Gustave Doré (1832-1883), Esempio di umiltà (1861)
Poi[1] fummo dentro al soglio de la porta
che ’l mal amor de l’anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e d’una e d’altra parte,
sì come l’onda che fugge e s’appressa.
«Qui si conviene usare un poco d’arte»,
cominciò ’l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».
E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna[2];
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,
io stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de l’alta ripa che pur sale,
misurrebbe[3] in tre volte un corpo umano;
e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.
L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”;
perché iv’era imaginata[4] quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Dei”, propriamente
come figura in cera si suggella.
«Non tener pur[5] ad un loco la mente»,
disse ’l dolce maestro, che m’avea
da quella parte onde ’l cuore ha la gente.
Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m’era colui che mi movea,
un’altra storia[6] ne la roccia imposta[7];
per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta[8].
Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,
per che si teme officio non commesso[9].
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
faceva dir l’un «No», l’altro «Sì, canta».
Similemente al fummo de li ’ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
e al sì e al no discordi fensi[10].
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando[11] alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.
Di contra, effigiata ad una vista[12]
d’un gran palazzo, Micòl ammirava[13]
sì come donna dispettosa[14] e trista.
I’ mossi i piè del loco dov’io stava,
per avvisar[15] da presso un’altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv’era storiata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi in vista al vento si movièno[16].
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch’è morto[17], ond’io m’accoro»;
ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor s’affretta,
«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io,
la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»;
ond’elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene».
Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Mentr’io mi dilettava di guardare
l’imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,
«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne ’nvieranno a li alti gradi[18]».
Li occhi miei ch’a mirare eran contenti
per veder novitadi ond’e’ son vaghi,
volgendosi ver’ lui non furon lenti.
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi[19]
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che ’l debito si paghi.
Non attender la forma del martìre:
pensa la succession[20]; pensa ch’al peggio,
oltre la gran sentenza non può ire.
Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».
Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione.
Ma guarda fiso là, e disviticchia[21]
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».
O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata[22] in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera[23] rancura[24]
nascere ’n chi la vede; così fatti
vid’io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti
secondo ch’avien più e meno a dosso;
e qual più pazienza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: “Più non posso”.
[1] Non avverbio, ma congiunzione con valore temporale: “dopo che”.
[2] Con valore traslato: “apertura, passaggio”. Poco probabile è il richiamo, ipotizzato da alcuni commentatori, al passo evangelico (Matteo 19, 24, Marco 10, 25 e Luca 18, 25) del cammello e della cruna dell’ago.
[3] Forma contratta per “misurerebbe”.
[4] Non con il valore nostro consueto di immaginare qualcosa con la fantasia, ma con quello di “messa come immagine/figura”, e quindi “raffigurata”.
[5] In questo caso “pur” non ha il consueto valore continuativo, ma quello di “solamente”.
[6] Con il valore tecnico di “immagine istoriata”. In tutto l’episodio sono molti i termini tecnici dell’arte della scultura, ed in particolare dell’altorilievo.
[7] Altro termine tecnico: “posta sopra, sovrapposta”, cioè “scolpita ad altorilievo”.
[8] Nel senso di “esposta”, e quindi “ben visibile”.
[9] Frase di tipo sentenzioso, in cui hanno forte rilievo i due latinismi: “officio” (incarico) e “commesso” (affidato). Dante vuole appunto dichiarare che, in conseguenza di questo episodio biblico relativo ad Oza ed al trasporto dell’Arca santa, “si teme di compiere un incarico che non sia stato espressamente affidato”.
[10] Forma agglutinata per “si fenno”, cioè “si fecero”.
[11] Il verbo “trescare”, dal sostantivo “tresca” (sorta di danza eseguita a salti), significa appunto “danzare saltando di qua e di là”. In senso traslato, poi, “trescare” significa “avere relazioni (in genere illecite) con diverse persone”, come appunto di qualcuno che si muova di qua e di là. Il participio “alzato”, invece, significa che il danzatore (cioè il re Davide) si “era alzata” la veste sui fianchi per non essere impacciato nella danza.
[12] Sostantivo di uso arcaico per “finestra” o comunque una qualunque apertura da cui si possa vedere.
[13] Nel senso del verbo latino miror: “guardava con meraviglia, con stupore”.
[14] Dal verbo latino despicere, cioè “disprezzare”, impiegato proprio nel testo biblico (libro 2 dei Re) da cui Dante prende ispirazione, “dispettosa” significa “sprezzante”, mentre il successivo “trista” vale “crucciata, indispettita”.
[15] Verbo tecnico delle arti figurative: “guardare” (< visus, “vista, sguardo”).
[16] Per motivi metrici, e per la rima con “pieno”, il verbo subisce lo spostamento d’accento sulla penultima.
[17] Come accade spesso nell’italiano del tempo, il verbo “morire” è usato col valore transitivo di “uccidere”: “è stato ucciso”.
[18] Vale a dire “ci mostreranno la via (“inviare”) verso le cornici (“gradi”, cioè scalini) superiori. Meno incisiva sembra essere la lezione di alcuni mss., che portano “altri gradi”, molto più semplicemente e meno acutamente.
[19] Il verbo “smagare”, dal latino medievale exmagare (< germanico magan, “avere forza”), significa “perdere le forze, indebolirsi”, e poi in senso traslato “distogliersi, allontanarsi”.
[20] Cioè “ciò che verrà successivamente”, vale a dire la vita eterna; così come “la gran sentenza” è il Giudizio universale.
[21] Verbo fortemente icastico. Il suo significato letterale è quello di “allentare” (al contrario di “avviticchiare”, cioè “legare come un viticchio”). Qui indica lo sforzo di distinguere, districare la figura umana dell’anima da quella del macigno che essa porta sulle spalle.
[22] Grecismo della lingua della scienza: “insetti”. In realtà questa forma, che vorrebbe essere un neutro plurale, non corrisponde esattamente al termine greco (entoma), ma è stato formato usando la desinenza di altri sostantivi neutri plurali greci, corretti e più usuali nel lessico intellettuale del tempo, quali “dogmata”, “poemata”, “problemata”.
[23] Allitterazione con omoarcto e poliptoto.
[24] Francesismo col valore di “oppressione”.