Il Maestro di color che sanno… Paradiso V

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John Flaxman (6 luglio 1755 – 7 dicembre 1826), Dante e Beatrice, illustrazione ad inchiostro, 1807, libro Composizioni dall’inferno, purgatorio e paradiso, Londra.

 

«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore

di là dal modo che ’n terra si vede,

sì che del viso[1] tuo vinco il valore,

 

non ti maravigliar; ché ciò procede

da perfetto veder, che, come apprende,

così nel bene appreso move il piede.

 

Io veggio ben sì come già resplende

ne l’intelletto tuo l’etterna luce,

che, vista, sola e sempre amore accende;

 

e s’altra cosa vostro amor seduce,

non è se non di quella alcun vestigio,

mal conosciuto, che quivi traluce.

 

Tu vuo’ saper se con altro servigio,

per manco voto, si può render tanto

che l’anima sicuri di letigio[2]».

 

Sì cominciò Beatrice questo canto;

e sì com’uom che suo parlar non spezza,

continuò così ’l processo santo:

 

«Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse[3] creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

 

fu de la volontà la libertate;

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole, fuoro e son dotate.

 

Or ti parrà, se tu quinci argomenti,

l’alto valor del voto, s’è sì fatto

che Dio consenta quando tu consenti;

 

ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto,

vittima fassi di questo tesoro,

tal quale io dico; e fassi col suo atto.

 

Dunque che render puossi per ristoro[4]?

Se credi bene usar quel ch’ài offerto,

di maltolletto[5] vuo’ far buon lavoro.

 

Tu se’ omai del maggior punto certo;

ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,

che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,

 

convienti ancor sedere un poco a mensa[6],

però che ’l cibo rigido ch’ài preso,

richiede ancora aiuto a tua dispensa.

 

Apri la mente a quel ch’io ti paleso

e fermalvi entro; ché non fa scienza,

sanza lo ritenere, avere inteso.

 

Due cose si convegnono[7] a l’essenza

di questo sacrificio: l’una è quella

di che si fa; l’altr’è la convenenza.

 

Quest’ultima già mai non si cancella

se non servata; e intorno di lei

sì preciso di sopra si favella:

 

però necessitato fu a li Ebrei

pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta

sì permutasse, come saver dei.

 

L’altra, che per materia t’è aperta,

puote ben esser tal, che non si falla

se con altra materia si converta.

 

Ma non trasmuti carco a la sua spalla

per suo arbitrio alcun, sanza la volta

e de la chiave bianca e de la gialla;

 

e ogne permutanza credi stolta,

se la cosa dimessa[8] in la sorpresa

come ’l quattro nel sei non è raccolta.

 

Però qualunque cosa tanto pesa

per suo valor che tragga ogne bilancia,

sodisfar non si può con altra spesa.

 

Non prendan li mortali il voto a ciancia;

siate fedeli, e a ciò far non bieci,

come Ieptè a la sua prima mancia[9];

 

cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,

che, servando, far peggio; e così stolto

ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,

 

onde pianse Efigènia il suo bel volto,

e fé pianger di sé i folli e i savi

ch’udir parlar di così fatto cólto[10].

 

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:

non siate come penna ad ogne vento,

e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

 

Avete il novo e ’l vecchio Testamento,

e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;

questo vi basti a vostro salvamento.

 

Se mala cupidigia altro vi grida,

uomini siate, e non pecore matte[11],

sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!

 

Non fate com’agnel che lascia il latte

de la sua madre, e semplice e lascivo[12]

seco medesmo a suo piacer combatte!».

 

Così Beatrice a me com’io scrivo;

poi si rivolse tutta disiante

a quella parte ove ’l mondo è più vivo.

 

Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante

puoser silenzio al mio cupido ingegno,

che già nuove questioni avea davante;

 

e sì come saetta che nel segno

percuote pria che sia la corda queta,

così corremmo nel secondo regno.

 

Quivi la donna mia vid’io sì lieta,

come nel lume di quel ciel si mise,

che più lucente se ne fé ’l pianeta.

 

E se la stella si cambiò e rise,

qual mi fec’io che pur da mia natura

trasmutabile son per tutte guise!

 

Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura

traggonsi i pesci a ciò che vien di fori

per modo che[13] lo stimin lor pastura,

 

sì vid’io ben più di mille splendori

trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udìa:

«Ecco chi crescerà li nostri amori».

 

E sì come ciascuno a noi venìa,

vedeasi l’ombra piena di letizia

nel folgór chiaro che di lei uscia.

 

Pensa, lettor,[14] se quel che qui s’inizia

non procedesse, come tu avresti

di più savere angosciosa carizia[15];

 

e per te vederai come da questi

m’era in disio d’udir lor condizioni,

sì come a li occhi mi fur manifesti.

 

«O bene nato a cui veder li troni

del triunfo etternal concede grazia

prima che la milizia[16] s’abbandoni,

 

del lume che per tutto il ciel si spazia

noi semo accesi; e però, se disii

di noi[17] chiarirti, a tuo piacer ti sazia».

 

Così da un di quelli spirti pii

detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì[18]

sicuramente, e credi come a dii».

 

«Io veggio ben sì come tu t’annidi

nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,

perch’e’ corusca sì come tu ridi;

 

ma non so chi tu se’, né perché aggi,

anima degna, il grado de la spera

che si vela a’ mortai con altrui raggi».

 

Questo diss’io diritto alla lumera

che pria m’avea parlato; ond’ella fessi

lucente più assai di quel ch’ell’era.

 

Sì come il sol che si cela elli stessi

per troppa luce, come ’l caldo ha róse

le temperanze d’i vapori spessi,

 

per più letizia sì mi si nascose

dentro al suo raggio la figura santa;

e così chiusa chiusa[19] mi rispuose

 

nel modo che ’l seguente canto canta[20].

 

 

[1] Come normalmente in Dante, vale «occhi, sguardo», dal latino visus.

[2] Da intendersi, con valore giuridico, nel senso di «controversia, lite giudiziaria», considerando appunto Dio come somma giustizia.

[3] Forma contratta per «facesse».

[4] Nel senso di «compenso, compensazione».

[5] Dal latino medievale maletollettum, significa «provento da un furto o da una rapina»; nell’italiano moderno è «maltolto».

[6] Il poeta si serve ancora una volta della metafora del mangiare e del bere per indicare il desiderio di sapere, ed il suo soddisfacimento. Tale metafora prosegue, nei versi successivi, con l’immagine del cibo rigido, cioè «duro, difficile da digerire», per indicare una teoria particolarmente complessa, e con il termine dispensa, che vale qui «digestione».

[7] Dante usa qui la forma convegnono per convengono, con l’alternanza, consueta, dei nessi ng/gn.

[8] Dal latino demissa (part. pass. del verbo demittere), significa «lasciata, abbandonata», intendendo cioè la materia del voto non compiuto. Così come il successivo sorpresa vale «scambiata».

[9] Due le possibili interpretazioni del termine mancia. O lo si intende col valore di «dono, offerta» (e quindi la prima offerta fatta dal biblico giudice Iefte a Dio; cfr. Iud. xi, 39-40) oppure come gallicismo (< ant. fr. manche, nel significato di «scontro, incontro» (e quindi come riferimento al fatto che Iefte promise in sacrificio  la prima cosa che gli fosse venuta incontro uscendo di casa).

[10] Esito popolare fiorentino dal latino cultus (part. pass. da colere), mentre il più usato, anche oggi, culto è esito dotto.

[11] È possibile che Dante qui usi il termine matte, col valore “tecnico” del linguaggio della pastorizia, con riferimento ad un disturbo nervoso delle pecore, la cenurosi, che comporta strani movimenti della testa e degli arti degli animali e dai pastori chiamato «capostorno».

[12] Latinismo (da lascivus), col significato di «irrequieto».

[13] Dal latino dummodo, col valore di «»purché.

[14] Il rivolgersi direttamente al lettore è uno degli artifici retorici più comuni quando il poeta voglia innalzare il tono della sua opera o indicare l’inizio di una sezione particolarmente importante del testo.

[15] Dal verbo latino carére (mancare, di qualcosa però di cui non si sente la necessità; mentre egére è il mancare di qualcosa di cui si ha bisogno), da cui l’it. carenza, è termine dotto per indicare sia la mancanza, che – come qui – la miseria, intesa però in senso spirituale.

[16] Metafora comune, quella della vita militare, per indicare la vita del cristiano nel mondo. In questo caso abbiamo anche l’opposizione con triunfo del verso precedente a significare (probabilmente) la contrapposizione tra chiesa «militante» e chiesa «trionfante».

[17] Complemento di argomento, come il latino de nobis.

[18] Esempio di rima scomposta, per cui i due monosillabi finali del verso vanno letti come un’unica parola (didi), in rima con annidi e ridi. Ricordiamo inoltre che è vietato nella metrica italiana terminare un verso con un monosillabo, a meno che esso (come in questo caso) si legga unito alla parola precedente.

[19] Come ancora oggi in vari dialetti italiani (cfr., per es., il piem. brav brav, «bravissimo», e non bravìssim, che è un italianismo), la ripetizione dell’aggettivo vale come superlativo.

[20] Notiamo la figura retorica della paronomasia: canto/canta.

 

 

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