Elisabetta e Varvara, unite dalla corona del martirio

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Santa Elisabetta Fëdorovna  costituisce una figura assai singolare nel vasto panorama della santità nelle Chiese orientali: principessa tedesca di confessione luterana, sposò un membro della famiglia imperiale Romanov e si convertì all’ortodossia. Fattasi poi monaca, morì martire dei bolscevichi e perciò fu canonizzata dal Patriarcato di Mosca. Papa Giovanni Paolo II la considerò degna di venerazione anche da parte cattolica, quale donna esemplare del XX secolo, e la fece inserire nello splendido mosaico-icona della cappella Redemptoris Mater in Vaticano insieme a molti altri santi d’Oriente e d’Occidente di ogni tempo.

 

 

La principessa Elisabetta Alessandra Luisa Alice d’Assia-Darmstadt, figlia del Granduca d’Assia Ludovico IV e di Alice Maud Mary di Gran Bretagna, nacque presso Bessungen, in Germania, il 1° novembre 1864. Il suo casato discendeva da Santa Elisabetta d’Ungheria, langravia di Turingia nel XIII secolo. Sin dalla nascita Elisabetta fu educata nella fede luterana, ma il suo destino era evidentemente legato alla Russia. Il 15 giugno 1884 fu infatti data in sposa al granduca Sergej Aleksandrovic e dieci anni dopo anche la sua sorella minore, Alessandra, andò in sposa all’ultimo zar russo, Nicola II.

Nel 1891 Sergej Aleksandrovic fu nominato governatore generale di Mosca e la moglie dovette seguirlo in tale città. Proprio in tale anno, senza alcuna pressione, bensì spinta da un sincero desiderio del cuore, Elisabetta si convertì all’ortodossia assumendo così il nome di Elizaveta Fëdorovna. Già durante la sua permanenza a Pietroburgo Elisabetta aveva intrapreso numerose attività benefiche, ma dopo il trasferimento a Mosca le opere di carità divennero il principale fine della sua vita. Di animo generoso e sensibile, in lei l’amore per i poveri e gli ultimi si coniugò mirabilmente ad una fede fervente. Nel 1905, in seguito all’assassinio del marito per mano di un terrorista socialista, Elisabetta decise di lasciare il mondo per la vita religiosa: licenziò così il proprio seguito, si ritirò dalla vita mondana e quattro anni dopo fondò a proprie spese nell’attuale capitale russa il Convento della carità di Marta e Maria, auspicando di poter così imitare il modello costituito dalla casa di Lazzaro, Maria e Marta di Betania. Elisabetta tentò di fondere quelli che erano stati i servizi di Marta e di Maria, cioè rispettivamente la compassione operosa e la vita mistica e contemplativa. Sostenuta dal metropolita moscovita Vladimir Bogojavlenskij, la fondazione operata dalla granduchessa divenne in breve tempo attiva in ambito culturale, caritativo, medico ed educativo.

Sul fronte politico bisogna segnalare il tentativo operato da Elisabetta volto a contrastare l’influsso di Rasputin nei confronti della zarina Aleksandra, sua sorella minore, e dello zar Nicola II, ma finì così per urtarsi con la sua congiunta. E’ interessante notare come Elisabetta, pur dedita principalmente ad opere caritative, conservò la stima per la cultura, l’arte e l’antichità. A Mosca aiutò le associazioni scientifiche legate alla Chiesa, attivando in tal modo iniziative volte alla salvaguardia dei monumenti dell’arte cristiana antica.

 

 

Sin dall’inizio della rivoluzione bolscevica i diplomatici le consigliarono di lasciare la Russia, ma ella rifiutò sempre, nonostante il suo destino fosse ormai segnato in quanto sorella della zarina. Nel 1918 Elisabetta Fëdorovna fu deportata insieme alla famiglia imperiale presso Ekaterinburg, negli Urali, seguita dalla consorella Varvara Jakovleva, un’anima pura e profondamente devota verso la sua superiora. Nata nel 1883 circa, minuta in statura e molto religiosa, aveva servito come domestica la Granduchessa prima che questa scegliesse di prendere il velo e seguendone l’esempio aveva preso anch’essa i voti religiosi il 15 aprile 1910.

 

 

Le due prigioniere furono poi trasferite nella vicina cittadina di Alapaevsk con altri principi Romanov: Sergio Mikhaylovich, Ivan Konstantinovic, Igor Konstantinovic, Costantino Konstantinovic e Vladimiro Pavlovich Paley. Durante la ritirata dagli Urali, nel pieno della guerra civile, i comunisti presero a giustiziare tutti i membri della famiglia imperiale caduti nelle loro mani. Il 17 luglio presso Ekaterinburg questa sorte toccò allo zar Nicola II, a sua moglie Alessandra, ai figli Alessio, Anastasia, Maria Olga e Tatiana, ai loro servitori Eugenio Botkin, Alessio Trupp, Ivan Kharitonov ed Demidova. Il giorno seguente Elisabetta, Varvara  (a sinistra, nella foto) ed i granduchi loro compagni di prigionia furono condotti fuori della città di Alapaevsk e gettati in una miniera. Le truppe fedeli allo zar, sopraggiunte sul luogo, scoprirono che in fondo alla miniera Elisabetta, rimasta miracolosamente cosciente, aveva strappato dal proprio abito delle strisce di tessuto per fasciare le ferite di uno dei granduchi. Scesi nella miniera, i soldati trovarono i corpi ormai senza vita. Leggenda vuole che dal profondo della fossa per ore si sentissero inni liturgici cantati dai giustiziati prima che questi, uno a uno, perdessero coscienza e spirassero.

Nacque spontaneamente un culto popolare nei confronti di Elisabetta e Varvara, i cui resti dal 1920 trovarono riposo in un monastero ortodosso femminile sul Getsemani nella Città Santa di Gerusalemme.

Riconosciuto il loro martirio, furono canonizzate il 19 ottobre 1981 da parte della Chiesa Ortodossa Russa all’Estero, insieme a tutti gli altri membri della famiglia imperiale ed i loro servitori uccisi in quei due giorni, ed infine nel 1992 anche il Patriarcato di Mosca le proclamò Sante. Elisabetta e Varvara ora e per l’eternità dalla Russia brillano come fari nella notte per illuminare con la luce di Cristo l’Europa, un tempo cristiana.

 

Icona della Famiglia Romanov, a destra, accanto allo Zar Nicola II, le martiri Elisabetta e Varvara

 

 

Sepoltura di Santa Elisabetta Fëdorovna nel Monastero ortodosso femminile sul Getsemani,

nella Città Santa di Gerusalemme

 

 

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