Jacques-Louis David, Bonaparte valica il Gran San Bernardo, olio su tela 260×221 cm, 1800-1803, Museo nazionale del castello della Malmaison, Rueil-Malmaison, Francia
È incredibile come in questa Europa del XXI secolo, così liberale da censurare le verità storiche, si possa ancora avere un’idea trionfale di Napoleone Bonaparte, il generale dittatore che fu illustre figlio primogenito della Rivoluzione Francese e come tale modello dei totalitarismi che sommersero l’Europa del XX secolo con i tiranni Hitler, Stalin, Pol Pot. Ma fra i troppi tappeti rossi srotolati da studiosi abbacinati dagli ideali dei giacobini, dei tagliagole e degli illuministi, da scrupoloso e realista storiografo Gustavo Mola di Nomaglio scrive nell’esaustivo volume Napoleone e il Piemonte. Guasti ed eredità, tra cospirazioni, miti e realtà, edito dal Centro Studi Piemontesi in collaborazione con l’Associazione Amici di Bene[1]: «Nonostante i genocidi posti in atto dalla rivoluzione e gli immensi eccidi provocati dalle guerre di Napoleone, ancora oggi perdurano in campo storiografico, e non è facile spiegarselo, le secolari visioni perpetuate da una sorta di lobby di autori che fatica ed è ben poco disponibile a vedere gli enormi danni compiacendosi, piuttosto, di celebrare quelle eredità che sono i germi del tramonto dell’Europa, dell’Occidente e della loro identità» (p. 339).
L’importante pubblicazione del Centro Studi Piemontesi, realizzata in collaborazione con l’Associazione Amici di Bene e corredata da un esplicativo apparato iconografico, è la raccolta degli Atti del convegno che si è tenuto a Bene Vagienna, in provincia di Cuneo, il 23 ottobre 2021 a Palazzo dei Nobili, e in questo contesto l’argomentare di Mola di Nomaglio è profondamente lucido e allerta che, considerando autori pessimisti come per esempio Spengler o Huizinga, quasi «profeti di sventura» avrebbe detto Giovanni XXIII – traslando la visione civile in quella ecclesiologica, quando il Pontefice ebbe da ridire contro coloro che avanzavano riserve e serie preoccupazioni all’apertura del Concilio Vaticano II, dove premeva una minoranza di Padri conciliari per una Chiesa rivoluzionaria, liberale, modernista – «Se si continuerà a fingere di non vedere, anzi a elogiare – nelle loro molteplici, crescenti e pervasive storture – gli esiti dei pensieri e del “pensiero” rivoluzionari, il prezzo dell’indolenza delle attuali generazioni sarà pagato – e relativamente a breve – dai loro discendenti». Questa è vera ricerca storica. Lo storiografo cerca e ricerca per trovare la verità dei fatti e non per giustificare l’ingiustificabile pensiero che ha portato a tragedie immani: vedasi il numero di torturati, di giustiziati nelle persecuzioni totalitarie e di decine e decine di milioni di morti in un solo secolo, fra l’Unione Sovietica comunista (a partire dal 1917), la Germania nazista (a partire dal 1939) e la Cambogia comunista (a partire dal 1976).
La presentazione del libro, avvenuta il 4 marzo u.s. nella sede del Centro Studi Piemontesi, a Torino (via Ottavio Revel 15), dove sono intervenuti Michelangelo Fessia (Presidente dell’Associazione Amici di Bene e ottimo realizzatore di progetti culturali), Attilio Offman e Giovanni Quaglia, è stato magistralmente chiuso da Gustavo Mola di Nomaglio, che ha ricordato con pennellate oratorie efficaci, quanto sia entrato nell’oblio l’anticonformismo dei reazionari Hussards, movimento letterario francese degli anni cinquanta, i cui membri si opponevano all’esistenzialismo e alla figura dell’intellettuale impegnato personificata da Jean-Paul Sartre, mentore, non dimentichiamolo, di Pol Pot. Ebbene, essi ebbero parole di fuoco nei confronti di Napoleone e non fu da meno il grande giornalista censurato e perseguitato, di cui si è già scritto sulle colonne di «Europa Cristiana», Stefano Sanpol, il quale, citato da Mola di Nomaglio sia alla presentazione del libro, sia all’interno degli Atti, lascia scritto: «So che Napoleone I è chiamato grande; so che vi sono degli scimuniti, che perché vinse cento battaglie, lo battezzano un genio, e lo collocano fra gli eroi. Fu celebre, è vero, ma per delitti. Chiamiamolo dunque il più famoso usurpatore e il più celebre ladro. Non ci lasciamo illudere, che è tempo. Il briccone, se è un grande, si dee chiamare un grande briccone; e la sua fortuna infamia, non gloria» (p. 383).
Inoltre, sono state ricordate le azioni volte al vero bene comune sotto la corona sabauda, fra cui la La Mendicità sbandita col sovvenimento de’ poveri tanto nelle Città che ne’ Borghi, Luoghi e Terre de’ Stati di qua e di là da’ Monti, e Colli di Sua Maestà Vittorio Amedeo, Re di Sicilia, di Gerusalemme e Cipro & c. Come altresì lo stabilimento degli Ospizij Generali e delle Congregazioni di Carità. Per quest’ultimo punto facciamo presente che nella capitale subalpina del XVIII secolo e del XIX operarono i Santi di Torino (non “sociali”, come usualmente viene detto, poiché trattasi di una sottolineatura linguistica di spirito socialista-progressista. Infatti, è d’uopo, che tutti i Santi, quando non sono contemplativi, agiscono nella Carità verso il prossimo) con le loro congregazioni ed ordini religiosi, ognuno dei quali veniva fondato grazie alle patenti regie emesse dalla Corona sabauda. Fra queste opere di Carità, durante l’intervento di chiusura della presentazione del volume “Fu vera gloria?”, è stata menzionata la vandeana Juliette Colbert di Maulévrier, moglie del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, entrambi venerabili.
«Nonostante il presunto tramonto delle ideologie, la rivoluzione francese, fenomeno, per così dire, ancora in corso e in svolgimento, continua a essere interpretata, a livello storiografico e filosofico, attraverso filtri ideologici che quasi conferiscono al passato una dimensione di attualità, attraverso i suoi seguiti individuabili nel presente» (p. 342). Chi continua, la maggioranza degli autori, dei registi, dei giornalisti, dei politici, degli intellettuali, ad osannare le idee che scatenarono la Rivoluzione Francese sotto quel luciferino motto «Liberté, Égalité, Fraternité»[2], motto dapprima nazionale e poi internazionale – rappresentando un valore laicista così grande da travalicare i confini della Francia, divenendo simboli dalla portata e rilevanza massonicamente universali – non fa altro che foderarsi gli occhi di utopie malsane che producono disillusioni a carissimo prezzo.
Jean-Baptiste Lesueur (1749-1826)
Il primo albero della libertà venne messo a dimora a Parigi nel 1790, ne seguirono moltissimi altri in Francia e in Italia e nei vari Paesi fin dove arrivò la Rivoluzione francese; di solito erano piantati nella piazza principale della città: si trattava di un pioppo (il latino “populus” nel duplice significato di popolo) o di una quercia, ma più spesso di un palo coronato dal berretto frigio rosso e decorato con nastri e bandiere, utilizzato per le cerimonie civili e i festeggiamenti. Anche il berretto frigio era un simbolo rivoluzionario (il cappello che nell’antica Roma veniva dato dai padroni agli schiavi liberati). L’albero era l’emblema della libertà repubblicana, ma anche della rivoluzione sociale e al posto del berretto si finì per issare la bandiera rossa
L’albero della libertà al confine della Repubblica di Magonza, durante le Guerre rivoluzionarie francesi (acquerello di Johann Wolfgang von Goethe, 1793)
Ci si chiede: come è possibile che ancora si inneggi ad idee che hanno condotto a massacri, patiboli, ingiustizie spaventose, ad orrori indicibili? Tutto ciò per una falsa idea di libertà? Da una causa discendono gli effetti, quelli che sono stati miseramente osservati, esaminati, sviscerati da studiosi che hanno usato lenti perlopiù deformate dal mito perverso della Rivoluzione Francese, madre del primo genocidio della storia moderna, perpetrato spietatamente contro tutti gli abitanti della regione della Vandea.
Napoleone ha portato morte, ha saccheggiato (neppure i lanzichenecchi hanno osato tanto), ha razziato con ruberie senza precedenti, ha privato della libertà i popoli. Come è possibile tacere tutto questo? È possibile solo in virtù del messaggio che portava l’albero della libertà, che veniva issato dove il suo esercito occupava i territori: messaggio che potremo parafrasarlo con le parole Imagine di John Lennon dal successo epocale, dove l’autore ha ammesso che esse sono vicine al Manifesto del partito comunista, dove è rappresentata una società laica in cui possano trionfare i “valori” del materialismo, dell’utilitarismo e dell’edonismo, auspicati nel testo della canzone, tessuta su una musica “che prende il cuore”. Lennon affermò che il brano era «anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero». La sua compagna Yōko Ono disse che il messaggio di Imagine si poteva sintetizzare dicendo che «siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo», perdendo tutte le ricchezze identitarie, ed è perfettamente ciò che vogliono imporre le menti del globalismo che stiamo vivendo e soffrendo terribilmente oggi (con guerre annesse).
Conselice (Ravenna) 1914: l’albero della libertà, con il cartello «Evviva la rivoluzione sociale»
«Se in Francia la situazione poteva apparire più magmatica e confusa, fuori da essa tutto era (o, almeno, avrebbe dovuto essere) limpido: da una parte vi era una compagine di assalitori, invasori e prevaricatori, dall’altra popoli privati delle loro libertà (quelle concrete), costumi e tradizioni, dominati con approccio coloniale, sfruttando quale cavallo di Troia aleatorie e surrettizie istanze ideologiche di giustizia (e trionfava l’iniquità), uguaglianza (niente più che una parola priva di fattuale consistenza), fratellanza (forse giusto tra gli oppositori contro gli oppressi, quanto meno quando i primi non si ammazzavano a vicenda)» (pp. 343-344).
Tutto questo avvenne e, incredibilmente, avviene ancora oggi: attraverso le maschere illusionistiche e retoriche si è confezionata una civiltà delle menzogne vendute per diritti acquisiti, che vanno consolidati e possibilmente “migliorati” e accelerati con progressive filiazioni rivoluzionarie, si pensi, per esempio, al discorso che passa dal femminismo all’omosessualismo, all’Lgbt per arrivare al transumanesimo, dove l’individuo con i suoi “diritti” e le sue “libertà” è un mero prodotto gestibile dal sistema statale, che decide la sua vita e la sua morte (dall’aborto all’eutanasia). L’eugenetica nazista, tanto (giustamente) disapprovata ed esecrata, è comunque un ambito scientifico che viene espresso in molti laboratori contemporanei, con selezioni accurate: basti citare i massicci aborti che vengono realizzati quando dalle ecografie si rilevano deficit durante la gestazione dei bimbi.
Il prezioso volume “Fu vera gloria?” mette in risalto quanto sia falsa l’idea che il dominio napoleonico portasse libertà e migliorie e, allo stesso tempo, quanto sia falsificante e deformante l’idea che prima dei giacobini e di Napoleone i popoli fossero vessati: «anche il caso degli Stati sabaudi, autonomamente retti, ininterrottamente nell’arco di ottocento anni, da sovrani che con i loro paesi, popoli e nobiltà formavano un insieme coeso in modo peculiare, per non dire unico sulla scena della storia d’Europa. In quel contesto le libertà sostanziali (quelle che interessavano i pragmatici popoli dell’antico regime, vale a dire quelle sancite dagli statuti, dai privilegi, dal rispetto di consuetudini e usi consolidati e pattuiti nell’arco dei secoli) erano rispettate e protette, il benessere era diffuso, assicurato, in particolare nelle vaste aree pianeggianti e collinari, dalla ricchezza stessa del paese, documentabile e documentata, con buona pace degli storici falsificatori di professione, sempre intenti nell’inseguimento e amplificazione di presunte lotte di classe, ingiustizie, stridori e conflitti sociali» (p. 344).
A colpire drammaticamente la prosperità dei territori sabaudi fu, invece, alla fine del XVIII secolo, quando i Savoia dovettero mettere in piedi una estenuante guerra difensiva contro le violente armate rivoluzionarie, con molteplici perdite di vite e di risorse economiche. Tutti i luoghi dominati in Europa da Napoleone dovettero subire soprusi a iosa: sistematiche ruberie di beni civili ed ecclesiastici, soppressioni di ordini religiosi, ladrocini di opere d’arte, persecuzioni ai danni dei Pontefici Pio VI e Pio VII e nel post bonapartismo anche di Pio IX, oggetto di odio da parte di liberali e massoni.
Esiste una pregevole documentazione di prima mano per verificare quale fosse il reale grado di accettazione in loco degli ufficiali, delle truppe, degli amministratori, dei burocrati rivoluzionari e napoleonici: si tratta degli editti pubblicati dalle autorità francesi o repubblicane piemontesi. «La propaganda rivoluzionaria, capillare e insistente, non ha presa sulle popolazioni, la cui resistenza, attraverso diffusi episodi d’insorgenza, darà un contributo sostanziale alla, pur effimera, restaurazione col sostegno austro-russo e con l’intervento del celebre ed esecratissimo (dagli invasori) maggiore Branda de Lucioni» (p.359).
Fu vera gloria? Niente affatto, fu una catastrofe la tirannia di Napoleone, miccia per i seguenti orribili massacri e genocidi. Nessun beneficio, bensì malefici.
È curioso notare che la stessa «La Stampa» abbia ceduto di fronte alle ricerche di una storica, pubblicando il 20 marzo 2021 un articolo dal titolo L’imperatore Napoleone è nudo. La storica Daut contro le celebrazioni “Fu un leader razzista e un genocida”. Eppure ci sono ancora degli irriducibili storici “falsificatori di professione” che ribadiscono che principi e leggi di stampo rivoluzionario prima e “imperiali” dopo hanno “donato” modernità, democraticità, libertà soggettive (relativiste, contro il corso del diritto naturale) prima impensabili. Ed è purtroppo vero: liberalismo/progressismo e tirannia vanno a braccetto. Prima era impensabile, nell’Europa cristiana, immaginare un mondo come quello venuto nel Novecento, quando si è addirittura arrivati all’uso di due bombe atomiche, “grazie” agli egualitaristi e fraternitari Stati Uniti d’America. Ormai, nei nostri giorni, l’immanenza e la mercificazione di tutto e di tutti sovrasta le aspirazioni profonde di ogni persona per costruire un bene comune, che in realtà è palesemente un male comune.
Il 6 marzo 2024 l’AGI ha pubblicato la notizia che in Europa ben nove milioni di adolescenti hanno problemi di salute mentale, mentre la violenza si espande sempre più nelle città e nelle case. Intanto la Francia di questo marzo è il primo Paese al mondo ad aver inserito nella Costituzione la libertà di uccidere nel grembo materno il proprio figlio e Macron ha già annunciato di voler chiedere di inserire la «libertà di ricorrere» all’aborto «nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», perchè «Niente più è acquisito per sempre, tutto è da difendere». La Francia, da oltre 230 anni è maestra universale di morte e perversione.
La tirannia, allora come oggi, continua ad essere simboleggiata con l’albero della libertà, come vediamo dalle illustrazioni di questo articolo, fino a quella di chiusura, che porta l’anno 2022 .
«Se l’Europa figlia della rivoluzione non riscoprirà le proprie radici anteriori, si alzano ormai a dirlo molte voci, non avrà un futuro lineare ma sarà travolta e stravolta» (p. 350).
6 aprile 1797, a Rimini viene innalzato l’albero della libertà (da notare le scritte sul piedistallo: su un lato Religione, sull’altro Libertà)
Targa, realizzata in mosaico, voluta da Viscardo Murri e patrocinata dal Comune di Lanciano. L’inaugurazione è avvenuta il 22 giugno 2022. La targa è stata posta sulla pavimentazione del marciapiede comunale all’intersezione di piazza Plebiscito con corso Roma
[1] Napoleone e il Piemonte. Guasti ed eredità, tra cospirazioni, miti e realtà, a cura di Gustavo Mola di Nomaglio, Michelangelo Fessia e Attilio Offman, Centro Studi Piemontesi, Torino 2023.
[2] Celebre motto risalente al Settecento e associato in particolare all’epoca della Rivoluzione francese, divenuto poi il motto nazionale della Repubblica francese. Appare nell’articolo 2 della Costituzione francese (Constitution française 4 ottobre 1958). La libertà e l’uguaglianza degli uomini sono sancite come principio in Francia nell’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, ma è assente la fraternità; essa compare per la prima volta nei testi del novembre 1848, poi nelle Costituzioni del 1946 e del 1958. Il motto è inciso sul frontone degli edifici pubblici dal 14 luglio 1880.
Napoleone e il Piemonte. Guasti ed eredità, tra cospirazioni, miti e realtà, a cura di Gustavo Mola di Nomaglio, Michelangelo Fessia, Attilio Offman.
Edizione Centro Studi Piemontesi in collaborazione con l’Associazione Amici di Bene.
Dopo la Presentazione di Claudio Ambrogio e Michelangelo Fessia e l’Introduzione di Lodovico Passerin d’Entrèves e Albina Malerba, contiene i saggi: Alberico Lo Faso di Serradifalco, Da Cherasco a Marengo: che cosa c’è da celebrare in Piemonte?; Bruno Taricco, La campagna d’Italia e l’armistizio di Cherasco; Alessandro Puato, La creazione del battaglione dei Tirailleurs du Pô; Giorgio Fea, Il Code Napoléon tra difficoltà di affermazione e sviluppi futuri; Chiara Bovone, Le violette di Napoleone… ma soprattutto gli alberi. La gestione delle foreste nel dipartimento della Sesia; Chiara Devoti, “Allorquando le passioni si raffredderanno colle sue ceneri, batterà l’ora per giudicarlo”: note sul destino più o meno effimero di alcuni beni del soppresso Ordine Mauriziano in età napoleonica; Fabrizio Antonielli d’Oulx, Carlo Antonielli nell’esercito di Napoleone: dalle piantagioni di Santo Domingo alle prigioni inglesi; Giosuè Bronzino, Figure professionali per l’infrastrutturazione delle “terre mauriziane” tra rivoluzione e Primo Impero: il caso di Lucedio; Yves Kinossian; Entre Blietzkrieg et fake news. Napoléon, de l’île d’Elbe à Grenoble (26 février-9 mars 1815); Attilio Offman, Un esempio di araldica napoleonica a Bene: lo stemma degli Oreglia; Roberto Sandri Giachino, L’intrusione napoleonica nello stemma ‘parlante’ di Torino e le armi agamoniche dei Comuni Piemontesi; Gustavo Mola di Nomaglio, In Piemonte dall’oppressione franco-giacobina all’oppressione napoleonica: 1798-1813. Con un’appendice sulla nobiltà piemontese in età “imperiale”.
23,00€ , pp. 467, 2023. ISBN 9788882623371
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