La Famiglia Romanov e le denunce del Patriarca Kirill all’Europa occidentale

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In conspéctu divinæ maiestátis tuæ

rubrica di Cristina Siccardi

 

 

Più di 60 mila russi hanno partecipato al pellegrinaggio per la famiglia Romanov trucidata cento anni fa, il 17 luglio 1918. Un anniversario non ricordato dai media dell’Europa occidentale, ma ben presente in quella orientale. Il pellegrinaggio, svolto nella notte fra il 16 e 17 luglio scorsi, in 15 Km circa, è partito dalla casa di Nikolaj Ipat’ev (mercante di Ekaterinburg, nella regione degli Urali), dove la famiglia imperiale russa era stata sterminata dai bolscevichi, per giungere a Ganina Jama, una miniera dismessa nei pressi del villaggio di Koptjaki, dove i resti dei Romanov furono gettati occultamente in un pozzo.

Il patriarca di Mosca Kirill ha guidato il pellegrinaggio sui luoghi del martirio dello zar Nicola II e della sua famiglia, insieme ai vescovi riuniti nella speciale sessione del Sinodo. La solennità era stata preparata nei giorni precedenti dalle celebrazioni per i 1030 anni del Battesimo della Rus’ di Kiev, che secondo le parole del patriarca fu «l’avvenimento che segnò una svolta nella storia dei popoli slavi, indicando la strada della civiltà slava, dal buio dei falsi ideali alla rivelazione della verità divina». Da sottolineare la denuncia che il patriarca ha fatto esplicitamente durante l’omelia, della responsabilità delle idee materialiste e atee provenienti dall’Europa occidentale, idee che hanno portato all’assassinio dello Zar e della sua famiglia: «conseguenza del pernicioso influsso della filosofia proveniente dall’estero, che ha portato alla negazione di Dio, alla dimenticanza dei comandamenti e alla perdita di un vero rapporto spirituale con la Chiesa». Secondo il pastore ortodosso il popolo russo è stato investito da un folle treno, lanciato a gran velocità dalle tante rivoluzioni culturali e sociali del mondo occidentale «finché in un certo momento della storia è come se il treno fosse deragliato, quando il macchinista non ha più controllato la velocità in una curva pericolosa, gettandosi verso la catastrofe». Il baratro si è aperto «quando pensieri a noi estranei, ideali estranei, mentalità estranee, formate da opinioni politiche e filosofiche che non avevano niente in comune con il cristianesimo, con le nostre tradizioni nazionali o la nostra cultura, hanno cominciato ad essere accolte dall’intellighènzia e dall’aristocrazia, perfino da una parte del clero, come fossero pensieri che portano al progresso, e seguendoli fosse possibile cambiare in meglio la vita del popolo».

Già nel 2017, centenario della rivoluzione, il capo della Chiesa russa aveva più volte ripetuto che le colpe della sciagura russa erano da attribuire agli intellettuali e agli influssi occidentali. Il responsabile dell’emigrazione del nuovo modo di pensare nella terra degli Zar è considerato Pietro il Grande, che nel 1700 introdusse forzatamente la cultura occidentale; ma già i gesuiti, attraverso la Polonia, avevano portato nuove idee fin dalla fondazione dell’Accademia teologica di Kiev nel 1625. Il progresso ha ossessionato le aspirazioni materiali, schiacciando quelle spirituali: «questa idea di cambiare in meglio la vita del popolo», ha ancora affermato Kirill, «è sempre presente, quando si modifica forzatamente il corso della storia… le rivoluzioni più terribili e sanguinarie sono sempre state fatte in nome del popolo e del suo benessere, convincendo la gente che il meglio può venire solo dal sangue e dalla morte, distruggendo il sistema precedente» (In V. Rozanskij, Per Kirill, il martirio dello zar Nicola II fu colpa dell’Occidente, «Asia News», 18 luglio 2018).

Oggi, nella Russia di Vladimir Putin, i Romanov non sono soltanto degli eroi, ma dei santi.

Lenin in persona ordinò l’esecuzione della famiglia imperiale, benché i resoconti ufficiali del Soviet attribuissero la responsabilità della decisione al governo regionale degli Urali. Trotsky, nel suo diario, scrisse:

«La mia seguente visita a Mosca avvenne dopo la caduta di Ekaterinburg. Parlando con Sverdlov gli chiesi: “Ah sì, e dov’è lo zar?”; “È tutto a posto”, rispose. “È stato fucilato”. “E dov’è la sua famiglia?”. “La sua famiglia con lui”. “Tutti?”, chiesi, apparentemente sorpreso. “Tutti”, replicò Sverdlov. “Perché, che c’è?”. Lui stava aspettando di vedere la mia reazione; ma non diedi risposta. “E chi ha preso la decisione?”, chiesi. “Lo abbiamo deciso noi qui. Ilyich Lenin ha ritenuto che non dovessimo lasciare ai bianchi uno stendardo vivente che scorrazzi in giro, specialmente nelle difficili circostanze attuali”».

Per onorare Jakov Michajlovič Sverdlov, leader di coloro che volevano la morte della famiglia imperiale, nel 1924 la città di Ekaterinburg fu rinominata (fino al 1991) Sverdlovsk. Casa Ipat’ev fu requisita e i Romanov internati il 30 aprile 1918, dove rimasero 78 giorni. La condanna a morte fu eseguita il 17 luglio dal funzionario della polizia politica locale Jakov M. Jurovskij, che reclutò ex prigionieri di guerra austroungarici, divenuti comunisti e che sostituirono i bolscevichi russi che si rifiutarono di sparare. Fu una vera e propria mattanza, che durò una ventina di minuti: lo zar cadde per primo, seguito dalla zarina, poi dai figli, Olga, Tatiana, Maria, Anastasia, Alessio. Anche i membri del seguito furono assassinati: il medico, il cuoco, la dama di compagnia dell’imperatrice. Tre delle quattro figlie non morirono subito, furono sventrate dalle baionette. Con loro perirono anche i cani di Tatiana e Anastasia.

Alessio e Maria vennero bruciati; gli altri, spogliati e fatti a pezzi, furono gettati nel pozzo dei Ganina Jama, poi cosparsi di acido solforico e infine dati alle fiamme. I primi ritrovamenti, accertati con l’analisi del DNA mitocondriale, risalgono al 1990 e vennero sepolti nella cattedrale di San Pietroburgo il 16 luglio 1998 con funerale di Stato, presieduto dal primo Presidente della Russia post-sovietica, Boris Eltsin. Il 30 aprile 2008 il governo russo annunciò che tutta la famiglia imperiale era stata identificata. I resti dei Romanov furono ritrovati nella zona di sepoltura di massa su cui oggi si eleva il monastero di Alapaev, che si estende per 3,8 chilometri quadrati, e i governanti al momento del ritrovamento erano proprio il Presidente Eltsin e il primo ministro designato Nemtsov, figure attualmente invise dall’opinione pubblica conservatrice, fra l’altro accusate di aver sfruttato il rinvenimento dei resti dei Romanov per scopi propagandistici.

Per questo e altri motivi più tecnici il patriarca Kirill è piuttosto restio al riconoscimento, in favore del quale è invece schierato apertamente il nuovo metropolita di Pskov, Tikhon (Ševkunov). Al Sinodo si attende una soluzione finale al “giallo delle spoglie”, ma anche al confronto tra i due gerarchi della Chiesa russa.

La cattedrale di San Pietroburgo venne edificata fra il 2000 e il 2003 dove un tempo si trovava la Casa Ipat’ev. Nel 1977 Boris Eltsin, allora primo segretario del Partito comunista a Sverdlovsk, ricevette da Mosca l’ordine di distruggere l’edificio che era stato carcere e luogo del massacro dei Romanov, e successivamente meta di troppa curiosità e devozione. La casa venne rasa al suolo. Sarà ancora Eltsin, già Presidente della Russia, a dare solenne sepoltura ai resti dei Romanov nel 1998 nella cattedrale.

Di temperamento malleabile e velleitario, Nicola II (1868-1918), Imperatore di tutte le Russie, non era nato per il magistrale ruolo storico che il destino gli aveva imposto. Dotato di intelligenza vivace, di buona cultura, di costanza e metodo nel lavoro, oltre che di un grande fascino personale, Nicola II non ereditò dal padre la fermezza di carattere e la capacità sicura e determinata di decidere sugli accadimenti, qualità essenziali per un monarca autocratico. Oltre ad avere un alto grado di influenzabilità (il più delle volte, prima di prendere una decisione, subiva l’ascendente di colui che aveva l’opportunità di parlargli per ultimo), cedeva con grande facilità alle pressioni esterne e in particolare alla moglie di cui era teneramente innamorato.

Fu saldamente ancorato ai suoi principi semplici e forti, ereditati dal padre: lo zar è inviolabile e l’esercito russo invincibile; la religione ortodossa è la sola colla in grado di saldare il popolo al trono. L’unica minaccia, secondo lo zar Nicola, era l’ ntellighènzia: un gruppo di uomini, sviati da cattive letture.

Il fatto di avere, al suo fianco, una straniera, tedesca per sangue e inglese per educazione, non gli giovò, benché Alice d’Assia (1872-1918), divenuta con il matrimonio Alessandra Fëdorovna, abbia immediatamente amato la terra russa e soprattutto la sua religione, fino ad esserne rapita e affascinata, tanto da renderla fanatica dei suoi riti e delle sue impalcature.

La Zarina si circondava di antiche icone che, a suo dire, erano dotate di virtù straordinarie. Accoglieva con estrema disinvoltura monaci sospetti, pope sconociuti, pellegrini pseudo-illuminati e ascoltava tutti con imprudente infantilismo. Era portatrice sana di emofilia come la nonna materna Vittoria e trasmise la malattia al figlio Aleksej Nikolaevič. La costante preoccupazione per la salute dell’erede la portò ad affidarsi a santoni e presunti guaritori, fra i quali Rasputin («debosciato», etichetta data dal padre perché grande bevitore di vodka), soprannome di Gregorio Efimovič Novychy (1870-1916). Personalità satanica, capace di forza ipnotica, fine psicologo, protagonista di orge depravate e spiritualiste, Rasputin utilizzò la sua intelligenza per infiltrarsi alla corte degli Zar e impossessarsi della mente e dello spirito di Alessandra, la quale, sperando nella sua azione di guaritore, si affidò a lui per cercare la salvezza dello zarevič Alessio, condannato alla morte dalla malattia che gli aveva trasmesso.

Ad un certo punto, tutto ciò che Alessandra dice e scrive al consorte le è suggerito da Rasputin stesso, convinto che la fame porterà alla rivoluzione. Uomo privato, più che pubblico, Nicola II ama prendere di più una tazza di tè insieme all’amata moglie che ascoltare un  ministro, godere della presenza dei cinque figli, che prestare attenzione ai lamenti del popolo, anche in momenti particolarmente gravi per la sua patria: scioperi, manifestazioni studentesche, attentati e omicidi ai danni di notabili… eppure sul suo diario preferisce annotare le variazioni di temperatura, descrivere una passeggiata in bicicletta, una gara di canottaggio, un momento particolarmente romantico con la sua Alessandra.  Con il tempo la zarina si ritaglia il suo spazio nell’autorità governativa fino ad interpellare personalmente i ministri, discutere con loro, nominarli o esautorarli.

Il Presidente della Duma, Rodzjanko, convocato da Nicola II, gli confessa alla vigilia della rivoluzione: «Con nostra grande vergogna, il disordine regna ovunque. La nazione si rende conto che avete bandito dal governo tutti quelli che godevano della fiducia del popolo e che li avete sostituiti con personaggi indegni e incompetenti».

Caduti nelle mani dei bolscevichi, lo Zar lamenta il cattivo trattamento che devono subire e si sente rispondere da uno degli ufficiali sottoposti alla loro custodia: «Io provengo dal popolo. Quando il popolo vi tendeva la mano, non l’avete mai afferrata. Oggi non vi tenderò la mia». In molte fabbriche gli operai reclamano un castigo esemplare per i «vampiri Romanov». In un certo senso, ciò che era accaduto nel debole regno della Francia del Settecento – erede degli usi e costumi di Versailles, voluti da Luigi XIV – dove il pensiero rivoluzionario e sanguinario era riuscito a prevalere, si replicherà in Russia.

Tuttavia gli errori compiuti dal fragile Nicola non giustificano gli orrori della rivoluzione russa e dei suoi leader, compreso il massacro di Ekaterinburg. Il 20 agosto del 2000, nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore, l’ultimo Zar, con sua moglie e i suoi figli, è stato canonizzato dal Patriarcato di Mosca insieme ad altri 853 martiri della rivoluzione bolscevica[1]. I membri della famiglia imperiale sono stati definiti «Santi portatori imperiali della Passione», onorati dal calendario liturgico ortodosso il 17 luglio. Il loro innalzamento all’onore degli altari è fondato sul comportamento cristiano esemplare che essi mostrarono durante la deportazione e la prigionia, ma soprattutto, come testimoniano diari e lettere ritrovati dopo la morte, per avere concesso il perdono a carcerieri e carnefici. Lo Zar giunse a chiedere di non essere vendicato, rifiutando persino la via della fuga che gli era stata proposta poiché temeva che sarebbe costata troppo sangue fra il popolo russo.

Nicola II, uomo pio e colto, ma assai indeciso nelle sue responsabilità di sovrano, non avrebbe quindi meritato la dichiarazione di santità se non avesse affrontato gli ultimi mesi con profondo spirito cristiano. A lungo infatti la sua canonizzazione fu contestata, a causa delle sue decisioni politiche[2], a partire dalla cosiddetta «Domenica di sangue» del 22 gennaio 1905, quando fece trucidare sotto le mura del suo palazzo centinaia di manifestanti guidati dal prete-sindacalista Georgij Gapon. E poi la tragica abdicazione del 14 marzo 1917, quando abbandonò la Russia alla demoniaca rivoluzione.

La scelta del Patriarca e dei vescovi russi di recarsi recentemente in pellegrinaggio sugli Urali non è stato soltanto un omaggio ai martiri, ma anche un’occasione per ricordare da dove viene il popolo russo con le sue profonde radici cristiane, che nell’Europa orientale, dopo la parentesi persecutoria comunista, si riscoprono, a fronte di un’Europa occidentale che le calpesta.

 

[1] La famiglia Romanov fu canonizzata nel 1981 come martire dalla Chiesa ortodossa russa all’estero. Furono canonizzati insieme al medico di corte Evgenij Botkin, il garzone Aleksej Trupp, il cuoco Ivan Charitonov, la domestica della zarina Anna Demidova, due servi uccisi nel settembre 1918, la dama di compagnia Anastasija Hendrikova e l’insegnante privata Catherine Adolphovna Schneider. Tutti canonizzati come vittime dell’oppressione dell’Unione Sovietica. Anche la sorella di Alessandra, la granduchessa Elizaveta Fëdorovna, assassinata dai bolscevichi il 18 luglio 1918, fu canonizzata in questa occasione, con i suoi compagni di martirio il principe Ivan Konstantinovič, il principe Igor’ Konstantinovič, il principe Konstantin Konstantinovič, il granduca Sergej Michajlovič e il principe Vladimir Pavlovič Paley, Fyodor Remez, segretario personale del granduca Sergio e suor Varvara Jakovleva. Furono anch’essi dichiarati martiri dell’oppressione dell’Unione Sovietica. Nel 1992 la granduchessa Elizaveta Fëdorovna e Varvara Yakovleva furono canonizzate come martiri dalla Chiesa ortodossa russa; i principi e gli altri uccisi con loro non furono canonizzati.

[2] Nella storia russa esistono diversi esempi di martiri politici, quasi tutti principi e zar, chiamati con un termine esclusivo del cristianesimo russo: gli strastoterptsy, «coloro che hanno sofferto la passione», un martirio passivo senza esplicita professione di fede. I primi santi russi canonizzati, nel 1025, furono i figli di Vladimir di Kiev, i principi Boris e Gleb, assassinati dal fratello Svjatopolk per questioni dinastiche. Il racconto del loro martirio è uno dei testi fondanti della spiritualità russa. Alcuni anni dopo furono canonizzati anche il padre Vladimir e la nonna Olga, protagonisti del Battesimo della Rus’di Kiev: si tratta del gruppo degli antichi santi russi riconosciuti anche dalla Chiesa Cattolica, prima dello scisma del 1054.

 

Icona dei Santi Romanov

 

Processione della notte fra il 16 e il 17 luglio 2018 per i 100 anni del martirio della Famiglia Romanov

 

Cattedrale sul sangue a Ekaterinburg, dove Nicola II e la sua famiglia venne assassinata nel 1918

 

L’incoronazione dello Zar e della Zarina (1896)

 

Nicola II nei giorni successivi l’abdicazione, marzo 1917

 

Lo Zar con il figlio Aleksej durante la prigionia a Tobol’sk, 1917

 

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1 commento su “La Famiglia Romanov e le denunce del Patriarca Kirill all’Europa occidentale”

  1. Cristina zaccanti

    Ringrazio per questa ricca r interessante ricostruzione storica e biografica di una pagina di storia volutamente occultata o travisata. Occorrerà riscrivere la storia per essere testimoni della verità. Possa l’Europa cristiana respirare con i suoi due polmoni

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