Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XXX

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Dante e Virgilio all’Inferno (1850) di William-Adolphe Bouguereau (1825-1905)

 

Nel tempo che Iunone era crucciata

per Semelè contra ’l sangue tebano,

come mostrò una e altra fiata,

 

Atamante divenne tanto insano,

che veggendo la moglie con due figli

andar carcata da ciascuna mano,

 

gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli

la leonessa e ’ leoncini al varco»;

e poi distese i dispietati artigli,

 

prendendo l’un ch’avea nome Learco,

e rotollo e percosselo ad un sasso[1];

e quella s’annegò con l’altro carco.

 

E quando la fortuna volse in basso

l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,

sì che ’nsieme col regno il re fu casso[2],

 

Ecuba trista, misera e cattiva[3],

poscia che vide Polissena morta[4],

e del suo Polidoro in su la riva

 

del mar si fu la dolorosa[5] accorta,

forsennata latrò sì come cane;

tanto il dolor le fé la mente torta.

 

Ma né di Tebe furie né troiane

si vider mai in alcun tanto crude,

non punger bestie, nonché membra umane,

 

quant’io vidi in due ombre smorte e nude[6],

che mordendo correvan di quel modo

che ’l porco quando del porcil si schiude.

 

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo

del collo[7] l’assannò[8], sì che, tirando,

grattar li fece il ventre al fondo sodo.

 

E l’Aretin che rimase, tremando

mi disse: «Quel folletto[9] è Gianni Schicchi,

e va rabbioso[10] altrui così conciando».

 

«Oh!», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi

li denti a dosso, non ti sia fatica

a dir chi è, pria che di qui si spicchi».

 

Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica[11]

di Mirra scellerata, che divenne

al padre fuor del dritto amore amica[12].

 

Questa a peccar con esso così venne,

falsificando sé in altrui forma,

come l’altro che là sen va, sostenne[13],

 

per guadagnar la donna[14] de la torma,

falsificare in sé Buoso Donati,

testando e dando al testamento[15] norma».

 

E poi che i due rabbiosi fuor passati

sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,

rivolsilo a guardar li altri mal nati.

 

Io vidi un, fatto a guisa di leuto,

pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia

tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.

 

La grave idropesì, che sì dispaia[16]

le membra con l’omor che mal converte,

che ’l viso non risponde a la ventraia,

 

facea lui tener le labbra aperte

come l’etico fa, che per la sete

l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.

 

«O voi che sanz’alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo»,

diss’elli a noi, «guardate e attendete

 

a la miseria del maestro Adamo:

io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,

e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

 

Li ruscelletti che d’i[17] verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno,

faccendo i lor canali freddi e molli[18],

 

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

ché l’imagine lor vie più m’asciuga

che ’l male ond’io nel volto mi discarno.

 

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov’io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga.

 

Ivi è Romena, là dov’io falsai

la lega suggellata[19] del Batista;

per ch’io il corpo sù arso lasciai.

 

Ma s’io vedessi qui l’anima trista

di Guido o d’Alessandro o di lor frate,

per Fonte Branda non darei la vista.

 

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate

ombre che vanno intorno dicon vero;

ma che mi val, ch’ò le membra legate?

 

S’io fossi pur di tanto ancor leggero

ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,

io sarei messo già per lo sentiero,

 

cercando lui tra questa gente sconcia,

con tutto ch’ella volge undici miglia,

e men d’un mezzo di traverso non ci ha[20].

 

Io son per lor tra sì fatta famiglia:

e’ m’indussero a batter[21] li fiorini

ch’avevan tre carati di mondiglia[22]».

 

E io a lui: «Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».

 

«Qui li trovai – e poi volta non dierno – »

rispuose, «quando piovvi in questo greppo[23],

e non credo che dieno in sempiterno.

 

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta[24] gittan tanto leppo».

 

E l’un di lor, che si recò a noia

forse d’esser nomato sì oscuro,

col pugno li percosse l’epa croia[25].

 

Quella sonò come fosse un tamburo;

e mastro Adamo li percosse il volto

col braccio suo, che non parve men duro,

 

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto

lo muover per le membra che son gravi,

ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

 

Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi

al fuoco, non l’avei tu così presto;

ma sì e più l’avei quando coniavi».

 

E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:

ma tu non fosti sì ver testimonio

là ’ve del ver fosti a Troia richesto»

 

«S’io dissi falso, e[26] tu falsasti il conio»,

disse Sinon; «e son qui per un fallo,

e tu per più ch’alcun altro demonio!».

 

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,

rispuose quel ch’avea infiata l’epa;

«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

 

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,

disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia

che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».

 

Allora il monetier: «Così si squarcia

la bocca tua per tuo mal[27] come suole;

ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,

 

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,

e per leccar lo specchio di Narcisso,

non vorresti a ’nvitar molte parole».

 

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,

quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,

che per poco che teco non mi risso!».

 

Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira,

volsimi verso lui con tal vergogna,

ch’ancor per la memoria mi si gira.

 

Qual è colui che suo dannaggio[28] sogna,

che sognando desidera sognare[29],

sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,

 

tal mi fec’io, non possendo parlare,

che disiava scusarmi, e scusava

me tuttavia, e nol mi credea fare.

 

«Maggior difetto men vergogna lava»,

disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;

però d’ogne trestizia ti disgrava.

 

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,

se più avvien che fortuna t’accoglia

dove sien genti in simigliante piato[30]:

 

ché voler ciò udire è bassa voglia».

 

[1] Qui nel senso, più comune, di “macigno”, mentre normalmente in Dante questo termine vale “grotta, monte”.

[2] Letteralmente “cancellato, distrutto” (dal verbo “cassare”, da cui anche la Corte di Cassazione), per “ucciso”.

[3] Ovviamente nel suo valore latino: captiva, cioè “prigioniera”. Normalmente però in Dante ha il valore di “misero, sciagurato”, mentre il nostro valore di “malvagio” deriva dalla dittologia tardo-latina captivus (diaboli), cioè “prigioniero del diavolo” e quindi “cattivo, malvagio”.

[4] Qui col valore transitivo di “uccisa”., uso frequente nell’italiano antico.

[5] Epiteto, consueto per definire la madre cui sia morto un figlio, usato in particolare per Maria (Mater dolorosa), cfr. lo Stabat Mater di fra’ Jacopone da Todi (1230ca-1306).

[6] Non tanto con valore letterale quanto nel senso di “inconsistenti, impalpabili”.

[7] “Nodo del collo” vale “nuca”; il termine “nodo” è usato in quanto la nuca è il punto di congiunzione tra vertebre e cervello.

[8] Da “sanna” (“zanna”) vale il più comune “azzannare”.

[9] Termine di origine francese e provenzale, lingue in cui significa “spirito maligno” e poi tout-court “demonio” (allo stesso modo, ancor oggi, in piemontese: spìrit folèt, “diavolo”).

[10] La pena dei falsatori di persona è la idrofobia, cioè la rabbia.

[11] Nei suoi due valori di “vecchia” e di “famosa, celebre”.

[12] Paranomasia (amore/amica) che sottolinea l’incestuosità dell’amore di Mirra per il padre.

[13] Latinismo col valore di “ebbe il coraggio, osò”.

[14] Si tratta di una cavalla (o di una mula), ma il termine “donna” è latinismo (< domina) per indicare “signora, regina”. Secondo alcuni commentatori sarebbe termine tecnico per indicare l’animale che guida una mandria.

[15] Verso fortemente allitterato con doppio omoteleuto (-ando/-ando) e omoarcto (test-/test-).

[16] Col valore di “differenzia, trasforma”.

[17] Elisione per “dei/dai”.

[18] La formula “freddi e molli” è di imitazione virgiliana (gelidi fontes… mollia prata; Egl. X, v. 42), se non che il “molli” dantesco ha il valore di “ricchi di acque”, di contro al senso virgiliano di “teneri, morbidi”.

[19] Ci si riferisce all’oro non puro ma in lega, cioè falsato, reso moneta col suggello (suggellata) dell’immagine di San Giovanni Battista, protettore di Firenze e presente su una faccia del fiorino fiorentino, insieme a quella, sull’altra, del giglio, da cui il nome “fiorino” (piccolo fiore).

[20] Esempio, abbastanza raro, di rima composta, cioè formata da più parole (“non ci ha”), che però vanno lette come un unico vocabolo (“nòncia”), per poter rimare con  “oncia” e “sconcia”.

[21] Termine tecnico (in uso metaforico ancora oggi: “battere moneta”) derivato dall’azione concreta del battere il punzone sul metallo per imprimere il conio sulla moneta.

[22] Francesimo (visibile dalla desinenza in -iglia < –ille) per indicare il materiale di scarto (letteralmente “ciò che avanza come scarto dopo aver mondato/pulito un oggetto”).

[23] “Greppo” (voce settentrionale) letteralmente significa “fianco di montagna” ripido e scosceso oppure “argine di fiume”. Secondo alcuni commentatori, invece, sarebbe un “vaso rotto”, usato in genere per porvi il cibo per le galline, per cui (metaforicamente) significherebbe “luogo vile, di poca importanza”.

[24] Non si tratta, come pensano alcuni commentatori, di una generica febbre “alta”, ma è una tipologia vera e propria di febbre, presente nel trattato medico di Bartolomeo Anglico (1200ca-1272) De proprietatibus rerum col nome di “febris putrida”., così che si spiega meglio anche il termine seguente “leppo”, cioè “puzza”, in specie di fuoco su cose unte (padelle o pentole) o di grasso bruciato.

[25] “Tesa, gonfia” dal provenzale croi, anche in senso metaforico (duro, difficile, misero).

[26] Nesso, pleonastico, con valore paraipotattico.

[27] Si noti il costrutto chiastico, cioè con gli aggettivi possessivi (tua… tuo) al centro della formula ed i sostantivi (bocca… mal) all’esterno.

[28] Come anche altri terminanti in -aggio (< –age), è un evidente francesismo, in questo caso da dommage.

[29] Si noti il poliptoto, cioè l’impiego dello stesso verbo (sognare) coniugato in tre tempi e modi differenti (sogna… sognando… sognare).

[30] Dal latino placitun (“sentenza”) ha valore giudiziario (“litigio”): di qui il verbo attuale “piatire”, cioè “avviare una lite in giudizio” e poi “chiedere con insistenza”.

 

 

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