Il lungo cammino del Medioevo del diritto. Incontro con lo storico del diritto all’Università di Torino

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Il 24 ottobre scorso presso la biblioteca Norberto Bobbio dell’Università di Torino, grazie all’organizzazione dei professori del Dipartimento di Giurisprudenza, Valerio Gigliotti e Mario Riberi, si è tenuto un incontro con il professore Giuseppe Mazzanti, storico del diritto medievale all’Università di Udine; un incontro divulgativo, volto a far conoscere la figura dello storico, in particolare quello del diritto medievale. Questa è una figura che, apparentemente, può rivestire un ruolo di secondo ordine per chi si approccia e si interessa agli studi giuridici, ma in un certo senso è, come l’aveva definita lo storico del diritto Paolo Grossi, la «coscienza del giurista», colui che rileva la complessità dell’universo giuridico, l’interprete della contemporaneità ed è insofferente alla visione solo statalista del diritto, volta al repentino e continuativo mutamento.

«Come fa una persona ad interessarsi alla storia ed in particolare alla storia del diritto medievale?» esordisce il professor Valerio Gigliotti.

Il professor Mazzanti, riferendosi alla sua esperienza, racconta che fin da giovanissimo si era appassionato alle materie umanistiche: l’ambiente della biblioteca, le librerie e gli scrittoi in legno, i tanti libri, i manoscritti e tanti altri oggetti che sapevano di antico attiravano e formavano questa dedizione allo studio della storia; si iscrisse a Storia medievale all’Università di Bologna. La sua carriera accademica doveva, dunque, essere letteraria, ma i «percorsi universitari sono tortuosi» e, così, il suo iter accademico ha poi avuto un taglio più giuridico, grazie all’incontro con i professori Andrea Padovani (giurista, assegnista e assistente ordinario all’Università La Sapienza di Roma) e Marco Cavina (professore di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Bologna).

«Lo storico del diritto dell’800/900 se è laureato in giurisprudenza è avvantaggiato, ma per lo storico del diritto medievale è già più difficile» spiega il professor Mazzanti, che prosegue narrando come, ad un convegno a Modena a cui aveva partecipato, i penalisti gli dicevano che fino a Napoleone ci sarebbero arrivati pure loro, ma più indietro non avrebbero saputo da che parte cominciare.

«La difficoltà risiede nel decifrare i manoscritti, perché conviene che il giurista diventi anche paleografo. Per leggere i manoscritti occorre per un verso saper leggere le grafie e poi saper sciogliere le abbreviazioni. La pergamena una volta costava molto e quindi per risparmiare bisognava scrivere abbreviato, addirittura raschiavano e riscrivevano i testi».

«Se una parola di 8 lettere si poteva scrivere in 3 lettere si risparmiava metà pergamena. Ad esempio “Iehsus” si abbreviava con IHS oppure “quibus” veniva scritto con soli due segni grafici: una “q” tagliata e una sorta di grande apostrofo».

«Naturalmente bisogna anche sapere il latino».

La pergamena, intorno al VII secolo era rara e costava molto, così si cercò di utilizzare le pergamene già scritte, cancellando lo scritto mediante la raschiatura. Da questi nuovi testi, detti anche palinsesti, attraverso delle tecniche particolari per rilevare la scrittura sottostante, si ritrovarono delle opere precedenti andate perdute. Il Cardinale teologo e filologo Angelo Mai (1782-1854), ad esempio, è noto per aver ritrovato dei frammenti perduti del De Re Publica di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.).

Lo storico del diritto, in fondo, è un umanista laureato in giurisprudenza. Se si bada ai pregiudizi e ai luoghi comuni odierni, le materie letterarie sono spesso considerate quelle meno “spendibili” sul mercato del lavoro, per cui molto spesso le famiglie spingono i loro figli verso quelle facoltà dove tendenzialmente è più facile avviare una carriera professionale. Un appassionato di materie filosofiche e storiche si troverà, quindi, in un dissidio interiore tra la sua vocazione (o presunta tale) e le previste maggiori possibilità di impiego. Non è sempre così, naturalmente, tant’è che come testimonia il professor Mazzanti, lo studio del diritto medievale può aprire nuove prospettive al giurista contemporaneo: quella del confronto e alla riflessione su un’epoca che sicuramente è differente dalla nostra, ma che ha molto da trasmettere.

«Se dovessi identificare e presentare il Medioevo, con quali concetti lo rappresenteresti?» domanda il professor Gigliotti.

Il professor Mazzanti individua tre termini: straordinario, cristiano e contraddittorio.

Innanzitutto straordinario in riferimento alla nascita delle Università, tema molto vicino ai partecipanti dell’incontro. La prima Università nasce a Bologna proprio con gli studi giuridici. Gli studenti arrivavano da tutta Europa: Spagna, Francia, Inghilterra, Polonia… Facevano migliaia di chilometri (addirittura facevano testamento, perché non era detto che avrebbero fatto ritorno).

Straordinaria la figura di Irnerio (1060-1130). Negli anni tra XI e XII secolo un uomo da autodidatta, «maestro senza maestri», recupera il diritto romano. Con il metodo interpretativo della glossa[1] riesce a rendere fruibile il diritto romano, che, a suo modo, era già stato riadattato per l’epoca di Giustiniano (527-565 d.C.), che ha subito una ulteriore trasformazione nel periodo a cavallo tra l’Alto ed il Basso Medioevo ed è rimasto in vigore fino alla Rivoluzione francese.

 

Luigi Serra (1846-1888), Irnerio che glossa le antiche leggi (1886), a Palazzo d’Accursio

 

Più di 500 anni dopo il periodo giustinianeo, nonostante i cambiamenti, quel diritto racchiuso nel Corpus iuris civilis poteva continuare a regolare i rapporti giuridici degli uomini del Medioevo. E questa opera è stata resa possibile grazie a finissimi interpreti che hanno commentato i testi giustinianei e li hanno adattati al proprio tempo.

Sorge spontanea una riflessione: cosa distingue l’uomo medievale dall’uomo moderno?

L’uomo medievale è tradizionalista nel pieno senso del termine, in quanto la Tradizione è da lui realmente vissuta: la volontà di recuperare ciò che di buono è stato lasciato nel passato e farlo proprio nel presente è tipico della mentalità dell’uomo medievale. «Il mondo che precede l’Illuminismo è sicuramente un mondo lontano dal nostro, questo ha creato una frattura» spiega il professor Mazzanti nel suo discorso conclusivo. Dall’Illuminismo gli uomini hanno cercato di allontanarsi dal passato per avvicinarsi a soluzioni sempre nuove: è l’epoca delle riforme, ma la più grande Riforma, in realtà, è stata inaugurata due secoli prima, quella Protestante.

«Se guardiamo l’epoca carolingia, vediamo la trascrizione incessante delle opere antiche. Per Carlo Magno e i suoi intellettuali, come ad esempio Alcuino da York, Paolo Diacono, fare cultura significa portare il passato nel futuro. Non facevano che trascrivere opere dei cristiani e anche dei pagani. Ripetere il già detto». È il periodo in cui si fa valere il principio di autorità (ipse dixit). Le tesi di Sant’Agostino (354-430), di Sant’Ambrogio (339/340-397), di Aristotele (384-322 a.C.) erano autorevoli per i pensatori dell’epoca e se questi ultimi arrivavano a conclusioni diverse dalle loro potevano considerarsi in errore o, quanto meno, ricadeva su di loro una sorta di “onere della prova” delle loro idee rafforzato. Dal Rinascimento questa tendenza inizia notevolmente a cambiare.

È stato, inoltre, osservato il carattere interdisciplinare dei giuristi dell’epoca: i glossatori spesso lavoravano con i teologi, erano conoscitori delle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e delle arti del quadrivio (aritmetica, musica, geometria e astronomia). Si ebbe anche un’ampia riscoperta dei testi classici, in particolare quelli di Aristotele. Questo aspetto indica, in particolare, il fatto che la materia giuridica non fosse una scienza isolata, ma avesse bisogno di rapportarsi ad altre discipline, nonché alla realtà concreta del vivere sociale. Il Medioevo non avrebbe mai potuto conoscere giuristi che formulassero teorie pure ed astratte del diritto.

Il secondo termine individuato è cristiano. L’Europa del Medioevo era Res Publica Christiana. Tutti erano fedeli cristiani, per cui le norme etiche erano universalmente condivise e osservate sotto il profilo della morale cristiana; il substrato normativo e consuetudinario, dunque, si formava attraverso la condivisione di questi valori comuni.

Dalla Riforma luterana, con la quale si avviava una frattura a livello di Fede, sono poi conseguite le guerre di religione tra il XVI ed il XVII secolo, le quali hanno ridisegnato l’assetto politico e giuridico dell’Europa. Noto è il  principio di «cuius regio, eius religio» (la religione di colui di cui è la regione), formulato nella Pace di Augusta (1555), poi confermato nella Pace di Westfalia (1648), che conferì agli Stati secolari la sovranità religiosa, contribuendo alla disgregazione del tessuto sociale sul piano morale ed etico in opposizione all’universalismo della Chiesa di Roma.

Il professor Mazzanti per spiegare la differenza tra la sensibilità dell’uomo medievale e quella dell’uomo moderno, sostanzialmente ateo, si esprime così:

«Tutti erano fedeli cristiani. Il mondo per i medievali non è solo quello che cade sotto i loro sensi, ma vi è un altro mondo altrettanto reale che incideva sulla quotidianità degli uomini non meno di quello che deriva dalle leggi fisiche».

«Dio e il soprannaturale sono reali come ciò che sta di fronte ai nostri occhi».

«Loro erano uomini di fede e noi uomini di ragione. In realtà su questo si potrebbe discutere. In realtà loro erano uomini di ragione altrettanto quanto noi, ma per loro la realtà era più ampia. Noi crediamo che il soprannaturale non esista oppure non abbia niente a che fare con la nostra realtà».

Un caso curioso citato riguardava l’impiccagione di un condannato. Poteva capitare qualvolta che la corda si spezzasse e il malcapitato sopravvivesse. I giuristi, quindi, si domandavo se dovesse essere impiccato di nuovo oppure se vi fosse stato un intervento divino, per cui si fosse realizzata un’ordalia[2] non richiesta. L’uomo medievale era perfettamente consapevole che un giudizio umano non avrebbe mai potuto essere totalmente ineccepibile. Il Giudizio spettava soprattutto a Dio. E in questo caso la corda spezzata poteva rappresentare un giudizio divino che soccorreva quello umano. Bisognava fare una valutazione, il professor Mazzanti cita un giurista dell’epoca, Luca Da Penne (1325-1390 circa), il quale sosteneva che bisognava vedere come era la corda: se questa era marcia allora bisognava giustiziarlo un’altra volta, ma se la corda era fatta a regola d’arte bisognava graziare il condannato.

L’ultimo termine individuato è contraddittorio.

È risaputo che il medioevo è l’epoca della forma per eccellenza. Ognuno si dava una forma, chi si dava al sacerdozio, chi al monachesimo e numerosissimi erano i conventi e i monasteri. E chi, invece, si coniugava. L’amore libero non era contemplato, il concubinato, ad esempio, era tollerato, ma si veniva considerati ai margini della società. Nell’epoca della forma per eccellenza si riconosceva la validità dei matrimoni a-formali, ossia quei matrimoni dove bastava la sola presenza dei due coniugi, essi avrebbero espresso la formula di promessa in matrimonio, i testimoni non erano direttamente necessari, e dopo poteva avvenire la copula e dunque l’unione materiale dei due coniugi, così il matrimonio era formalmente valido. Come mai era consentito ciò?

Vengono indicati con il termine a-formali perché prescindevano dalle formalità ecclesiastiche: non era richiesta la presenza del sacerdote per tutto il corso dell’Alto Medioevo. Questo matrimonio, tuttavia, aveva la sua tipicità, erano richiesti tre elementi: la promessa di future nozze, il consenso e il trasferimento della moglie a casa del marito: i medievali avevano fatto proprio il principio romanistico del «consensus facit nuptias». A partire dal Concilio Lateranense IV (1215), la Chiesa tentò di regolare il matrimonio con un istituto codificato, definendo, inoltre, la sua natura sacramentale, ricordando che «gli sposi sono chiamati alla beatitudine eterna come coloro che sono votati alla verginità». Il II concilio di Lione (1274) lo contò poi tra i sette sacramenti, da allora anche numericamente definiti in modo formale, poiché prima il loro numero era pacificamente accettato e non si sentiva il bisogno di definirlo. Con il Concilio di Trento (1545-1563), il matrimonio veniva definitivamente disciplinato dal diritto canonico, tramite l’emanazione del decreto Tametsi (11 novembre del 1563), mentre nei Paesi protestanti cominciò a diffondersi l’esigenza di una celebrazione avente gli effetti civili, distinta dal matrimonio religioso.

In ultima analisi si può osservare che il diritto medievale è, soprattutto, modellato dalla Fede cristiana, pienamente vissuta e parte integrante del vivere civile; per questo motivo non era necessaria una rigida forma e un controllo centralizzato da parte di un potere politico, neanche quello temporale della Chiesa. Anche per questo motivo, si può dire che il medioevo giuridico è straordinario agli occhi della contemporaneità.

 

 

[1] Le glosse sono quelle annotazioni interlineari o marginali nei testi medievali biblici e giuridici che consistono generalmente, per i testi biblici, in brevissime parafrasi esplicative della parola (talvolta con un rapido accenno alla possibile interpretazione allegorica) e, per i testi giuridici, in note interpretative più ampie che costituiscono spesso, nel loro insieme, un vero e proprio commento al testo.

[2] Termine nato nel medioevo europeo per indicare il «giudizio di Dio» e cioè ogni prova rischiosa alla quale veniva sottoposto un accusato, e il cui esito, considerato come diretta manifestazione della volontà divina, era determinante per il riconoscimento dell’innocenza o della colpevolezza dell’accusato stesso. https://www.treccani.it/vocabolario/ordalia/

 

 

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