terre a sud fino ad Exilles, tutto era Francia fuorché quelle Terre di Margherita che per diritto di proprietà non potevano essere occupate, da Bessans-Avèrole alle alte valli di Lanzo. Questo è il dato storico. Veniamo a quello geografico. Da Avèrole ad Usseglio, un montanaro medio impiega circa sei ore di cammino, idem da Avèrole a Balme (Pian della Mussa). Da Usseglio, attraverso le antiche strade carrozzabili (mulattiere), si raggiunge Torino in due giorni e si arriva dritti a Lucento. Da Balme, in tre giorni di cammino si arriva lungo la Paroisse de Notre Dame de Stura e dunque sulla strada che porta a Vercelli e Milano.
Alcuni tra Les marrons, i montanari in lingua Savoiarda, non tornarono indietro dopo la traversata, si sposarono, ebbero figli e ancora oggi rimane traccia della loro storia nei cognomi che indossano: Maronero, tipico cognome di Ala di Stura. Quando Napoleone aprì la strada carrozzabile del Moncenisio, les marrons andarono in rovina e dovettero migrare, trasferirsi dalle valli di Lanzo alla valle di Susa, e chi rimase diventò contrabbandiere di sale. Questo il dato geografico a corredo del quale, ricordiamo che, volendo eventualmente spostarsi da Chambery a Torino attraverso la Valle di Susa o la Valle d’Aosta, oltre a dover considerare tre giorni di viaggio in più nel primo caso ed almeno 10 nel secondo caso, occorreva essere esperti alpinisti, non montanari e senza bagagli, non con una cassa in legno e cose simili. La valle di Viù ed in particolare proprio il colle Autaret era da sempre la strada della posta. Nella zona detta “pietre rosse” fu rinvenuta una lastra di notevoli dimensioni e di epoca romana in cui una incisione ricorda il presunto passaggio di Annibale.
Prima la posta interna al Ducato viaggiava come una staffetta di villaggio in villaggio poi, con l’arrivo dei muli, a dorso di mulo e a metà ‘800, il senatore del Regno Conte Cibrario ricordava proprio il servizio di posta a cavallo fino ad Usseglio, anzi, fino a Viù. Proprio a Viù, con l’avvento delle carrozze mobili, nacque il servizio postale autotrasportato dell’impresario Durando ed il servizio funzionava anche per l’estero: arrivava fino a Trieste!
L’attenzione sia posta ancora su due particolari tutt’altro che banali, anzi tre: le destinazioni finali delle trasferte dei Savoia, negli anni 1535 e 1578, e la presenza di numerosi corsi d’acqua nell’area pedemontana. Nell’anno 1578 la Sindone era diretta al castello di Lucento, lì Emanuele Filiberto l’attendeva. La via che attraversa la valle di Viù scende dritta su Lucento. Perché fare un’altra strada, passare su terre nemiche ed infestate dalla peste se la strada di casa era più semplice e sorvegliata dalle sentinelle ducali? La peste sembrava arrivasse dalla Francia. Così dicevano. E nelle Terre di Margherita non era consentito il passaggio né ai francesi né a quanti avessero relazioni con i francesi. Lo stesso discorso vale per l’anno 1535. Allora la Sindone si sarebbe spostata a Milano e seguì la strada dei monaci benedettini lungo la Stura. Un tratto di quell’antica strada esiste ancora a Torino, corre dietro corso Grosseto e si chiama proprio così, Paroisse de Notre Dame de Stura. I corsi d’acqua sono una risorsa ed oggi facilmente attraversabili, ma 500 anni fa c’erano meno ponti di adesso. Gli stessi nomi dei ponti ricordano chi ne agevolò la costruzione, Ponte Isabella, Ponte Umberto I, l’attuale via Garibaldi era il letto della Dora e si chiamava via Dora Grossa fino ad inizio ‘900, etcetc. Cinquecento anni fa c’erano le pianche, ponticelli in legno che venivano allestiti ed utilizzati, poi smontati e portati via. La Dora Grossa si attraversava con un ponte di barche. Dunque, alla luce di queste considerazioni, sono solo alcune tra le più significative, oltre ai documenti, alle presenze sindoniche nelle Valli di Lanzo che testimoniano il passaggio della Sindone in almeno due occasioni (molto probabile una terza mentre per le altre trasferte è molto facile giustificare la via attraverso la contea di Nizza) è comprensibile perché S.A.R. il Principe Umberto II fosse così affezionato alla valle di Viù e qui tornasse spesso. Qui, a Richiaglio, aveva trascorso molte estati da bambino, c’è chi ancora conserva le foto del Principino e delle sue sorelle con la nutrice, chi ne conserva la rustica culla. Una fotografia ritrae il Principe che ad una bimba bionda regala un enorme cerchio. Sul campanile della chiesa ormai crollata, una targa ricorda la visita di Umberto II il 9 agosto del 1930. In una borgata appena sopra Richiaglio, Biolaj, c’è una cappella intitolata alla Santa Sindone, una cappella di discrete dimensioni, detta comunemente “da riposa” cioè dove potessero sostare le portantine, e qui, fino agli anni ’30, il Principe conservò la sua collezione di opere sindoniche, le stesse che, prima di lasciare l’Italia, Umberto trasferì a Ginevra in quella che oggi è la Fondazione Umberto e Maria Josè di Savoia.
Biolaj (da «biula» = betulla) era una borgata formata da tre frazioni, Biolaj, Gatti (superiore ed Inferiore) e Rocconero. A Gatti ci sono gli ippocastani. Ci sono solo lì e gli ippocastani non sono autoctoni. Arrivarono in Europa ad inizio ‘500 e furono piantati in prossimità delle abitazioni dei nobili. Furono piantati a Gatti. Quelli erano gli anni del Rinascimento, gli anni dell’armonia nelle arti, pittura, scultura ed architettura, il Rinascimento di Donatello e Leonardo da Vinci. Nelle Terre di Margherita le espressioni artistiche erano pressoché inesistenti, fino a quando i Duchi, lasciata Chambery e giunti in salvo con la Sindone, al di qua dei monti, commissionarono alla bottega di Martino Spanzotti l’affresco di Voragno. Le mulattiere costituiscono una vera e propria storytelling di quello che fu un evento straordinario da far conoscere ai posteri.