Il tempo perduto e l’eternità ritrovata – Quando un’opera aforistica dà forma ad una filosofia di vita

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Il tempo perduto e l’eternità ritrovata è il titolo del volume pubblicato nel 2019 da D’Ettoris Editori (pp. 516, € 25,90) a cura di Antonella Fasoli e con la prefazione di Benedetta Scotti che ripropone tre opere di Gustave Thibon (2 settembre 1903 – 19 gennaio 2001): La scala di Giacobbe (la rivisitazione del 1975), L’ignoranza stellata (1974) e Il velo e la maschera (1985). Una preziosa riedizione di tre opere in una per testimoniare il pensiero di un filosofo che spesso è più citato che letto, soprattutto negli ambienti tradizional-conservatori. Questo volume si presta bene alla citazione proprio perché il suo stile letterario è l’aforisma: uno stile che ha la capacità di esprimere un pensiero in poche righe oppure, in pochi casi, al massimo in una o due pagine. Le opere contenute in questo volume non seguono un approccio sistematico, al contrario, ad esempio, di due saggi in cui questo autore enunciò il suo pensiero socio-politico: Diagnosi di fisiologia sociale (1940) e Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1943).

Le riflessioni qui esposte sono accomunate da un profondo realismo sulla nostra condizione di creature che aspirano al bene, ma sono inclini al male. La descrizione del pensiero con il metodo dell’aforisma rischia la frammentarietà e, comunque, costringe il lettore a rintracciare lui stesso il filo conduttore.

Significativa è l’espressione di Simon Weil (1909-1943), che Thibon fece propria, secondo la quale «non vi è epoca migliore di quella in cui tutto è andato perduto, non per piangere sterilmente su quel che fu, ma perché è proprio in tal epoca che tutto può essere recuperato»[1]. E si intuisce che per alcuni questo recupero può essere difficoltoso.

«Cosa può essere recuperato e in che modo?» si può domandare il lettore. Va recuperato Dio, il senso del sacro e la metafisica. Le false speranze e le grandi illusioni, a partire dall’epoca rivoluzionaria, sfociano nel Liberalismo, con la “fede” nell’infallibilità dell’uomo, prima, e nel marxismo e nel materialismo, che crede nella costruzione di una società perfetta per mezzo di un potere politico “salvifico” che si auto-proclama moralmente giusto e idoneo a migliorare la condizione degli uomini.

La vita che ci viene suggerita oggi è la metafora della, ormai celeberrima, Caverna di Platone, dove le ombre sono così ben addomesticate e organizzate che l’uomo, perfettamente rassicurato e “sviluppato”, non percepisce e non desidera più nulla oltre quello che vede attraverso quelle ombre[2]; ma queste ombre talvolta assomigliano più a delle tenebre, che tolgono all’animo umano ogni rassicurazione, lasciandogli solo il vuoto che non si sa più come colmare.

L’opera di Thibon testimonia, anche attraverso la vita dell’autore, il ritorno alla Fede cristiana. Nella prima giovinezza condusse una vita agnostica priva di interesse per i temi religiosi, una vita all’insegna dell’avventura: viaggiò dapprima a Londra; soggiornò, poi, durante il servizio militare, in Italia e nell’Africa del Nord; all’età di ventitré anni, dopo la Prima Guerra mondiale, fece ritorno al luogo natio a Saint Marcel d’Ardèche nella casa di famiglia, dove riprese lo studio e il lavoro agricolo. Attraverso la lettura e lo studio acquisì una vastissima cultura; imparò il greco e il latino, si interessò sia alle lingue che alla biologia, all’economia, alla matematica, alla storia e, soprattutto, alla teologia e alla filosofia. Con il ritorno al lavoro rurale, Thibon ritrovò anche la Fede cattolica, abbandonata durante l’adolescenza.

Alla domanda «perché sono cristiano?», Thibon dà molte risposte, ma soprattutto: «Perché sento che l’avventura umana sfocia su una cosa diversa da una vuota disperazione, un vuoto interrogarsi o una vuota spensieratezza. […] Perché voglio avere la forza di costruire e di vivere, e quella, ancora più grande, di sperare nell’ora del crollo della morte»[3].

Si è esseri umani quando si comprende di vivere in un frammento dell’eternità; si sente che quel poco tempo che ci è concesso lo si deve sfruttare al meglio, per conseguire qualcosa di buono. Ma, qualora non si riesca, si sfocia nella disperazione o nell’utopia. Per evitare ciò, se l’uomo è capace di grandezza, non vuole salvarsi da solo, ma trasmette agli altri il “segreto” della vita eterna, accettando che le cose di quaggiù non bastano a compiere il desiderio di infinito che abita il suo cuore[4].

Quasi a suggellare questa certezza, l’Autore riporta il brillante paragone tra la saggezza medievale e il pensiero moderno, dove l’uomo intento ad esaminare la serratura ha perso la chiave. Se la serratura è l’ampliamento del sapere umano, l’evoluzione tecnologica, i miglioramenti e il confort di vita, la chiave è lo scopo e il fine ultimo; talvolta si può anche avere una chiave, ma sbagliata, inadatta ad aprire quella porta.

«Nel Medioevo, non si conoscevano tutte le pieghe della serratura umana e cosmica, ma si possedeva la chiave che è Dio. A partire da Cartesio, si è esplorata a fondo la serratura, si è potuto descriverla in modo sempre più dettagliato, ma, nel corso di questa ricerca si è smarrita la chiave. Il mondo e l’uomo sono diventati serrature senza chiave. Del resto, il pensiero moderno nel suo insieme non si preoccupa nemmeno più della natura o dell’esistenza di questa chiave. La sola questione che si pone davanti a una porta chiusa consiste nell’esaminarla molto seriamente, e non nell’aprirla!»[5].

 

 

[1] Thibon Gustave, Il tempo perduto e l’eternità ritrovata, D’Ettoris Editori, Crotone 2019, p. 12.

[2] Ivi, p.329.

[3] Ivi, p. 29.

[4] Ivi, p.13.

[5] Ivi, pp.120-121.

 

 

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