Di questo scrittore, tenuto in gran conto ai suoi tempi, tanto che il Pipino, redigendo la sua antologia da donare alla principessa di Piemonte (1783), ne inserisce ben 13 sonetti, non abbiamo purtroppo molte notizie biografiche[1]. Ne tesse le lodi anche Tommaso Vallauri[2] (1805-1897) che, paragonandolo (implicitamente) ad Omero, afferma che “solamente agli uomini grandi per ingegno e per virtù” capita che più di una città si vanti di aver dato loro i natali: se per Omero le città erano state sette, due lo sono per il Balbis, poiché sia Caraglio (suo luogo natio) sia Saluzzo (sua terra d’elezione) si vantarono di averlo avuto come concittadino.
Nato a Caraglio (Cuneo) nel 1737, sacerdote (il Vallauri lo definisce “abate”) e predicatore di buona fama, fu socio dell’Arcadia e poeta sia in piemontese che in italiano. Visse quasi tutta la sua vita a Saluzzo, dove ancora bambino si trasferì con i genitori. Nel 1752 vestì l’abito ecclesiastico, entrando subito dopo nel Regio Collegio delle scuole della sua città e passando in seguito all’Università di Torino, dove si addottorò in Teologia. Ebbe relazioni culturali con vari scrittori famosi, tra cui Pietro Metastasio (1698-1782), Francesco Algarotti (1712-1764) e con lo svizzero Salomon Gessner (1730-1788), le cui opere egli leggeva in traduzione francese. La sua fama era legata anche alle sue doti di oratore: di lui si ricorda il discorso funebre in memoria del re Carlo Emanuele III (1701-1773, re dal 1730) letto nella Cattedrale di Saluzzo nel 1773. Un suo poemetto di argomento biblico (Nahum profeta, del 1763) fu entusiasticamente elogiato dal letterato arcade Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768), poeta di corte a Parma. Tra le altre sue opere in italiano ricordiamo la Clizia, dramma ad imitazione del Metastasio, e il Tancredi, rappresentato (anche se con scarso successo) al teatro Regio di Torino nel Carnevale del 1767. L’edizione vercellese delle sue poesie (1782, presso la tipografia patria) è suddivisa in tre parti: le poesie sacre, quelle profane, quelle bernesche (e quindi scherzose), che comprendono anche quelle in piemontese. Sempre il Vallauri ci dà la notizia che scrisse anche “parecchie satire in versi sciolti ed in terza rima, riputate ottime da chi le lesse”, ma purtroppo l’autore, durante l’ultima sua malattia, diede ordine di bruciarle sotto i suoi occhi: ordine che venne eseguito da una sua sorella. Parlando delle sue poesie piemontesi, poi, il Vallauri compie un errore mastodontico, dicendo che egli fu il primo ad aver “sollevato il nostro dialetto ad una certa dignità”, cosa in cui fu poi imitato dal P. Isler. Noi sappiamo che l’Isler precedette il Balbis, ma Vallauri, non conoscendo assolutamente la biografia del padre trinitario della Crocetta, si basa per la cronologia sulla data della prima edizione (postuma) delle sue poesie (1799), posteriore alla morte del Balbis, facendo così tout court l’Isler posteriore al Balbis.
Intorno alla figura del Balbis si riunivano, a Saluzzo, altri intellettuali, tra cui gli avvocati Delfino Muletti (1755-1808) e Giovanni A. Biandrà, il conte Vincenzo Reyneri di Lagnasco e Onorato Pelicò (1763-1838)[3], padre di Silvio Pellico e poeta anch’egli in piemontese.
Negli ultimi suoi anni il Balbis, assistendo dolorosamente allo sfacelo del mondo in cui era vissuto e degli ideali in cui aveva creduto, attaccati alla radice dalla rivoluzione francese, trepidò per le sorti del Piemonte, morendo (a Saluzzo nel 1796) tuttavia prima di vedere la sua terra preda dei malfattori rivoluzionari.
I suoi testi piemontesi, pur risentendo delle atmosfere arcadiche, riescono tuttavia ad essere poco contagiati da pastorellerie e atteggiamenti da “abati galanti” come invece succede in moltissime opere italiane appartenenti all’esperienza arcadica (Parini compreso).
Della sua opera piemontese presentiamo, questa volta, tre sonetti e, prossimamente, il monologo “drammatico” intitolato la Vedova di cinque mariti. In essi – come d’altronde nelle altre opere del Balbis e di altri scrittori tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento – si alternano termini squisitamente originali piemontesi e beceri italianismi, che al nostro orecchio suonano decisamente poco gradevoli.
I
AL SIGNOR MEDICO MAURIZIO PIPINO
È il sonetto con cui si apre la silloge pubblicata dal Pipino nella sua raccolta di “Poesie piemontesi” del 1783. Un bel quadretto, di fine satira sociale, della società borghese del tempo, con le sue botteghe, le sue caratteristiche, le sue abitudini…
A fan nen tanti lùn-es[4] ij calié[5];
tiro nen tanti pont ij ciavatin;
giuro[6] nen tante vòlte ij viturin;
’s conta nen tante neuve dai pruché;
’s vëd nen tante manisse al mèis ’d gené;
a otóber as vëd nen tanti caplin;
j’é nen tanti poltron tra jë spadassin;
j’é nen tante përson-e sensa dné;
ij mùsich a fan nen tante grimasse[7];
scolo nen tante bote ij sonador;
sij cafè j’é nen tanti marcacasse[8]:
quante rason për drit e për travers
as faran daspërtut, me car Dotor[9],
sël tòm prim, e scond, e ’dcò sël ters[10].
Non fanno tanti lunedì i calzolai; non danno tanti punti i ciabattini; non bestemmiano tante volte i cocchieri; non si raccontano tante novità dai parrucchieri;/ non si vedono tanti manicotti al mese di gennaio; a ottobre non si vedono tanti cappellini; non ci sono tanti poltroni tra gli spadaccini; non ci sono tante persone senza soldi;/ i musici non fanno tante smorfie; non scolano tante bottiglie i suonatori; nei caffè non ci sono tanti oziosi:/ quante ragioni per dritto e per traverso (cioè: a ragione e a torto) si faranno dappertutto, mio caro Dottore, sul tomo primo, e sul secondo, e anche sul terzo.
III
IN OCCASIONE D’UN FURIOSO INCENDIO
SUSCITATOSI PER COLPA D’UNA FU VECCHIA SQUARQUOJA
DENOMINATA MARGRITASSA[11]
Il componimento poetico che ha come protagonisti gli animali era già allora tradizionale nella poesia piemontese. A parte parecchi imitatori di scarsa rilevanza soprattutto nel secolo XIX, avrà poi un suo seguito illustre con le “favole morali” in terza rima di Edoardo Ignazio Calvo (1773-1804) e di Nino Costa (1886-1945).
Ij giari[12] a l’ero lì chiet ch’a ronfavo,
cogià ant un gran përtus vzin a un lëgné;
e ant col moment, chi sà! fòrsi a sognavo
d’essi[13] entrà ant quàich dispensa o ant quàich grané.
Maraman, quand a l’é, ch’manch a-j pensavo,
’s son sentisse ant un nen tuti a brusé:
gara[14]: so-sì l’é ’l feu[15]; gara: e tentavo
con ij barbis rafì ’d podèj scapé.
Ma, pòvre bestie! a l’ha ventà sté lì,
e ij pare e le masnà e le giarie[16] incinte
e ij giari da marié, tut l’é rustì.
Òh che maleur! quante famije distinte
in linea ’d giari, ch’noi avìo për sì,
an càusa ’d Margritassa as son estinte.
I topi erano lì tranquilli che russavano, coricati in un gran buco vicino ad una legnaia; e in quel momento, chissà! forse sognavano d’essere entrati in qualche dispensa o in qualche granaio./ Improvvisamente, quando meno ci pensavano, si sono sentiti in un attimo tutti bruciare: in guardia: questo è l’incendio; in guardia: e tentavano con i baffi bruciacchiati di scappare./ Ma, povere bestie! si è dovuto rimanere lì; e i padri e i bambini e le topine incinte, e i topi da sposare, tutto è andato arrosto./ Oh che disgrazia! quante distinte famiglie in linea di topi, che noi avevamo qui, per colpa di Margritassa si sono estinte.
VI
ESSENDOSI SPARSA LA VOCE NEL 1773,
CHE ALLI 2 DI OTTOBRE UNA COMETA INCIVILE
AVREBBE NEL SUO PASSAGGIO DATOVILLANAMENTE
UN URTONE ALLA NOSTRA GENTILISSIMA TERRA
Una garbata satira dei giornali visti da alcuni già allora come “depositari” della verità (aggiornato al nostro tempo potrebbe essere l’assioma “l’ha detto la televisione”…) e degli scienziati “catastrofisti” di mestiere.
Corage, a l’é tutun. Una comëtta
l’ha da bocé[17] la tèra, ’d sì a quàich mèis.
A l’ha dilo un astròlogo fransèis,
e mi l’heu vdulo scrit ant la gasëtta.
La tèra, contut lò ch’a sia un gran pèis,
smijrà un volèt possà da na rachëtta;
e con n’andi parèj l’é bel e antèis
ch’tuti ij pais pijran la soa sbërvëtta[18].
I vëdroma un terìbil cambiament;
vëdroma lò ch’l’é al fond andé a la sima,
e i vëdroma ’l levant andé a ponent.
Ma lò ch’am fà pì pen-a, e ch’am dëspias,
l’é ch’j’heu por ch’maraman, cambiand noi clima,
vado an col dij garòfo e dij bambas[19].
Coraggio, è indifferente. Una cometa deve scontrarsi con la terra, tra qualche mese. Lo ha detto un astrologo francese, ed io l’ho visto scritto sulla gazzetta./ La terra, benché sia ben pesante, sembrerà un volano spinto da una racchetta; e con una spinta così è bell’e inteso che tutti i paesi prenderanno la loro rincorsa./ Vedremo un terribile cambiamento; vedremo ciò che è al fondo andare in cima, e vedremo il levante andare a ponente./ Ma ciò che mi fa più pena, e che mi dispiace, è che ho paura che alla fin fine, cambiando noi clima, andremo in quello dei babbei e degli scimuniti.
[1] Mentre era ancora in vita furono stampati: 3 sonetti piemontesi (insieme ad altre poesie italiane) in Saggio di poesie varie di S. B (Vercelli; Tip. Patria, 1782.) e 13 sonetti nella raccolta, appena citata, di M. Pipino (Torino, Reale Stamperia, 1783). Dopo la morte abbiamo 4 sonetti nel torinese “Parnas piemontèis” del 1831 e del 1833, 5 sonetti editi a Torino nel 1838 e 2 sonetti inseriti nel Saggio sui dialetti gallo-italici di Bernardino Biondelli (Milano, 1853). L’unica raccolta moderna è quella ad opera di G. P. Clivio, La poesia per gioco e il gioco per poesia: per un’edizione critica delle poesie piemontesi di S. B., in “Atti del XIV e XV Rëscontr antërnasional dë studi an sla lenga e la literatura piemontèisa” (Quincinetto 1998); Ivrea; “La Slòira”, 2002, pp. 197-239. Essa comprende: 13 sonetti (di cui uno redatto non in koinè piemontese, ma in saluzzese), 1 monologo, 1 poemetto in distici endecasillabi (Alle Muse) e, molto interessanti dal punto di vista socio-linguistico, 2 sonetti definiti dall’autore stesso “in italo-piemontese”.
[2] Nella sua Storia della poesia in Piemonte (Torino 1841), vol. II, pp. 124sgg.
[3] Di origine francese (di Lione) la famiglia Pelicaux si era trasferita a Saluzzo, dove il padre (Honoré) italianizzò il suo nome in Onorato Pelicò. In seguito il cognome, sentito, per l’accentazione tronca, come ancora troppo francesizzante, fu trasformato in Pellico. Dei figli di Onorato, oltre al più famoso Silvio (1789-1854), ricordiamo anche Luigi (1788-1841), patriota come il più noto fratello, e Francesco (1802-1884), che fu gesuita.
[4] Fé ’l lùn-es (letteralmente “Fare il lunedì”) è un’espressione idiomatica che indicava il non tornare al lavoro il lunedì, prolungando così la festa della domenica. Doveva trattarsi di una abitudine abbastanza diffusa tra i ciabattini, tanto che il dizionario del Sant’Albino (cit., s. v. lùn-es) presenta proprio l’espressione Fé ’l lùn-es parèj dij ciavatin, traducendola col fiorentino “fare la lunigiana”.
[5] Notiamo come l’autore distingua il “calzolaio” (calié < latino caligarium, attraverso il provenzale caligàire; cfr. i cognomi, ancora presenti in Piemonte, come Caligaris, Callegari et similia), cioè chi faceva le scarpe, dal “ciabattino” (ciavatin < italiano “ciabattino”; mentre la forma originale piemontese – esistente – è savatin < savata), cioè chi si limitava a ripararle. Un altro caso di termini ora confusi, ma un tempo ben distinti nel loro valore, è la coppia minusié/mèistr-da-bòsch, ora usati entrambi per “falegname”. In realtà il primo era il falegname “di fino” o intarsiatore, mentre il secondo era l’artigiano falegname di livello più popolare, e meno raffinato.
[6] Francesismo (da jurer) col valore di “bestemmiare” (falso-amico dell’italiano “giurare”); forme simili sono le imprecazioni eufemiche francesizzanti giurapapé e giuradisna (equivalente all’italiano “giuraddio”). Quanto al valore dell’italiano “giurare” (in piemontese moderno abbiamo l’italianismo giuré) esso doveva essere espresso con le forme fé sarament o *saramenté (cfr. i testi chieresi del 1321, in cui troviamo la forma sarament, “giuramento”).
[7] Prestito dal francese grimace (“smorfia, contorsione del viso”), dal germanico *grima (“maschera”) attraverso il latino tardo grimutio(nem), “smorfia”. Per estensione metonimica il termine può anche significare “donna che si lamenta a torto”.
[8] Erano detti marcacasse (lett. “segna-cacce”) coloro che, nel gioco del pallone (elastico), segnavano i punti (ancora oggi detti “cacce” < piem. casse), donde il senso traslato (“ozioso”, ma anche “spia”) del termine: chi si limita a guardare e ad annotare i punti, per cui chi osserva senza fare nulla e, talora, va anche a riferire.
[9] Si tratta di Maurizio Pipino (Borgo San Dalmazzo, Cuneo, 1739-al largo dell’isola di Simio, mar Egeo, 1788), medico di corte dei Savoia, estensore – come più volte detto – della grammatica, del dizionario piemontese italiano e della scelta antologica di poeti in piemontese, offerti in dono nel 1783 alla Principessa di Piemonte Maria Adelaide Clotilde Saveria di Francia (1759-1802), sorella di Luigi XVI, che fu sposa (1775) di Carlo Emanuele IV di Savoia e regina di Sardegna dal 1796. Come spiega il Pipino stesso nella sua prefazione il dono era dovuto al fatto che egli voleva che la principessa, che aveva imparato a parlare il piemontese a corte, lo perfezionasse utilizzando degli strumenti linguistici approfonditi e “scientifici”.
[10] Sono appunto i tre Tomi di cui si compone l’opera linguistica del Pipino; grammatica, dizionario, antologia poetica.
[11] Non distinguendo quasi mai, il piemontese, l’accrescitivo dal peggiorativo, Margritassa può avere entrambi i significati. O meglio: il senso più ovvio, cioè l’accrescitivo (Margheritona), si cambia anche in quello peggiorativo (Margheritaccia) dopo che la donna ha procurato l’incendio con la morte conseguente dei topi.
[12] Come già notato altre volte, il termine giari (< prov. jarri) è forma più antica, poi sostituita dal francesismo rat; tuttavia abbiamo visto (nella Relazione dell’assedio di Alessandria) come un tempo le due forme convivessero, indicando la prima il topo di campagna e la seconda quello di fogna. Giari è ancora di uso vivo nella parte sud-occidentale della regione.
[13] Notiamo la desinenza “rustica”, ancora viva oggi in alcune zone della regione, dell’infinito presente in -i anziché in -e (esse/essi, lese/lesi, core/cori…).
[14] Interiezione (che si trova anche nella successiva forma gher) derivante dal francese gare!, abbreviazione di garde!, dal verbo tedesco antico warōn (“badare, fare attenzione”).
[15] “Fuoco” (< lat. focum, in cui si nota come il sostrato celtico trasformi la ŏ breve latina nel fonema -eu-, di contro all’italiano -o-/-uo-), ma per metonimia vale anche “incendio”. Cfr. il detto popolare Tre tramud a valo ’n feu (“Tre traslochi equivalgono ad un incendio”).
[16] Neologismo d’autore (e hapax) al femminile dal maschile giari > giaria (plur. giarie).
[17] Verbo mutuato dal gioco delle bocce: bocé (> ital. “bocciare”) vale “colpire violentemente la boccia dell’avversario con la propria”. Qui, metaforicamente, è la cometa che colpirà la (boccia) Terra.
[18] Alla base di questo termine, che indica appunto “rincorsa, abbrivo, impeto (di una barca)”, c’è la radice celtica brig- (“forza, vivacità”), da cui anche l’italiano “briga” e il nome proprio della maschera “Brighella”.
[19] Due termini usati (ancora oggi, specie il primo) col valore metaforico di “sciocco, scimunito, sempliciotto, ingenuo” ecc. Letteralmente valgono “garofano” e “stoppino”.