I Roberti di Castelvero uomini di guerra, di Chiesa, di cultura e Cavalieri del cielo – Seconda parte

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I Roberti di Castelvero – Prima parte

 

Nel XX secolo il nome dei Roberti di Castelvero fu iscritto tra quelli dei grandi della storia d’Italia

I ghiacci dell’Adamello, nel lento loro ritirarsi sotto l’azione del riscaldamento globale, hanno restituito nell’agosto del 2005 i resti umani di Vittorio Roberti di Castelvero, rimasti imprigionati a oltre 3200 metri d’altitudine quasi esattamente sessant’anni prima. Vittorio, quando di lui si perse ogni notizia, aveva ventun’anni.

La guerra era appena finita ma se ne registravano ancora i sussulti. Lui, nonostante tutti lo sconsigliassero dal salire da solo lungo le pendici di quelle montagne, non voleva sentire ragioni: intendeva riabbracciare al più presto dei parenti ancora in armi che vi si trovavano. Avanzò finché le mulattiere glielo consentirono con la sua bicicletta. Poi l’abbandonò e prosegui a piedi. Quando iniziarono a cercarlo trovarono la bicicletta non lontano dalla casa di un contadino che gli aveva offerto una tazza di latte fresco e al quale la figura di quel giovane gentiluomo con gemelli stemmati ai polsi e lo sguardo inquieto, ansioso di salire sulla montagna, era rimasta bene impressa nella memoria. Ogni ricerca fu inutile e ora il ritrovamento da parte di due alpinisti dei resti di un uomo che portava una camicia – ormai a brandelli ma con i polsini ancora chiusi da gemelli d’oro smaltati- e di un portamonete che, con ogni probabilità, gli apparteneva sembrano finalmente avere fatto luce sulla scomparsa di Vittorio, anche se nessuno aveva dubbi su quale potesse essere stata la sua sorte. L’arma dipinta sui gemelli, al contrario di quanto dissero inizialmente i giornali, non era quella dei Roberti, ma apparteneva piuttosto a un reggimento, probabilmente al 17° Fanteria di Pinerolo, cosa che non esclude in alcun modo, come qualcuno congetturò, che i resti ritrovati non fossero proprio di Vittorio. Si accennò anche all’ipotesi di effettuare un test del DNA ma non abbiamo notizie precise se sia poi stato fatto. Lo stesso Edmondo Schmidt Müller di Friedberg, marito di una sorella di Vittorio, non ebbe dubbi, di fronte alle indicazioni diffuse dai media (che tra il 22 e il 25 agosto del 2005 diedero ampio risalto alla notizia del ritrovamento) nel ritenere che fossero stati ritrovati proprio i resti di suo cognato.

Ogni anno, nei giorni dell’anniversario della scomparsa nella Chiesa di Pinzolo (Madonna di Campiglio) si celebra una Messa in suffragio e ricordo di Vittorio, e il suo nome è ricordato anche dal vecchio rifugio della Presanella che, col nome di «Bivacco Roberti», gli fu intitolato nel 1986, in seguito a radicale ristrutturazione.

Ma il nome dei Roberti di Castelvero in generale fu in quei tempi tra quelli destinati a essere a lungo ricordati. Una famiglia certo di gente non comune, già lo si è visto. I Roberti, pur coerentemente incanalati nel solco della nobiltà piemontese, valorosa nelle occasioni di guerra, forte nella fede cristiana, dotta e intellettuale (nonostante vi sia chi ama propagandarne immagini false, visioni fuorvianti e infondati stereotipi negativi) seppero raggiungere mete riservate a pochi, soprattutto un campo militare.

Ben lontano dall’essere amore della guerra o risultato di una vocazione guerrafondaia, il valore militare dei popoli sabaudi (accezione riferibile a genti savoiarde, liguri-piemontesi, valdostane e nizzarde) è testimoniato – nonostante vi sia chi vorrebbe ridurlo a mera leggenda – da un incalcolabile numero di singoli e collettivi atti di coraggio e sacrifici della vita o della propria incolumità. Nella palestra delle secolari guerre in difesa della libertà e dell’autonomia contro l’espansionismo franco-spagnolo e nelle battaglie risorgimentali si è costantemente registrata, tra i caduti, i feriti e i destinatari di encomi, promozioni sul campo o decorazioni, un’impressionante presenza nobiliare, che neppure nella spaventosa carneficina della prima guerra mondiale ha perso la sua rilevanza. Alcune famiglie ne sono uscite addirittura decimate. È questo anche il caso dei Roberti di Castelvero, originari dell’Astigiano, divenuti acquesi nel Cinquecento e poi torinesi.

 

 

La residenza principale della famiglia fu per tre secoli il Palazzo di Acqui Terme (piazza Addolorata), costruito nel settimo decennio del Cinquecento. Ospiti illustri che vi sostarono furono, fra gli altri, il duca Vittorio Amedeo II nel 1702 e Napoleone Bonaparte nel 1796. Nel 1866 l’edificio passò alla famiglia Ottolenghi di Acqui Terme.

Al momento dello scoppio del primo conflitto mondiale la famiglia era rappresentata dai figli del generale Vittorio Emanuele (così chiamato in onore del Re, suo padrino): cinque maschi e una femmina (un altro fratello era morto in seguito ad una caduta da cavallo nel 1892).

Il primogenito, Edmondo (Torino, 1876-Roma, 1942), ingegnere civile, dopo avere risieduto per vari anni in Siam, rientrò in patria, in tempo per partire per il fronte. Ne tornò «Grande invalido di guerra» per le ferite ricevute (che lesero irrimediabilmente i centri nervosi locomotori) ed ebbe una medaglia di bronzo al Valore concessagli con la motivazione:

«Castelnuovo – 19 gennaio 1916. – Ardito e infaticabile collaboratore in lavori di difesa, con sereno coraggio, si espose, ripetute volte, alle offese del nemico per l’adempimento dei propri compiti. Veniva gravemente ferito durante una ricognizione compiuta su terreno scoperto e battuto».

Il fratello Giuseppe (Beppe), nato nel 1886, comandante della 76a Batteria Bombarde, cadde sul Monte San Marco, nella zona di Gorizia (Casa Diruta) il 14 maggio 1917, meritando una medaglia d’argento al Valore la cui motivazione recita:

«Durante un prolungato bombardamento, sprezzante del pericolo, si recava più volte dall’osservatorio alla postazione, attraversando zone intensamente soggette al tiro avversario finché, colpito da una scheggia di granata, lasciava la vita accanto alle sue bombarde».

 

Stemma dalla famiglia Roberti di Castelvero prodotto per le esequie del conte Vittorio Emanuele morto nel 1871

Motto: Virtus In Bello Pro Patria
Inquartato: al 1° d’oro, all’aquila imperiale, coronata nelle due teste, il tutto di nero; al 2° e 3° d’oro, a tre sbarre d’azzurro; al 4° di rosso, alla corona all’antica, d’oro, con due palme, di verde, infilzate nella corona, decussate e cadenti all’infuori, la corona accompagnata in punta da un bordone da pellegrino, d’argento, posto in palo; il tutto caricato da una fascia d’argento, sopracaricata da un biscione, di verde, ondeggiante in palo

 

Non lontano da lui combatteva anche Vittorio, tenente d’Artiglieria: questo, pur mettendo a repentaglio più volte la propria vita e distinguendosi per atti di valore riuscì a tornare a casa.

Luigi (Gigi), il più giovane (1896-1916), fu decorato di due medaglie d’argento. Accettato quale volontario nel 4° Reggimento Bersaglieri ciclisti il 28 maggio 1915 un suo necrologio recita «tornato volontario in guerra dopo otto mesi di degenza in Ospedale per grave ferita imperfettamente sanata, fece olocausto dei suoi vent’anni alla Patria, sulla quota 208 Nord (Carso)». Le mitragliatrici austriache lo falciarono il 3 aprile 1916 mentre precedeva i suoi uomini in un rischiosissimo attacco.

La prima medaglia gli fu data con la motivazione:

«Monte San Michele – 23 ottobre 1915. Ferito, continuò a combattere rifiutando qualsiasi soccorso. Il giorno successivo, ferito una seconda volta e gravemente, continuò ad incitare i suoi all’assalto».

La motivazione della seconda medaglia suona come segue:

«Case Bonetti (Carso) – 2-3 novembre 1916. – Ferito leggermente ad una coscia, rifiutava di recarsi al posto di medicazione. Il giorno dopo, mentre un furioso bombardamento sconvolgeva le trincee, e la fucileria nemica combatteva una nostra linea di nuova occupazione, si offriva per il comando di un plotone di volontari incaricato di recarsi a riconoscere l’esistenza di varchi nei vicini reticolati di una forte trincea avversaria, nella quale lanciava bombe a mano. Ferito al petto, al proprio comandante di battaglione che gli infondeva coraggio, rispondeva: “non importa: Viva l’Italia”».

La sorella Maria Vittoria, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana al fronte (decorata della Croce di guerra e della Croce d’argento della C.R.I. e di altre decorazioni), vegliò straziata il corpo di Luigi, prima della sepoltura nel cimitero di San Canziano di Monfalcone.

Ebbe anch’ella una medaglia al Valore, di bronzo, con la motivazione:

«Soleschiano di Ronchi – ottobre 1916 – 24 agosto 1917. – Per essere rimasta serena al suo posto a confortare gli infermi affidati alle sue cure, mentre il nemico bombardava la zona ove era situato l’ospedale cui era addetta».

Nel 1933 la sua salma fu esumata dal cimitero di San Canziano per essere condotta a quello di Redipuglia «per far corona a suo tempo al Duce della III Armata».

Rimane da riferire almeno qualche spunto su un altro fratello, Giovanni Francesco, un personaggio straordinario di cui i corrispondenti di guerra narrarono più volte le imprese; un suggestivo monumento lo ricorda nel Comune di Castel Boglione.

Nato a Torino nel 1883, Giovanni Francesco studiò in Accademia Navale, uscendone nel 1903 col grado di guardiamarina del Corpo dello Stato Maggiore, di qui in avanti prestò servizio su ogni tipo di unità, sommergibili compresi.  Nel 1908 portò soccorsi alle popolazioni di Messina e di Reggio Calabria colpite dal terremoto.

Nei primi mesi del 1911 partecipò a corsi di pilotaggio. Conseguì i brevetti di pilota civile e militare, divenne a sua volta istruttore di volo nel campo di Mirafiori e partecipa a vari raid aerei. Nell’agosto di quell’anno prese parte a voli sperimentali che portarono alla decisione di dotare l’esercito italiano di reparti aerei. Le sue osservazioni e studi contribuirono al progresso della nostra aeronautica. Il 12 luglio 1912 fu promosso Tenente di vascello. Si guadagnò una prima medaglia d’argento nel conflitto italo-turco, eseguendo ricognizioni che fecero, tra l’altro, risparmiare vite umane e crearono, con lo sgancio di bombe, danni alle postazioni arabe; «Con molta abilità e coraggio – recita la motivazione – eseguì difficili ricognizioni in aeroplano nel campo Arabo – Turco (1911/1912) malgrado il cattivo tempo ed il fuoco nemico – Bengasi, 1912». Durante una ricognizione il suo aereo fu colpito in quello che è passato alla storia – ricorda Michele Pasqua in un cenno biografico del Roberti – come il primo combattimento tra terra e cielo. Già il nemico esultava, nella convinzione d’averlo abbattuto, quand’egli ne sorvolò nuovamente il campo, lasciando dapprima cadere su di esso, quasi a congratularsi per la precisione del tiro – suggerisce Aldo di Ricaldone -, non bombe ma i propri biglietti di visita.

La seconda medaglia d’argento giunse nel 1916 per un’incursione in territorio nemico compiuta per mezzo di idrovolanti con una minuscola pattuglia. Questa la motivazione:

«Costa Albanese – 1° aprile 1916. – Prese parte con tre altri ufficiali ad un’ardita incursione a Punta Samana (costa albanese). Lasciati gli idrovolanti e scesi a terra, i quattro ufficiali raggiungevano risolutamente la stazione locale, la incendiavano, appiccando altresì il fuoco ai casotti magazzini di munizioni, cagionandone l’esplosione ed ai depositi di carbone adiacenti, e distruggevano il pontile di accesso, mentre la forza nemica di presidio erasi data alla fuga. Compiuta l’audace operazione, raggiungevano, incolumi, coi veicoli, Valona».

Ancora nel ’16 gli fu concessa una terza medaglia, per un’operazione di bombardamento nell’Alto Adriatico, durante la quale il suo idrovolante fu colpito più volte:

«Trieste – 15 agosto 1916. – Di pieno giorno, pilota e capo squadriglia di idrovolanti, effettuò e diresse una efficace azione di bombardamento aereo, dimostrando calma ed ardimento, e ritornando felicemente alla sua base, malgrado i colpi ricevuti nell’apparecchio».

 

Monumento dedicato a Giovanni Francesco Roberti a Castel Boglione, feudo dei suoi avi

 

Il 5 dicembre 1918 fu promosso capitano di corvetta per meriti di guerra

Fu in seguito creato cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia:

«Alto Adriatico – Con sereno entusiasmo e con salda convinzione maturata nel lavoro paziente e nella coraggiosa attività aviatoria di molti anni, fu mirabile maestro ai giovani aviatori di guerra, da lui comandati, ispirandoli alla costante abnegazione ed addestrandoli alla fidente audacia con la quale essi hanno potuto conseguire i più alti e meritati successi (R. D. 17 maggio 1919)».

Per le ferite ricevute in varie occasioni, gli fu conferita anche la croce di guerra. Altri riconoscimenti e decorazioni seguirono negli anni successivi.

Certo ai Roberti di questa generazione non erano mancati gli esempi di tanti antenati; tuttavia sembra probabile che il loro principale punto di riferimento possa essere stato quel Pietro Renato del quale qualcosa si è anticipato più indietro, del quale in famiglia vi era un vero e proprio culto. Pietro Renato era stato uno dei maggiori protagonisti, tra il 21 e 27 aprile 1796, della battaglia di Mondovì. Nell’ultimo di questi giorni, egli, giovane “cornetta”, quindi un alfiere, fu uno dei duecento dragoni piemontesi del Reggimento del Re che ebbero la meglio su mille uomini del Bonaparte. Lo si ricorda in particolare perché contribuì, non marginalmente, servendosi furiosamente della bandiera come di un’arma, a mettere in fuga il nemico. Il suo eroismo fu immortalato in un dipinto di Giuseppe Isola («Alcuni drappelli de’ Dragoni del Re sbaragliano i francesi sotto Mondovì il dì XXXVII aprile MDCCXCVI») conservato nella Basilica di Superga, dal quale si trassero anche cartoline commemorative. Morì in guerra, come si è accennato, a Barcellona, durante la sortita del maggio 1808. Quel 1808 fu per i Roberti un anno fatale, giacché sui campi di battaglia d’Europa persero la vita anche tre fratelli di Pietro Renato.

 

 

Nota bibliografica

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