Il Diavolo, particolare del Giudizio universale (1306), affresco di Giotto di Bondone (1267-1337), parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova
«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse ’l maestro mio «se tu ’l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio[1] allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio; ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi».
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori’ e non rimasi vivo:
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscìa fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno[2],
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui proceder ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello[3]
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla[4],
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla[5].
«Quell’anima là sù ch’à maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scariotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due ch’ànno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia[6],
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche[7].
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso,
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata[8] di palagio
là ’v’eravam, ma natural burella[9]
ch’avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto,
«a trarmi d’erro un poco mi favella:
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca:
tu hai i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
[1] Oltre all’aferesi (“dificio” per “edificio”), notiamo che il termine (< lat. aedificium) vale inizialmente “macchina, ordigno”, in genere da guerra, e solo più tardi “costruzione, casa”.
[2] Col valore di “sono in proporzione”.
[3] Forma arcaica (per l’odierno “pipistrello”) dal latino vespetilio (< vesper, “sera”), essendo il pipistrello animale notturno.
[4] Sostantivo (da cui poi il verbo “maciullare”) che definisce uno strumento (la gramola) che serviva a triturare gli steli della canapa per separare le fibre tessili dalla parte legnosa.
[5] Il termine “brullo”, usato in genere (ancora oggi) per indicare una campagna o un territorio privo di vegetazione, significa letteralmente “spoglio, privo, nudo” ed è qui usato, per estensione, riferito alla carne della schiena, priva di pelle.
[6] Usato, come normalmente in Dante e nell’italiano antico, col valore di “difficoltà di respiro, affanno” (< lat. angustia, lett. “strettezza”, da cui anche la formula “essere in angustie” = “essere in strettezze, difficoltà”).
[7] Avverbio qui usato nel senso di “nuovamente” ed in rima equivoca con “anche” (articolazioni della coscia col bacino).
[8] Non certo nel senso moderno di “atto del camminare”, ma col valore di “stanza spaziosa e luminosa”, in genere fornita di camino (rectius: “caminata”).
[9] Termine fiorentino (< lat. volgare *burrius, “buio”) per indicare “piccola stanza sotterranea” (l’anfernòt piemontese), più elevata tuttavia (seppur di poco) rispetto alla cantina (piem. cròta < lat. tardo krypta, da cui anche l’it. “cripta”).
Miniatura del XXXIV Canto dell’Inferno, opera di Priamo della Quercia (1400-1467)