«Questa brava gente è morta in guerra, chiamata a difendere la patria, valori e ideali. E tante altre volte a difendere situazioni politiche tristi. Sono le vittime, le vittime della guerra che mangia i figli della patria», così ha affermato papa Francesco lo scorso 2 novembre in occasione dell’annuale Commemorazione di tutti i fedeli Defunti, che quest’anno ha visto la celebrazione ospitata presso il cimitero militare francese di Roma.
È necessario più che mai mettere i puntini sulle “i”, è doveroso precisare di cosa si tratta. «Marocchinate»: con questo termine è stata tramandala la memoria degli stupri di gruppo, delle uccisioni, dei saccheggi e delle violenze di ogni genere perpetrate dalle truppe coloniali francesi (Cef), aggregate agli Alleati, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e persino di alcuni partigiani comunisti.
Gli americani sbarcarono nel 1942 ad Algeri e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, sino ad allora agli ordini della repubblica filonazista di Vichy, si arresero senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del governo francese in esilio nella così detta “Francia libera”, allora, attinse a questo personale militare per creare il Cef: Corp Expeditionnaire Français, formato al 60% da marocchini, algerini, tunisini e senegalesi e per la rimanente parte da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni.
Alcuni reparti erano però costituiti esclusivamente marocchini di goumiers (dall’arabo qaum), i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti «tabor» in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833 uomini, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda.
Erano equipaggiati non solamente con le armi alleate (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm), ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti. In particolar modo i tedeschi ne fecero le spese. Loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria, che da collaborazionista della repubblica di Vicky era passato alle dipendenze del generale De Gaulle. Gli stupri delle truppe marocchine cominciarono già nel luglio ’43, con lo sbarco alleato in Sicilia. Gli 890 magrebini del 4° tabor, aggregato agli americani, che sbarcano a Licata, compirono saccheggi e violentarono donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. I siciliani non tardarono a reagire uccidendone alcuni con doppiette e forconi.
Gli Alleati, com’è noto, risalirono l’Italia senza troppe difficoltà e si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi opponevano una resistenza tenacissima. Fu il generale Juin, sin dall’inizio, a proporre ai colleghi statunitensi Clark e Alexander l’aggiramento del caposaldo nemico. Dopo tre battaglie sanguinosissime, senza alcun risultato, gli Alleati avallarono la proposta di Juin. Questi aveva scoperto che il monte Petrella, a est di Cassino, era stato lasciato parzialmente sguarnito dai tedeschi. In quelle zone, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto uscire vittoriose.
Con l’operazione «Diadem», che fu l’ultimo assalto collettivo degli Alleati, i goumiers riuscirono infatti a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo. Kesselring, comandante tedesco in Italia, inviò i suoi Panzegrenadieren insieme a reparti italiani della Rsi, ma questi, dopo duri combattimenti, dovettero soccombere. È accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi da un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Ciò avveniva mentre i marocchini cominciavano a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca. Alla ritirata dei nazifascisti, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai franco-coloniali del Cef.
Un assurdo calvario ebbe dunque inizio. Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e la medesima sorte capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Anche il parroco, don Alberto Terrilli (nell’immagine a sinistra), nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morì qualche settimana dopo per le lacerazioni interne riportate. Il 20 maggio 1944 a Vallecorsa, in provincia di Frosinone, il parroco padre Enrico Jannoni, missionario redentorista, fu fucilato dalle truppe marocchine, poiché aveva tentato di difendere alcune donne in procinto di essere violentate. Una pagina eroica di storia della Chiesa completamente occultata dalla Chiesa stessa.
A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella, tra le centinaia di donne stuprate fu violentata una bambina di soli cinque anni. A Cassino fu bruciata viva una donna dopo essere stata stuprata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini, in un campo provvisorio. I reparti marocchini del generale Guillaume stuprarono bambine e anziane; gli uomini che osarono reagire furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Alcuni documenti dell’Archivio Centrale dello Stato attestano che anche i francesi bianchi parteciparono attivamente alle violenze. Anche gli americani sapevano di questi fatti, ma in non più di un paio di casi tentarono debolmente di frenare i goumiers. Un fenomeno di queste dimensioni che si è protratto per oltre due anni, in mezza penisola, che ha interessato un numero elevatissimo di persone, non poteva essere tenuto nascosto ai comandanti. Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, fornisce le cifre precise circa questo massacro: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60000 violenze da parte delle truppe del generale Juin.
Ad oggi possiamo affermare, grazie alle numerose documentazioni raccolte, che ci furono 20000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non sporgere denuncia. Una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, ci porta a poter affermare con certezza che ci fu un minimo di 60000 donne stuprate, ciascuna quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma sono state raccolte testimonianze di donne violentate anche da cento, duecento e trecento uomini. Oltre alle violenze carnali, non mancarono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni.
«Maltrattamento di popolazione civile» è il titolo di un memorandum conservato all’Archivio di Stato, che offre un tentativo di spiegazione per quegli stupri di massa. In esso il comandante delle truppe coloniali francesi, Alphonse Juin, raccolse tutte le segnalazioni di violenze subite dalle popolazioni locali («Che si lamentano amaramente presso Autorità alleate») in quei terribili giorni. Juin minimizzava («Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti»), ma era anche preoccupato per il buon nome dell’esercito francese, ovvero dal rischio di «discreditare un esercito che è composto in massima parte di truppe coloniali». Un rischio da scongiurare, a suo giudizio. Scriveva: “Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia noi dobbiamo mantenere un’attitudine dignitosa. L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti”. Quel riferimento alla Nazione che «odiosamente tradì la Francia» rimanda all’attacco di Mussolini, nel giugno del 1940, quando la Francia era già stata praticamente messa in ginocchio dai tedeschi.
Don Terrilli e Padre Jannoni, il primo sodomizzato ed il secondo fucilato, brillano ora come stelle nel Cielo e rivendicano anche da parte ecclesiale il ristabilimento della verità, quella tragica verità che li ha visti tra le pieghe della storia abbracciare la palma del martirio.
Sofia Loren nel magistrale film diretto da Vittorio De Sica La Ciociara , 1960, diretto da Vittorio De Sica. La sceneggiatura di De Sica e Cesare Zavattini è tratta dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia.