Gli uomini e la vita associata 1
Come abbiamo già visto, centro di ogni attività associata di tipo politico in Grecia era la πόλις/polis (termine da cui ancora oggi in italiano abbiamo vocaboli quali «politica», «polizia»…), con due ipotesi interpretative: o dall’i.e. *pḷ/pḷl- (da cui anche il sanscrito púra-m, «borgo, cittadella») o dall’i. e. *qṷolis/*pṷolis (da cui anche il latino (in)colo/inquilinus), cioè «abitare». Essa va intesa come totalità di cittadini e di edifici uniti in un insieme amministrativo (in latino urbs, di origine ignota), mentre la città intesa come centro specifico dell’attività politico-amministrativa era la άστυ/asty[1] (cfr. sanscrito vástu, «dimora» e vásati, «abitare»; dalla radice i. e. *ṷes-, «soggiornare», cfr. poi il latino vestibulum < greco εστία/hestίa, letteralmente «vestibolo»), cioè il latino oppidum (cfr. sanscrito padám, «passo, orma, luogo» e púr, «cittadella» e il greco πέδον/pédon, «pianura, suolo»), inteso tuttavia anche come «città» (generico), in quanto in opposizione alla Urbs per eccellenza, cioè Roma. Da polis abbiamo anche il termine πολιτεία/politéia, cioè la città intesa come organizzazione statale o cittadinanza (in latino res publica, nel primo significato, e civitas, nel secondo). Da polis, ovviamente, deriva il termine πολίτης/polìtes («cittadino»), in latino civis forse da una radice *kei– («famiglia»), e testimoniato anche in osco-umbro come ceus, in opposizione a hostis («nemico»).
Nella polis (o meglio, tra i suoi cittadini) può regnare la ομόνοια/omόnoia (in latino concordia) o il suo opposto, cioè la έρις/éris (la discordia), cfr., anche se dubbiosamente, il sanscrito áriḥ ariḥ, «nemico, ostile»; addirittura – in situazioni estreme – possiamo trovare la stásis/στάσις, cioè la «rivolta, rivoluzione», termine che può avere valore sia positivo che negativo, a seconda – ovviamente – se chi di essa parli appartenga alla fazione in essa implicata attivamente oppure no, per la quale si invoca l’i. e. *stha-ti-s («punto di partenza, di sollevamento»). In latino tale situazione prende il nome di res novae (o novitates), chiaro esempio di come una lingua rifletta la civiltà che la usa: lo stato romano, conservatore di natura, vedeva nelle «novità» una situazione tipicamente rivoluzionaria, tanto che, per un uomo politico, esprimere la volontà di cupere res novas («desiderare novità») equivaleva ad una sorta di dichiarazione di guerra nei confronti dello stato.
Il nemico è lo hostis (se pubblico), differente dall’adversarius (se personale o, al massimo, della famiglia); in greco πολέμιος/polémios (ovviamente da πόλεμος/pόlemos, «guerra»), di etimo incerto.
I magistrati, nella repubblica romana, seguivano il cosiddetto cursus honorum, che permetteva loro, grazie alle singole cariche (honores)[2], di esercitare o l’imperium (il potere del pater familias o del magistrato che ha il potere sovrano di prendere qualunque decisione di utilità pubblica anche al di fuori delle leggi) o l’auctoritas (il potere che spinge verso l’alto, che fa crescere) o la potestas (potere di chi è in grado, cioè ha la possibilità, è capace di fare o di ordinare qualcosa): caratteristica peculiare del cursus era quella di stabilire in modo rigido sia l’ordine delle cariche (non si poteva, in altre parole, rivestire una carica più importante se non si fossero rivestite prima – e nel loro ordine gerarchico – quelle meno importanti) sia il tempo che doveva necessariamente intercorrere tra una carica e l’altra. I nomi con cui si definivano tali cariche sono rimasti anche nella nostra realtà odierna: alcuni con altrettale valore politico, come «senatore», altri passando dal campo politico a quello della magistratura o della burocrazia statale, come «pretore» o «questore» o «prefetto», altri ancora sono rimasti più come indicazione di un atteggiamento che non come vero e proprio valore definitorio di una carica, come è il caso di «tribuno», che indica nella nostra realtà il modo di comportarsi spesso spregiudicato e meschinamente demagogico di certi uomini politici.
Vediamo ora i principali termini indicanti cariche politiche a Roma.
Consul (i due consoli erano la massima carica dello stato, oltre che comandanti in capo dell’esercito) dalla radice *sar-/sal- («andare velocemente, scorrere»), da cui anche il verbo consulo («provvedere») e sostantivi quali ex-silium e con-silium. Il consul è, letteralmente, «colui che va insieme e decide». Il senator, appartenente all’unica assemblea legislativa (il senatus: il bicameralismo era ancora di là da venire), trae il suo nome da senex («anziano», dalla radice *sana– «vecchio»), in quanto essa era formata inizialmente dai capi delle famiglie nobili (nobilis da notus, «famoso», dalla radice *gan-/gna-, «conoscere»; cfr anche il greco γιγνώσκω/ghighnόsco ed il latino nosco/cognosco).
La plebe aveva, come suoi magistrati specifici, i «tribuni della plebe», i quali nel concreto, pur inferiori per prestigio a consoli e senatori, erano tuttavia i magistrati più potenti dello stato, essendo gli unici a poter esercitare la prerogativa, fondamentale, dello ius intercessionis (cioè il potere di fermare col loro voto qualunque proposta di legge, qualora essa ledesse – a loro giudizio incontestabile – i diritti della plebe; da intercedere, letteralmente «andare nel mezzo» e quindi «essere d’ostacolo, opporsi») ed in più essendo la loro figura sacrosancta, cioè «sacra ed inviolabile». Il termine tribunus proviene da tribus («tribù») che, lo abbiamo già visto altra volta, risale al tema tri– («tre»), poiché tre erano gli antichi gruppi che formavano il popolo romano.
Altre cariche pubbliche erano:
– quaestor dal verbo quaero («ricerco, ottengo»; dalla radice *ka-/kan- «desiderare, cercare», da cui deriva anche un termine come amicus). Dalle primitive funzioni giudiziarie passò poi a compiti prevalentemente finanziari con l’amministrare le finanze dello stato.
– praetor dal verbo prae ire («precedere, essere a capo», da cui il nomen agentis prae-itor «colui che cammina davanti, che è a capo»), composto del verbo eo/ire, dalla radice *ei-/*i- («andare»; cfr. anche il sanscrito éti, «egli va», ed il greco είμι/éimi, «andare»). Aveva funzioni esclusivamente giudiziarie.
– aedilis dal vocabolo aedis («casa, tempio»), dalla radice *aidh- («bruciare, mandare luce»; cfr. greco αίθω/áitho, «ardo, brucio»), cioè letteralmente «luogo dove arde il fuoco del focolare» (anche in italiano abbiamo la metonimia di «focolare» per «casa»). Aveva la cura degli edifici pubblici e l’organizzazione di spettacoli e giochi pubblici.
Nei secoli che precedettero la res publica romana, cioè durante la monarchia[3], si ebbe, come appare ovvio, la figura del re (rex < verbo rego, «guidare, reggere», dalla radice *rag-, «stendere, dirigere»; cfr. l’hindu raja, «principe» o il suffisso gallico –rix, in nomi propri come Vercingetorige, ad indicare il rango principesco), mentre in quelli che seguirono[4], alla cariche repubblicane si aggiunse la figura dell’imperator (letteralmente «sommo comandante militare»), titolo più onorifico che sostanziale, dato che in realtà colui che noi chiamiamo «imperatore» governava in virtù del possedere ad vitam l’imperium proconsulare magnum e la tribunicia potestas, venendo così de facto a riunire in sé le due figure che esercitavano il maggior potere nel mondo politico romano: quella del console e quella del tribuno della plebe.
La Gemma augustea, la cui complicata iconografia è una celebrazione delle gesta di Augusto (in latino: Gemma Augusti), si tratta di un cammeo in rilievo su due strati, intagliati su di una pietra araba d’onice. Si ritiene che l’autore di questo capolavoro sia stato Dioscuride (scultore e intagliatore di gemme cilicio, vissuto a Roma nell’età augustea) o uno dei suoi discepoli nell’anno 12 d. C. circa. L’artistico gioiello è conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna
Oltre ai nomi comuni rex ed imperator abbiamo anche il nome di Augusto, dal verbo augére da cui anche auctoritas (letteralmente «aumentare, far crescere», dalla radice *vag-/aug-, «essere forte»). In greco Augustus venne reso con σεβαστής/sebastés (dal verbo σέβω/sébo, «venero, onoro», da i. e. *tiegṷ-no-s, «venerabile, santo» e tiegṷ–, «abbandono, pericolo»), dal quale derivarono poi toponimi come Sebastopoli («città di Augusto», in latino Augusta) o Sebastea, ma anche i nomi propri Sebastiano ed Eusebio, (letteralmente «buono nel venerare»), equivalente quindi al latino Pius.
Tra le cariche tipicamente imperiali abbiamo poi quella di praefectus (dal verbo prae ficio, «collocare a capo, davanti»), composto del verbo facio (dalla radice *dhe-, «porre, collocare»), carica che durante la repubblica fu solo militare, mentre poi, durante l’impero, venne assegnata ai comandanti di particolari reparti (praefectus vigilum) o ai responsabili di uffici specifici (praefectus annonae).
[1] Da questo vocabolo deriva, in greco moderno, il termine indicante la «polizia», cioè αστυνομία/astynomìa, vale a dire, letteralmente, «chi regola la città».
[2] Da questo vocabolo in italiano proviene l’epiteto di «onorevole» riservato ai parlamentari, cioè «persona degna di ricoprire cariche pubbliche».
[3] Anche se i re di Roma furono certamente in un numero maggiore dei 7 tradizionali (ricordiamo che il 7 era numero sacro anche presso i romani), la durata della monarchia romana, accettando la data tradizionale della fondazione della Città, è da calcolarsi in circa 2 secoli e mezzo (753-509).
[4] Altri 5 secoli circa: dalla fine della guerra civile tra Ottaviano ed Antonio (31 a. C., ma possiamo affermare che, ufficiosamente, l’impero era già iniziato da almeno 15 anni) alla deposizione dell’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, nel 476.