Il Maestro di color che sanno… Paradiso II

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William Cave Thomas (1820-1896), Dante in Paradiso, acquarello

 

O voi che siete in piccioletta barca[1],

desiderosi d’ascoltar, seguiti[2]

dietro al mio legno che cantando varca[3],

 

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago[4], ché forse,

perdendo[5] me, rimarreste smarriti.

 

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;

Minerva spira, e conducemi Appollo,

e nove[6] Muse mi dimostran l’Orse.

 

Voialtri pochi che drizzaste il collo

per tempo al pan de li angeli, del quale

vivesi qui ma non sen vien satollo,

 

metter potete ben per l’alto sale[7]

vostro navigio[8], servando mio solco

dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

 

Que’ gloriosi[9] che passaro al Colco

non s’ammiraron come voi farete,

quando Iasón vider fatto bifolco.

 

La concreata[10] e perpetua sete

del deiforme regno cen portava

veloci quasi come ’l ciel vedete.

 

Beatrice in suso, e io in lei guardava;

e forse in tanto in quanto un quadrel posa

e vola e da la noce si dischiava[11],

 

giunto mi vidi ove mirabil cosa

mi torse il viso a sé; e però quella

cui non potea mia cura essere ascosa,

 

volta ver’ me, sì lieta come bella,

«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,

«che n’ha congiunti con la prima stella».

 

Parev’a me che nube ne coprisse

lucida, spessa, solida e pulita,

quasi adamante[12] che lo sol ferisse.

 

Per entro sé l’etterna margarita[13]

ne ricevette, com’acqua recepe

raggio di luce permanendo unita.

 

S’io era corpo, e qui non si concepe

com’una dimensione[14] altra patio,

ch’esser convien se corpo in corpo repe,

 

accender ne dovrìa più il disio

di veder quella essenza in che si vede

come nostra natura e Dio s’unio.

 

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,

non dimostrato, ma fia per sé noto

a guisa del ver primo[15] che l’uom crede.

 

Io rispuosi: «Madonna[16], sì devoto

com’esser posso più, ringrazio lui

lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.

 

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?».

 

Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra

l’oppinion», mi disse, «d’i mortali

dove chiave di senso non diserra,

 

certo non ti dovrien punger li strali

d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi

vedi che la ragione ha corte l’ali.

 

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».

E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso

credo che fanno i corpi rari e densi».

 

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso

nel falso il creder tuo, se bene ascolti

l’argomentar ch’io li farò avverso.

 

La spera ottava vi dimostra molti

lumi, li quali e nel quale e nel quanto

notar si posson di diversi volti.

 

Se raro e denso ciò facesser tanto,

una sola virtù sarebbe in tutti,

più e men distributa e altrettanto.

 

Virtù diverse esser convegnon frutti

di princìpi formali, e quei, for ch’uno,

seguiterìeno a tua ragion distrutti.

 

Ancor, se raro fosse di quel bruno

cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte

fora di sua materia sì digiuno

 

esto pianeto[17], o, sì come comparte

lo grasso e ’l magro un corpo, così questo

nel suo volume cangerebbe carte.

 

Se ’l primo fosse, fora manifesto

ne l’eclissi del sol per trasparere

lo lume come in altro raro ingesto[18].

 

Questo non è: però è da vedere

de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi[19],

falsificato[20] fia lo tuo parere.

 

S’elli è che questo raro non trapassi,

esser conviene un termine da onde

lo suo contrario più passar non lassi;

 

e indi l’altrui raggio si rifonde

così come color torna per vetro

lo qual di retro a sé piombo nasconde[21].

 

Or dirai tu ch’el si dimostra tetro

ivi lo raggio più che in altre parti,

per esser lì refratto più a retro.

 

Da questa instanza[22] può deliberarti

esperienza, se già mai la provi,

ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti.

 

Tre specchi prenderai; e i due rimovi

da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,

tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

 

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso

ti stea un lume che i tre specchi accenda

e torni a te da tutti ripercosso.

 

Ben che nel quanto tanto non si stenda

la vista più lontana, lì vedrai

come convien ch’igualmente risplenda.

 

Or, come ai colpi de li caldi rai

de la neve riman nudo il suggetto

e dal colore e dal freddo primai,

 

così rimaso te ne l’intelletto

voglio informar di luce sì vivace,

che ti tremolerà nel suo aspetto.

 

Dentro dal ciel de la divina pace

si gira un corpo ne la cui virtute

l’esser di tutto suo contento giace.

 

Lo ciel seguente, ch’à tante vedute,

quell’esser parte per diverse essenze,

da lui distratte e da lui contenute.

 

Li altri giron per varie differenze

le distinzion che dentro da sé hanno

dispongono a lor fini e lor semenze.

 

Questi organi del mondo così vanno,

come tu vedi omai, di grado in grado,

che di sù prendono e di sotto fanno.

 

Riguarda bene omai sì com’io vado

per questo loco al vero che disiri,

sì che poi sappi sol tener lo guado[23].

 

Lo moto e la virtù d’i santi giri,

come dal fabbro l’arte del martello,

da’ beati motor convien che spiri;

 

e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,

de la mente profonda che lui volve

prende l’image e fassene suggello.

 

E come l’alma dentro a vostra polve

per differenti membra e conformate

a diverse potenze si risolve,

 

così l’intelligenza sua bontate

multiplicata per le stelle spiega,

girando sé sovra sua unitate.

 

Virtù diversa fa diversa lega

col prezioso corpo ch’ella avviva,

nel qual, sì come vita in voi, si lega.

 

Per la natura lieta onde deriva,

la virtù mista per lo corpo luce

come letizia per pupilla viva.

 

Da essa vien ciò che da luce a luce

par differente, non da denso e raro;

essa è formal principio che produce,

 

conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».

 

 

[1] I versi 1-18 di questo canto costituiscono il “proemio”, rivolto ai lettori, mentre i vv. 1-36 del canto i sono la protasi di tutta la cantica. L’immagine metaforica della barca per indicare la poesia, resa poi con la metonimia del «legno» (v. 3), replica quella stessa già presente nella protasi del Purgatorio.

[2] Ha il valore attivo del participio passato deponente latino secuti (avendo seguito) e non quello, passivo, del participio passato italiano (che sono stati seguiti).

[3] L’idea espressa dal verbo «varcare» è quella di «passare da un mare chiuso all’oceano aperto».

[4] Latinismo (< pelagus) che in Dante vale sempre «mare profondo».

[5] Costruzione che ricalca un ablativo assoluto latino, con valore ipotetico dell’eventualità (se perdeste me).

[6] L’interpretazione più ovvia (le nove Muse, tutte insieme) può però essere contrapposta a quella che vuole «nove» per «nuove», cioè Muse cristiane in opposizione a quelle del mito classico. Tale interpretazione appare però poco probabile per la presenza, negli stessi versi, delle figure di Minerva ed Apollo.

[7] Metonimia per indicare il mare. Tale termine, tuttavia, rimanda al nome classico del mare: hals, in greco, e sal, in latino.

[8] Latinismo dotto che, indicando (in contrapposizione a «piccioletta barca») una imbarcazione solida e di grandi dimensioni, ben si adatta alla solennità del passo ed alla metafora che distingue i lettori meno provveduti da quelli più dotti e capaci di intendere meglio le parole del poeta.

[9] Si parla degli Argonauti, cioè quegli eroi greci che seguirono Giasone nella Colchide (mar Nero) per compiere l’impresa del vello d’oro.

[10] È il desiderio (sete) di conoscenza, creato insieme all’anima intellettiva, e quindi innato nell’uomo.

[11] Tutto il passo rimanda, con una similitudine implicitamente accennata, al linguaggio relativo alla tecnica dello scagliare frecce con la balestra: i due verbi (posa e vola) indicano i movimenti della freccia (quadrel) che, con la figura retorica dell’hysteron-proteron, raggiunge il bersaglio (posa) e compie il suo corso (vola); il termine «noce» poi indica quella parte della balestra in cui si poggia la corda quando viene tesa, spiegando così l’altro verbo (dischiava, < clavis, «chiodo», ma nella balestra la «chiave» era una sorta di grilletto con cui si abbassava la noce, facendo così partire la freccia), che significa «sganciarsi, staccarsi» o, con più precisione, «far scoccare la freccia».

[12] Forma consueta all’epoca per indicare il diamante (< lat. adamas); ancora oggi usiamo l’aggettivo adamantino, da essa derivato.

[13] Significa «gemma, perla»: latinismo (a sua volta grecismo) di tradizione neo-testamentaria (mittere margaritas ante porcos; Mt 7, 6). Allo stesso modo sono latinismi dotti anche «recepe» (< recipit), «concepe» e «repe» (< repit, cioè «striscia, si insinua») dei versi successivi.

[14] Usato metonimicamente per «corpo».

[15] Con l’espressione «ver primo» (prima verità) Dante intende ciò che i filosofi definiscono assioma (< greco axìoma), cioè una verità talmente evidente di per sé che non necessita di spiegazione.

[16] Non nel senso religioso, ma col valore etimologico di «mia signora» (< lat. mea domina).

[17] Termine generico con cui all’epoca si indicavano, senza altra distinzione, tutti i corpi celesti (pianeti, satelliti, stelle…). L’etimo è il latino planeta/planetes, dal verbo greco planáomai (vado errando, mi muovo).

[18] Altro latinismo dotto (< ingestum, dal verbo ingerere, «inserire, infilare») per intendere «introdotto»; unica occorrenza in Dante.

[19] Dal verbo «cassare» (cioè eliminare, togliere), da cui deriva anche il titolo di Corte di Cassazione, quel tribunale cioè in cui le precedenti sentenze possono venir eliminate, cancellate.

[20] Il verbo «falsificare» è usato qui col valore di «dimostrare falso», e non con quello, oggi comune, di «rendere falso, produrre come falso».

[21] Tutto il verso è una perifrasi per indicare lo specchio, cioè un vetro ricoperto nella sua parte posteriore da una lamina di piombo.

[22] Latinismo dotto, e “tecnico” del linguaggio filosofico-scolastico, per intendere una obiezione ad una proposizione.

[23] Questo termine è sempre da Dante usato con valore figurato per intendere «cammino da seguire»: pertanto «tener lo guado» significa semplicemente «procedere oltre».

 

 

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