L’ape e la cicala

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Il mondo della natura e degli animali si presta ottimamente per descrivere stati d’animo, fare paragoni con le persone umane, dipingere situazioni. Il Signore stesso usò nelle parabole e nei suoi detti pecore, lupi, serpenti, cagnolini, colombe… Lo facciamo anche noi, con due aforismi del grande scrittore cattolico toscano Domenico Giuliotti.

Leggendo tanti articoli, commenti sul tempo attuale, si nota come sia relativamente facile denunciare gli errori, lanciare grida di allarme, manifestare sentimenti di tristezza mortale o di stizza indignata su quanto ci tocca vedere e sentire, ormai da ogni parte… Più difficile è indicare le soluzione e suggerire modi validi per reagire. Sovente si finisce col dire, quasi sospirando: preghiamo, affidiamoci a Dio e alla Sua misericordia, non ci resta ormai altro, ci aiuti la sua divina Provvidenza. Risposta anche giusta, ma non del tutto sufficiente.

Ecco allora il primo aforisma giuliottiano:

«Anche l’ape è armata di pungiglione e sa colpire ferocemente, ma il suo destino è un altro: produrre miele odoroso e saporito».

Chiunque si sia preso un becco da un’ape, sa che con questi utilissimi insetti è meglio non scherzare troppo, e chi va a togliere il miele dalle arnie si barda come un astronauta per evitare di essere massacrato dai pungiglioni delle operaie. Ma il compito principale dell’ape non è quello di pungere: è quello di produrre miele, la cosa più dolce che esista in natura e da sempre delizia del palato dell’uomo. Ottima metafora per il cristiano: anche per noi il destino è produrre miele, non dimenticando che abbiamo anche un pungiglione per assalire chi ci vuole rubare questo tesoro o insidiare la regina.

Il nostro miele è prima di tutto l’Eucaristia, il Corpo di Cristo, poi è la sua divina Parola, il Vangelo.

Siamo noi che dobbiamo “produrre” queste realtà nella nostra vita, perché se non diamo noi la dolcezza di Dio al mondo, da quale cielo arriverà all’uomo l’amore, la divina pietà? Non certo dal guerrafondaio inventore della religione della mezza luna, non dalle dottrine impersonali, vaghe e tristi delle sperdute montagne tibetane, non dalle manifestazioni scalmanate sciamaniche o animiste, non certo dalle variopinte divinità pagane che popolano le foreste amazzoniche o anche siberiane, tanto meno dagli insegnamenti della filosofia immanentista, che sia di colore rosso o verde o arcobaleno… No, il miele viene solo da Dio: Egli ce lo dona gratuitamente nella Santa Chiesa, e una volta immersi in questa tenerezza, noi la comunicheremo agli altri con la nostra vita di carità, di bontà, di pietà. San Francesco d’Assisi era un campione in tutto questo, e il suo miele era così convincente, che dopo 800 anni ci sono ancora persone che leggendo le Fonti Francescane si innamorano del Dio di san Francesco, e gettano via tutto per seguirlo.

Ma, da buon cavaliere medievale, aveva il suo buon pungiglione, il santo di Assisi! Per difendere, per proteggere, per affermare la verità della fede, non esitava ad usare toni forti e severi, e anche la sua prima discepola, Chiara, fermò l’invasione in monastero dei saraceni avanzando impavida verso di loro con il Santissimo Sacramento mostrato con umile fierezza.

Che fare dunque? Prima difendere o prima proporre? Entrambe le cose: ma il nostro “destino”, il compito principale, è quello di lasciarci inondare dalla infinità pietà e bontà di Gesù, nella fede e nella preghiera, e poi comunicare la Verità attraverso la dolcezza di Cristo. Pronti a morire, se ce la vogliono togliere, questa Verità, con un feroce colpo di pungiglione.

Il secondo aforisma:

«Come sei previdente, formica! Come sei giudiziosa, formica! E come ti ammirano i benpensanti, o animaletto savio, che vai sempre in processione, con un chicco in bocca, verso il tuo sotterraneo granaio! Tutti ti ammirano, formica; solo il poeta ti detesta.

O cicala pazza di sole, che sei fatta di sole e accresci il sole! Più ardi più vibri, più vibri più canti. E quando non canti più, il solleone è finito, e sei morta. Tu sei l’immagine del poeta, tu simboleggi il santo. Tu vivi nel sole, come il poeta nel canto, come il santo in Dio. Ardere, cantare, vive un giorno solo, divampando. Vivere nel fuoco, esser fuoco. E morire per eccesso di canto e per eccesso d’amore».

Dopo avere ammirato l’organizzazione e l’equilibrio dell’ape (e anche della formica), ecco saltar fuori la cicala, che è “fatta di sole” e vive per cantare nel fuoco. Sì, perché l’amore non è solo nella dolcezza del miele, ma anche nell’ardore della passione divina, nel dono di sé fino all’ultima goccia di sangue, nel fuoco che brucia le radici del peccato e arde nella gloria dei Cieli. Non si seguirebbe l’amore, se non avesse un premio così elevato. Nemmeno la morte può spegnere questa fiamma, anzi, al contrario, la alimenta, perché solo la morte nell’amore porta a compimento la nostra vera natura. Noi non siamo fatti per cose di poco conto, per gioie di un momento, per vivere alla bell’e meglio quaggiù, per sistemarci nelle realtà che passano, e che un giorno lasceremo, ma per essere in Dio come Lui: infiniti, eterni, creature che pulsano amore, che nell’eternità possano godere della presenza eterna di Dio in Cristo, paghi solo di essere amati. Quest’amore viene cantato dai mistici, dai santi, dalle “cicale”, i quali pur di conquistarlo considerano tutto il resto come spazzatura.

«Nulla voglio se non che arda», scriveva un anonimo autore medioevale. Ed è così, perché questa è la nostra vera natura, che ci vogliono far dimenticare, per farci vivere poi la mediocrità dell’esistenza grama di chi vivacchia senza alcuna speranza. Troppo preoccupati per i beni della salute, dell’equilibrio, del benessere umano, noi tendiamo a rifuggire da queste cicale che cantano a squarciagola, in ogni angolo del mondo, la lirica dell’amore divino. Quando saranno spente del tutto queste voci, e nel mondo ci saranno solo formiche, allora sarà davvero finita. Ma no, questo non accadrà mai, perché per grazia di Dio i santi ci saranno sempre: folli di Dio che non si curano di avere successo, di essere conosciuti o piuttosto rinchiusi nelle galere, di avanzare di grado nella carriera… Essi non guardano che l’eterno, e come sentinelle, tengono accesa, col loro ardore, la fiamma della speranza, il richiamo all’Assoluto, le esigenze di Dio. Il loro destino è quello di essere incompresi, ma non se ne curano affatto: Dio è troppo importante e grande per essere “sistemato” tra le altre realtà del mondo, o addirittura scambiato per un mezzo per ottenere altre cose. Dio non è nelle cose. Dio è Dio, e chi lo trova è disposto a vendere non solo un campo, ma il mondo intero pur di comprare quella perla.

Si noti: la cicala è il santo, ma anche il poeta. Ed è proprio della poesia, quella vera, svegliare l’uomo dal disincanto delle realtà che passano per annunciare il destino ultimo dell’anima, fatto per cose che trascendono l’umano.

Il poeta e il santo, due vocazioni che quasi si assomigliano, tant’è che sovente i santi sono anche poeti, coloro che esprimono le loro esperienze con il linguaggio dell’amore, così diverso dalle parole involute e vuote della mondanità.

La cicala muore alla fine – conclude lo scrittore grevigiano – per eccesso di canto e di amore. Non fu questa la morte di Cristo sulla croce? Eccesso di amore, per noi uomini.

Una morte simile è da augurarsi a tutti.

Ma anche una vita simile.

 

 

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1 commento su “L’ape e la cicala”

  1. Ormai sta bene TUTTO a quasi tutti i preti, perché il silenzio E’ ASSENSO…..
    E a questo proposito come fa a non venire a mente a NESSUNO, compreso l’egregio papa, il fatto di quando GES|U scacciò; i mercanti dal tempio…….

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