Il Maestro di color che sanno… Purgatorio XXXI

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Nicolò Barabino (1832-1891), Dante incontra Matelda (1876-1877), olio su tela, Galleria d’Arte Moderna, Genova

 

«O tu che se’ di là dal fiume sacro»[1],

volgendo suo parlare a me per punta[2],

che pur per taglio m’era paruto acro,

 

ricominciò, seguendo sanza cunta[3],

«dì, dì se questo è vero: a tanta accusa

tua confession conviene esser congiunta».

 

Era la mia virtù tanto confusa,

che la voce si mosse, e pria si spense

che da li organi suoi fosse dischiusa.

 

Poco sofferse; poi disse: «Che pense?

Rispondi a me; ché le memorie triste

in te non sono ancor da l’acqua offense».

 

Confusione e paura insieme miste

mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,

al quale intender fuor mestier le viste.

 

Come balestro frange, quando scocca

da troppa tesa la sua corda e l’arco,

e con men foga l’asta il segno tocca,

 

sì scoppia’ io sottesso grave carco,

fuori sgorgando lagrime e sospiri,

e la voce allentò per lo suo varco.

 

Ond’ella a me: «Per entro i mie’ disiri,

che ti menavano ad amar lo bene

di là dal qual non è a che s’aspiri,

 

quai fossi attraversati o quai catene

trovasti, per che del passare innanzi

dovessiti così spogliar la spene?

 

E quali agevolezze o quali avanzi[4]

ne la fronte de li altri si mostraro,

per che dovessi lor passeggiare anzi?».

 

Dopo la tratta[5] d’un sospiro amaro,

a pena ebbi la voce che rispuose,

e le labbra a fatica la formaro.

 

Piangendo dissi: «Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi,

tosto che ’l vostro viso si nascose».

 

Ed ella: «Se tacessi o se negassi

ciò che confessi, non fora men nota

la colpa tua: da tal giudice sassi!

 

Ma quando scoppia de la propria gota

l’accusa del peccato, in nostra corte

rivolge sé contra ’l taglio la rota.

 

Tuttavia, perché mo[6] vergogna porte

del tuo errore, e perché altra volta,

udendo le serene, sie più forte,

 

pon giù il seme del piangere e ascolta:

sì udirai come in contraria parte

mover dovieti mia carne sepolta.

 

Mai non t’appresentò natura o arte

piacer, quanto le belle membra in ch’io

rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;

 

e se ’l sommo piacer sì ti fallio

per la mia morte, qual cosa mortale

dovea poi trarre te nel suo disio?

 

Ben ti dovevi, per lo primo strale

de le cose fallaci, levar suso

di retro a me che non era più tale.

 

Non ti dovea gravar le penne in giuso,

ad aspettar più colpo, o pargoletta

o altra vanità con sì breve uso.

 

Novo augelletto due o tre aspetta;

ma dinanzi da li occhi d’i pennuti

rete si spiega indarno o si saetta».

 

Quali fanciulli, vergognando, muti

con li occhi a terra stannosi, ascoltando

e sé riconoscendo[7] e ripentuti,

 

tal mi stav’io; ed ella disse: «Quando

per udir se’ dolente, alza la barba[8],

e prenderai più doglia riguardando».

 

Con men di resistenza si dibarba[9]

robusto cerro, o vero al nostral vento

o vero a quel de la terra di Iarba,

 

ch’io non levai al suo comando il mento;

e quando per la barba il viso chiese,

ben conobbi il velen de l’argomento.

 

E come la mia faccia si distese,

posarsi[10] quelle prime creature[11]

da loro aspersion l’occhio comprese;

 

e le mie luci, ancor poco sicure,

vider Beatrice volta in su la fiera

ch’è sola una persona in due nature.

 

Sotto ’l suo velo e oltre la rivera

vincer pariemi più sé stessa antica,

vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.

 

Di penter sì mi punse ivi[12] l’ortica

che di tutte altre cose qual mi torse

più nel suo amor, più mi si fé nemica.

 

Tanta riconoscenza[13] il cor mi morse,

ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,

salsi colei che la cagion mi porse.

 

Poi, quando il cor virtù[14] di fuor rendemmi,

la donna ch’io avea trovata sola

sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».

 

Tratto m’avea nel fiume infin la gola,

e tirandosi me dietro sen giva

sovresso l’acqua lieve come scola[15].

 

Quando fui presso a la beata riva,

‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,

che nol so rimembrar, non ch’io[16] lo scriva.

 

La bella donna ne le braccia aprissi;

abbracciommi la testa e mi sommerse

ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.

 

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse

dentro a la danza de le quattro belle;

e ciascuna del braccio mi coperse.

 

«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle:

pria che Beatrice discendesse al mondo,

fummo ordinate a lei per sue ancelle.

 

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo

lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi

le tre di là, che miran più profondo».

 

Così cantando cominciaro; e poi

al petto del grifon seco menarmi,

ove Beatrice stava volta a noi.

 

Disser: «Fa che le viste non risparmi;

posto t’avem dinanzi a li smeraldi

ond’Amor già ti trasse le sue armi».

 

Mille disiri più che fiamma caldi

strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,

che pur sopra ’l grifone stavan saldi.

 

Come in lo specchio il sol, non altrimenti

la doppia fiera dentro vi raggiava,

or con altri, or con altri reggimenti.

 

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,

quando vedea la cosa in sé star queta,

e ne l’idolo[17] suo si trasmutava.

 

Mentre che piena di stupore e lieta

l’anima mia gustava di quel cibo

che, saziando di sé, di sé asseta,

 

sé dimostrando di più alto tribo[18]

ne li atti, l’altre tre si fero avanti,

danzando al loro angelico caribo[19].

 

«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,

era la sua canzone, «al tuo fedele

che, per vederti, ha mossi passi tanti!

 

Per grazia fa noi grazia che disvele

a lui la bocca tua, sì che discerna

la seconda bellezza che tu cele».

 

O isplendor di viva luce etterna,

chi palido si fece sotto l’ombra

sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna[20],

 

che non paresse aver la mente ingombra,

tentando a render te qual tu paresti

là dove armonizzando il ciel t’adombra[21],

 

quando ne l’aere aperto ti solvesti

 

[1] Uno dei rari casi in cui un canto si apre – come si suol dire – ex abrupto, cioè senza alcun verso introduttivo, ma immediatamente con le parole pronunciate da un personaggio (in questo caso Beatrice), che si rivolge in modo appunto diretto ed immediato ad un altro (nella fattispecie Dante).

[2] Le parole di rimprovero che Beatrice rivolge (e già prima aveva rivolte) a Dante vengono metaforizzate nell’immagine della spada, che colpisce di punta (cioè direttamente) e di taglio (vale a dire indirettamente).

[3] Vale «indugio»: forma deverbale dotta dal verbo latino cunctor, -ari («indugiare»); secondo alcuni commentatori di probabile conio dantesco.

[4] Termine del lessico mercantile, col valore di «profitti, guadagni».

[5] Deverbale da «trarre», col valore di «emissione».

[6] La forma «mo» (ora) è preferibile, anche grazie alla tradizione ms., a quella «me’» (meglio), presente tuttavia in parecchie edizioni.

[7] La forma «riconoscersi» ha una sorta di valore “tecnico” per indicare il «riconoscere le proprie colpe».

[8] Uso metonimico settentrionale di «barba» per «mento» e poi «viso». Alcuni commentatori postulano un calco, già presente nel latino tardo, dal greco post-classico ghéneion/γένειον, che significa sia «mento» che «barba».

[9] «Dibarbarsi» è forma arcaica per «sradicarsi», derivando da «barba» col valore di «radice».

[10] Costruzione latineggiante di accusativo e infinito («prime creature… posarsi») dipendente da un verbo di percezione («comprese»).

[11] Sono gli angeli, detti «prime» creature, sia perché creati prima di tutte le altre sia per la loro superiorità su di esse.

[12] Dato il contesto, non vale «in quel luogo» quanto «allora».

[13] Questo termine, presente nella Commedia solamente in questo passo, significa (come già il «riconoscersi» visto supra) «consapevolezza, coscienza», ovviamente delle proprie colpe.

[14] Col valore di «forza vitale, attività».

[15] Da scaula, termine di origine bizantina e particolarmente usato in area veneto-romagnola, significa «barca leggera e piatta, gondola».

[16] Equivale al latino nedum più congiuntivo (nedum scribam), col valore di «figurarsi scriverlo».

[17] Conserva il suo valore etimologico, usato spesso nel linguaggio filosofico, di «immagine, figura», dal greco èidolon/ειδολον.

[18] Esito consueto dal latino tribus («tribù»), col valore di «classe, ordine, gruppo», mentre l’odierno tribù è esito dotto, più vicino all’originale latino.

[19] Termine assai discusso. Sulla scorta del diminutivo «caribetto», presente in alcuni testi coevi, il significato più probabile è quello di un «ritmo di danza senza parole», il cui etimo potrebbe essere (ma non è certo) il nome di uno strumento musicale del tempo oppure il provenzale garip, di origine araba, col valore di «musica di zampogna» o ancora il catalano esgarip, «fischio di uccelli notturni» (cfr. piem. ësgarì, «verso di animale», specie di uccello) e poi per metonimia «musica senza parole».

[20] Per metonimia indica la fonte, e più precisamente quella della poesia, cioè Castalia, sgorgante sul Parnaso, il monte di Apollo; oppure le due fonti, Aganippe ed Ippocrene, presenti sul monte delle Muse (Elicona).

[21] Nel senso di «raffigurare, rappresentare», dal vocabolo «ombra» col valore di «figura, immagine». Tale significato è vivo ancora nella lingua d’oggi, in casi come «il significato qui adombrato» et similia.

 

 

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