La Basilica dell’Ara Coeli in Roma, secondo la tradizione, è sorta nel luogo in cui Augusto ebbe la visione della Vergine con Gesù in braccio che gli diceva «questa è l’ara del Figlio di Dio», da qui il nome. Il luogo esatto di questa apparizione è ricordato dall’altare medievale visibile sotto il tempietto di Sant’Elena nel transetto. Questa è una delle tante meraviglie di questa chiesa che è uno scrigno di tesori inestimabili in pittura, affresco, scultura ad opera di insigni artisti medievali e rinascimentali.
La Bellezza è ovunque si posi lo sguardo, dal soffitto ligneo a cassettoni del XVI secolo fino al pavimento cosmatesco del XIII secolo costellato di lastre tombali, ed è proprio la quantità di queste sepolture a renderlo unico. Ce ne sono molte sparse più o meno allineate, senza però né una ferrea logica geometrica, né una misura stabilita, sono tutte disuguali, alcune semplici, altre più articolate, ma tutte consumate dai secoli, ed ancora oggi distrattamente, e anche irrispettosamente, calpestate da fedeli e turisti.
Sono però delle sepolture, come era d’uso nel medioevo quando si desiderava essere tumulati più vicino possibile alla chiesa e ai santi, così chi poteva permetterselo riusciva ad avere una tomba terragna sotto il pavimento della chiesa nei pressi dell’altare o delle reliquie.
Le lastre tombali dell’Ara Coeli sono sempre state lì, nella loro ubicazione originaria, tanto che durante l’occupazione di Roma da parte dei Francesi nel 1797, quando requisirono la chiesa cacciando i francescani con la forza, divennero il pavimento di una stalla, in seguito, anche se oggetto di restauri, ormai erano irrimediabilmente consumate.
Proprio con l’intento di preservarla, per quanto possibile ormai, una di queste lastre è stata spostata dal pavimento e posizionata su una parete alla sinistra del portale principale. Si tratta della lastra funeraria dedicata a Giovanni Crivelli, arcidiacono di Aquileia, scolpita da Donatello nel 1433.
Il tempo e le varie traversie non l’hanno risparmiata, è consumata e levigata al punto che il viso e il corpo più che un bassorilievo sembrano un’opera di incisione, i solchi profondi del modellato superstiti disegnano una figura distesa sul letto di morte, con la testa reclinata da un lato su un cuscino e le mani incrociate, ma l’architettura che la racchiude è ancora perfettamente leggibile: una nicchia con decorazione a conchiglia, sovrastata da due angeli che in volo sorreggono un clipeo con lo stemma del defunto. È circoscritta da una fascia recante un’iscrizione che, per quanto consumata in più punti, reca ancora leggibile la firma «Opus Donatelli Florentini» sul bordo, in alto a sinistra.
È l’unica opera firmata del soggiorno romano di Donatello, durato tre anni. Riveste quindi un’importanza straordinaria per la storia dell’arte, ma, seppure per una necessaria salvaguardia, la posizione scelta non le rende giustizia, al lato di un grande monumento (opera di Andrea Bregno del 1465), relegata in uno spazio ristretto e poco illuminato.
Non ha più il suo posto nella Basilica, e quindi ha perso anche molto del suo significato. Rimane però un’opera bella che ricorda il genio di un grande artista, ma non più la storia e il fine della sua opera d’arte.