La “condannabilità” papale nella Commedia di Dante

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Dante ci presenta nella Commedia quasi esclusivamente figure di Papi criticabili, se non addirittura negative, ma non dimentichiamo che egli fa opera di poeta e non di storico, per cui, aldilà della bellezza poetica e della forza evocativa dei suoi versi, è opportuno anche valutare oggettivamente – almeno per alcuni Pontefici – i dati storici, mettendo da parte quindi l’aspetto soggettivo che porta talora il Poeta a giudizi forse fin troppo severi.

Iniziamo con una osservazione molto semplice: l’unico pontefice cui Dante riserva un episodio nel suo Paradiso, lasciandogli la parola, è San Pietro. È vero, nel canto XI, dedicato a San Francesco, compaiono le figure di Onorio III e di Innocenzo III, i due papi che diedero la loro approvazione (l’uno orale, l’altro scritta) alla Regola francescana, ma sono due semplici citazioni di carattere storico-biografico, senza che ai due personaggi sia riservato l’onore di comparire e, soprattutto, di parlare. Lo stesso si può dire per i Papi (sei) citati da San Pietro stesso nel suo discorso.

Nel canto XXVII della terza cantica invece, e precisamente ai vv. 19-66, compare la figura del primo Pontefice, San Pietro. Egli si rivolge a Dante iniziando subito (v. 22) una invettiva nei confronti del Papa (Bonifacio VIII) regnante in quell’anno 1300. Tale invettiva segue la tradizione dantesca di esser fatta pronunciare al fondatore (e anche, in questo caso, la figura più significativa) della istituzione con cui si vuole polemizzare a causa di uno o più suoi indegni esponenti. Pertanto tocca appunto a San Pietro, primo Pontefice, il compito di attaccare il suo successore e la corruzione dell’istituzione che da lui ha avuto il suo inizio storico.

Vedendo da vicino i termini dell’invettiva, notiamo che Dante entra non solo immediatamente in medias res, ma non esita a definire Bonifacio in modo molto diretto «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio» (v. 22): Bonifacio è dunque un usurpatore, convinzione ribadita ai due versi successivi «il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio», poiché Dante vuol chiarire che Bonifacio è usurpatore non davanti agli uomini (cioè per un’elezione illegittima o irregolare), ma davanti a Gesù stesso, per la sua indegnità morale a ricoprire il ruolo di Vicario di Cristo in terra. A tal punto Bonifacio è indegno che ha reso Roma («il cimitero mio», v. 25, cioè il luogo del martirio di San Pietro) una sorta di fogna caratterizzata da «sangue e puzza», cioè da violenza, vizi e corruzione (v. 26). In conseguenza di ciò Lucifero («il perverso» del v. 26), dopo essere caduto dal cielo nell’inferno, gioisce di tale situazione (vv. 26sg.). Il «là giù» di v. 27, comunemente inteso come «laggiù nell’inferno», potrebbe, però, anche essere interpretato come «laggiù a Roma».

Dopo una breve pausa descrittiva e riflessiva (vv. 28-36), in cui Dante ci mostra un fenomeno, il farsi rosse delle anime, che denota l’indignazione dei Beati, ed in particolare di Beatrice, a partire dal v. 37 riprende il discorso di San Pietro, che procederà senza più interruzioni fino alla sua conclusione, al v. 66. Le parole del primo Pontefice vanno ora a colpire in particolare la corruzione e la brama di ricchezze dei Papi suoi successori (e degli ecclesiastici in genere): la Chiesa, infatti, definita secondo le parole tradizionali di «sposa di Cristo» (v. 40), non crebbe grazie al sangue dei martiri, e dei pontefici martiri in particolare (San Pietro cita sé stesso, e i due suoi immediati successori, San Lino e Sant’Anacleto), per diventare poi oggetto di arricchimento indebito («per essere ad acquisto d’oro usata», v. 42). Tale concetto è immediatamente ribadito e confermato con una antitesi che riprende la parola «acquisto», capovolgendone, però, il valore (da negativo in positivo): non per «acquisto d’oro», ma per «acquisto d’esto viver lieto» (cioè la beatitudine del Paradiso, v. 43) altri suoi successori (Sisto I, Pio I, Calisto I e Urbano I, tutti regnanti tra II e III secolo) si fecero martiri spargendo il loro sangue, dopo molte sofferenze («dopo molto fleto», v. 45). L’accusa seguente, riferita più genericamente ai «nostri successor» (v. 47), riguarda le divisioni nel popolo cristiano nate per colpa e cagione di alcuni Pontefici. San Pietro usa un’immagine molto vivace nella sua concretezza: i cristiani non devono stare parte alla destra del Papa e parte alla sua sinistra («a destra mano […] parte sedesse / parte da l’altra», vv. 47sg.). Come non pensare, a questo riguardo, al passo di San Matteo 25, 31-33, laddove si parla del giorno del giudizio e degli eletti alla destra di Cristo ed i reietti alla Sua sinistra, anche se l’immagine dantesca dovrebbe rimandare all’idea del favore dato ai Guelfi e della condanna riservata ai Ghibellini. L’idea è rafforzata dall’immagine seguente (vv. 49-54), nella sezione in cui San Pietro parla del simbolo papale per eccellenza, quello delle chiavi, oltre che di se stesso. All’immagine del segno è dedicata la terzina che va dal v. 49 al v. 51, in cui si dice che esse, da simbolo del potere dato da Cristo stesso a Pietro (potestas clavium) sulla Chiesa e sui cristiani, sono diventate ormai solamente un segno apposto sugli stendardi degli eserciti papali in occasione delle guerre, in particolare quelle «contra battezzati» (v. 51; cfr. anche Inf. XXVII, v. 88, sempre a proposito di Bonifacio VIII e delle sue lotte con la famiglia romana dei Colonna). Nella terzina seguente poi (vv. 52-54) è presentata la figura stessa del primo Papa, anch’essa divenuta simbolo e «figura di sigillo» per autenticare bolle e diplomi falsi («mendaci», v. 53), perché assegnati non per merito ma per amicizia, e venduti a scopo di lucro. La sezione termina con un’immagine molto efficace: pensando a ciò che i Papi fanno ora in terra con la sua effigie, Pietro stesso arrossisce di vergogna (v. 54).

L’invettiva, come spesso in Dante, si conclude con una profezia (vv. 55-66). Dopo aver infatti ancora dichiarato che molti ecclesiastici (e non solo i Papi, ma l’esempio che viene dall’alto travia anche i sottoposti) da «pastori» che erano sono divenuti dei «lupi rapaci»[1] che si muovono in tutte le comunità cristiane («per tutti i paschi», v. 56), si invoca da parte di San Pietro (ma c’è soprattutto il Dante-poeta che parla con lui) l’intervento risolutivo di Dio: «o difesa di Dio, perché pur giaci?» (v. 57). Non solo ma anche i francesi (Caorsini e Guaschi del v. 58)[2] si preparano a rovinare la Chiesa, bevendone il sangue, cioè divorandone i beni (v. 59), a tal punto che si vedrà bene come il santo inizio della Chiesa, e del Papato, si ridurrà certamente ad una fine disonorevole (vv. 59sg.). A questo punto, però, ecco che interverrà la Provvidenza divina, già raffigurata – nella storia – da Scipione Africano (v. 61): come Scipione, per volere della Provvidenza, salvò Roma, così ora la stessa Provvidenza manderà qualcuno a salvare la Chiesa e il mondo. Sul filo del discorso già affrontato nel canto VI della stessa Cantica, l’impero romano fu voluto da Dio, nella visione provvidenzialistica della Storia, per preparare la salvezza del mondo ad opera di Nostro Signore Gesù Cristo. È, quindi, lecito pensare, ancora che un Imperatore (forse Arrigo VII?) sarà destinato da Dio a salvare nuovamente la Chiesa ed il mondo cristiano.

La profezia (e l’invettiva) si chiude con l’invito da parte di San Pietro a Dante a non tacere nulla di ciò che ha visto ed udito, ma a dire tutto quanto («apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo», vv. 65sg.), confermando così al Poeta – in certo qual modo – ciò che già gli era stato detto dal trisavolo Cacciaguida nel canto XVII della stessa Cantica.

 

 

[1] Cioè dei «ladri» (dal verbo latino rapio, cioè «portar via con violenza»): ancora una volta abbiamo un rimando a San Matteo 7,15.

[2] Accenno ai futuri papi di origine francese: Clemente V, che regnò dal 1305 al 1314, e Giovanni XXII, dal 1316 al 1334.

 

 

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