Jan Van der Straet, detto Giovanni Stradano, (1523-1605), Il Pozzo dei Giganti (1587)
Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od’io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia[1].
demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto[2] corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta[3],
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi[4] in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’io: «Maestro, di’, che terra è questa?».
Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare[5] abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».
Poi caramente mi prese per mano,
e disse: «Pria che noi siamo più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti».
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
però che come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali[6], assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.
E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta[7] la ne tene;
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa[8];
sì che la ripa, ch’era perizoma[9]
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.
«Raphél maì amèche zabì almi»[10],
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi[11].
E ’l duca mio ver lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passion ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga[12]».
Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto[13]
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo[14] è noto».
Facemmo adunque più lungo viaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro,
trovammo l’altro assai più fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro[15] e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgea infino al giro quinto.
«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove»,
disse ’l mio duca, «ond’elli ha cotal merto.
Fialte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move».
E io a lui: «S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Briareo
esperienza avesser li occhi miei».
Ond’ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto,
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fialte a scuotersi fu presto.
Allor temett’io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta[16],
s’io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra;
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china, e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda[17]
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, ched[18] ella incontro penda;
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò[19];
né sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò[20].
[1] Non nel senso moderno di “ciò che è dato, dono”: si tratta infatti di un gallicismo tecnico dell’ambito cortese, col significato di “assalto, gara, prova d’armi” premiato dalla dama col dono di una manica (manche).
[2] Per la figura retorica della ipallage, l’aggettivo “alto” viene riferito a “corno”, mentre in realtà si riferisce a “suono”, ricavabile dal verbo “sonare”.
[3] Col valore arcaico di “famiglia, schiatta”, presente nel francese geste oltre a quello di “gesta, imprese”.
[4] In realtà vale “avevo portato”, ma il poeta preferisce usare il passato remoto perché prevale il cosiddetto “valore aspettuale” del verbo, cioè l’idea di azione conclusa, piuttosto che il vero e proprio valore temporale.
[5] Forma con aferesi (cioè caduta della sillaba iniziale i-) per “imaginare”, nel senso tuttavia di “crearsi un’immagine” e quindi “percepire, discernere”.
[6] Ovviamente col valore di “esseri animati”, < lat. animalia, cioè “esseri forniti di respiro” (anima).
[7] Col valore etimologico (dal verbo latino discernere; part. pass. discretum) di “chi sa distinguere” e quindi “saggio, assennato”.
[8] Vale, per metonimia (qui: parte per il tutto), “membra”.
[9] L’uso di un grecismo, cosa peraltro assai rara nel Medioevo, è giustificato, come fonte, dalla conoscenza delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560-636).
[10] Parole prive di significato, ma riconducibili – pur deformate – a nomi propri ebraici (Raphael, Amalech, Zabulon (o forse zabud, “tizzone”; cfr. San Gerolamo De nominibus hebraicis, in PL 23, 823).
[11] Uso metonimico del termine “salmi” per “parole, discorsi”.
[12] Dal verbo “dogare”, denominale da “doga” (striscia di legno della botte), che vale “listare, cerchiare”. Tale verbo ha un uso prevalentemente araldico, indicando uno stemma gentilizio armato di strisce.
[13] Deverbale da “coitare” (< lat. cogitare): significa dunque “pensiero”.
[14] Latinismo da nullus (nessuno).
[15] In realtà il “secondo”, conformemente all’uso latino, non infrequente in Dante, di alter (l’altro tra due e quindi secondo).
[16] Forma derivata dal francesismo “dottanza” (< doutance, prov. doptansa), dal verbo “dottare”, cioè “temere”.
[17] Forma di tipo toscano di contro a quella settentrionale Garisenda, con lenizione dell’occlusiva sorda (c) in quella sonora (g); cfr. anche altre forme, con influsso dialettale, quali “gabina”, “Glaudio” ecc.
[18] Forma con -d eufonica dinanzi a vocale, come il più comune “ed” per “e”.
[19] Forma con s- prostetica (cfr. lat. ex-ponere, con valore di distacco, separazione) per “posare”.
[20] Raro esempio di rima tronca e di endecasillabi tronchi (cioè con ultima parola accentata sull’ultima sillaba). Per la regola metrica generale per cui dopo l’ultimo accento si conta sempre e solo un’unica sillaba tali endecasillabi sono costituiti da sole 10 sillabe.