In che cosa speriamo?

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Si parla sovente di speranza, ed è innegabile che ogni uomo speri in qualche cosa: nella buona salute, nella pace in famiglia, nel benessere, nella sicurezza del domani, eccetera. Egli, quindi, sa che cosa sia la speranza, perché ne fa esperienza.

Ma le cose stanno proprio così?

Che cosa è, in realtà, la speranza?

È una virtù teologale. La sua definizione precisa è la seguente: «La speranza è una virtù teologale infusa da Dio nella volontà, per cui confidiamo con certezza di ottenere la vita eterna e i mezzi necessari per giungervi con l’aiuto di Dio».

Come potete vedere, è tutt’altra cosa da quello che normalmente si intende.

 

Piero del Pollaiolo (1441/1442-1485/1496), Speranza (1470), olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze.

 

Nel linguaggio comune si spera in qualche cosa che potrebbe accadere e che migliorerebbe il nostro stato di vita. Per esempio: spero di vincere al totocalcio, spero che all’esame di chimica non mi si chieda quel tal argomento, ho male al fegato ma spero che non sia nulla di grave. Tutte cose, queste, dall’esito sconosciuto, imponderabile: gioco ma non vinco, vado all’esame ma mi chiedono proprio quell’argomento che non so, faccio la visita medica e mi dicono che ho la cirrosi, ecc. La speranza, quindi, in questi casi ha un oggetto totalmente incerto. Ancora, nel linguaggio comune posso avere un’altra speranza: sono appena arrivato alla fermata del bus e spero che l’autobus arrivi presto; mi secca aspettare e quindi desidererei avere subito il mezzo in arrivo. Che l’autobus arrivi prima o poi, ne sono certo, ma siccome non conosco a che ora, ecco che spero che il mio disagio (l’attesa) duri poco.

Questi sono casi di speranza umana. Non è quella che intendiamo noi con la virtù teologale. Quella vera, della quale stiamo parlando, ha un oggetto ben preciso, conosciuto, raggiungibile: non è né il totocalcio né il 30 all’esame né il bus in arrivo, né la buona salute: è la beatitudine eterna, e i mezzi che ad essa conducono. Quindi, in sostanza, l’oggetto sperato è Dio, perché la vita eterna altro non è che Dio stesso, vera beatitudine dell’uomo.

La speranza, s’è detto, risiede nella volontà. La volontà è il movimento dell’appetito razionale verso il bene, quella forza che ci spinge verso una cosa buona conosciuta come tale. Se per esempio desidero mangiare un gelato, perché mi piace e giudico che sia un bene rallegrare la tavola finendo il pranzo col gelato, metto in moto tutti gli atti necessari per raggiungere il mio fine: esco di casa, compro, porto a casa, metto in frigo, eccetera. Bene, la speranza mi fa compiere atti per i quali io tendo a raggiungere il mio oggetto (Dio e il Paradiso), con certezza assoluta. Questo non significa che sono assolutamente certo di salvarmi, ma che non incontrerò sulla strada ostacoli insormontabili per la salvezza eterna.

La speranza teologale è quindi una cosa molto bella, una forza trainante straordinaria. Gesù ci ha promesso la vita eterna: «I vostri nomi sono scritti nei Cieli» (Lc 10,20). Lo vedete voi il vostro nome scritto là? «Nella casa del Padre mio ci sono molti posti, se no ve lo avrei detto (Gv 14,2). Lo vedete voi il vostro posto? Oppure viviamo come se la salvezza eterna fosse qualcosa di vago, di impreciso, di insicuro? Se pensiamo al Paradiso in questi termini, umani e relativi, riduciamo la vita eterna (quindi Dio) ad un autobus o all’enalotto: forse arriverà, chissà… E si vivrà, poi, sostanzialmente, per questo mondo. Se la vita eterna non è un problema (tanto, prima o poi, tutti si salvano…) allora la vera preoccupazione sarà la vita di quaggiù, i veri problemi saranno quelli della terra. Lo sentiamo anche in certa predicazione corrente nella Chiesa di oggi; si parla solo di cose di questo mondo: giustizia sociale, rapporti tra Stati, salvaguardia del creato, aiuto ai migranti, emergenza sanitaria, eccetera. Si spera nelle cose della vita (incerte come gli autobus e i tredici al totocalcio) e non si spera nell’unica cosa certa: Dio.

 

Giotto (1267-1337), Speranza (1306 ca.), affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova

 

Ma, allora, non dobbiamo sperare niente in questo mondo? San Tommaso d’Aquino afferma che anche i beni del mondo formano l’oggetto secondario della speranza, ma unicamente in quanto possono essere utili alla salvezza. Egli afferma precisamente che fuori della salvezza dell’anima non dobbiamo chiedere a Dio nessun altro bene, a meno che non sia in ordine alla salvezza medesima.

Dunque noi possiamo e dobbiamo sperare di salvarci l’anima, perché Dio lo vuole. Raggiungendo il Paradiso noi realizziamo il fine per il quale siamo creati. Ecco perché i santi avevano sempre la ferma speranza in Dio e al tempo stesso il santo timore: sapevano di contenere la grazia in vasi di creta. Erano quindi al contempo gioiosi e umili, frementi nell’attesa della vita eterna e colmi di timor di Dio, sereni ma anche pronti a combattere tentazioni e peccati.

La vera speranza fa bene alla vita. Chi spera teologicamente non si attacca troppo alle cose del mondo, che passano: beni, onori, applausi, eccetera, tutte cose transitorie, come la vita stessa dell’uomo. Egli non pone troppo speranza in queste cose, che possono crollare domattina. Dio invece non crolla. «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propri anima per tutta l’eternità?» (Mt 16,26).

La speranza cristiana ci fa sopportare meglio le inevitabili sofferenze della vita: prove, malattie, lutti, disagi, amori feriti, bocciature, eccetera. Certo, queste sono cose che fanno male, ma il nostro posto in Cielo rimane, il nostro nome scritto lassù è certo. E poi – perché negarlo – la speranza del premio eterno mi aiuta ad essere migliore e a praticare la carità. Io attendo la ricompensa, non c’è nulla di male in questo; non mi si dica che desidero Dio per “interesse” e che quindi pratico la carità solo perché spero di ricevere la ricompensa. Il mio non è interesse egoistico, perché se mi salvo l’anima faccio felice Dio. E farò felice anche me, perché io sarò contento della Sua beatitudine immensa; in altri termini: godrò della Sua felicità, che sarà anche mia.

 

Gustave Doré (1832-1883), La moltitudine degli angeli (1861)

 

Se la mamma premia il bambino che è stato buono, dandogli un dolcetto, comprandogli un giocattolo, o semplicemente facendogli una carezza, perché non devo pensarlo anche io nei confronti di Dio? Egli stesso lo dice: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). Essere buono mi costa! La mia inclinazione non è la dolcezza e la mitezza… a volte tirerei una randellata sulla schiena al mio prossimo, per il fastidio che mi procura, e se non lo faccio, ma al contrario lo amo, mi sforzo e so che per questo vi sarà una ricompensa. Il discorso è meno banale di quanto non appaia, perché l’amore vuole il bene dell’altro. Lo aveva capito bene Francesco Marto, il pastorello di Fatima, che diceva di voler morire e andare in Cielo per consolare Gesù, perché lo aveva visto triste. Francesco (santo, morto a 11 anni) non pensava al Paradiso come benessere per sé, ma come gioia per Gesù, il quale sarebbe stato contento perché Francesco Marto lo avrebbe consolato! Teologicamente perfetto: il bambino trova la sua gioia nel dare gioia all’altro (Gesù, in questo caso). Non qui in terra, ma in Paradiso.

Chi spera nel Signore e nella vita eterna non si dà troppe preoccupazioni per l’oggi. «Il preoccuparsi per il domani significa voler prendere il posto di Dio», scriveva Kierkegaard. Ma, meglio di lui, il Signore stesso: «Non affannatevi per il domani, ogni giorno ha la sua propria pena» (Mt 6,25).

Infine è bello vedere nei santi la speranza che raggiunge livelli grandiosi. Essi hanno una illimitata fiducia in Dio, non si scoraggiano mai. San Paolo dice che Abramo «sperò contro ogni speranza» (Rm 4,18), non si fermò di fronte ad alcuna difficoltà.

Questa totale fiducia in Dio dà pace e serenità inalterabili. Niente turba la calma dello spirito: né persecuzioni o calunnie, né insuccessi o malattie… Quanti esempi ci hanno dato i santi in questo! Santa Elisabetta della Trinità diceva che nelle avversità i santi rimangono «immobili e tranquilli come se si trovassero già nell’eternità».

Chi spera in questo modo in effetti è quasi più di là che di qua. Un responsorio della liturgia domenicana dice che i servi di Dio vivono in terra soltanto con il corpo, ma la loro anima e il loro desiderio sono già fissi in Cielo. È la traduzione pura e semplice del detto paolino «La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come nostro salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3,20), che costituiva il programma dell’apostolo delle genti.

Ecco dunque spiegata la differenza tra la speranza umana e quella teologale.

Tale speranza divina è oggi particolarmente necessaria. Se si spera in tutto tranne che in Dio, alla fine si perde tutto. «Tanto hai quanto speri. Spera molto, avrai molto», diceva padre Pio, ripetendo un famoso detto di san Giovanni della Croce.

O speranza, quanto sei grande!

 

 

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