Avvertenza
Il presente contributo non vuole essere di tipo storico, poiché già altri si sono occupati di questo argomento – ed altri se ne occuperanno – con migliori credenziali scientifiche in campo storico rispetto alle mie.
Ciò che vorrei invece illustrare dal canto mio, che è quello in primis del glottologo-filologo e in secundis dello storico della letteratura, è come alcuni scrittori, sia in lingua nazionale che in lingua locale (dialetto), abbiano colto e commentato gli avvenimenti di cui essi furono testimoni (ed alcuni anche protagonisti); di come poi abbiano divulgato le loro idee presso il pubblico, lasciandoci così una testimonianza, preziosa, non solo dei fatti storici, ma anche, e soprattutto, delle loro ripercussioni sulla gente “comune”, al di là di quanto gli storici “di professione”, coevi alle vicende e successivi, ci abbiano poi raccontato[1].
Premessa
Fedele a quanto ho dichiarato poco supra, mi limito a richiamare alla memoria, sinteticamente, gli avvenimenti salienti del periodo storico in cui agirono gli scrittori di cui parleremo.
Le vicende di cui ci occuperemo si collocano, relativamente al Regno di Sardegna, durante i regni di Vittorio Amedeo III (1726-1796; regnante dal 1773 al 1796), Carlo Emanuele IV (1751-1819; regnante dal 1796 al 1802) e, in parte, Vittorio Emanuele I, fratello del precedente (1759-1824; regnante dal 1802 al 1821).
Quanto ai veri e propri avvenimenti, essi possono essere riassunti nella seguente periodizzazione:
1793-1794: guerra tra il Regno di Sardegna e la Francia rivoluzionaria per il possesso della Savoia e di Nizza;
1796 (aprile-maggio): nuova guerra tra Francia rivoluzionaria e Piemonte, costituente la 1a parte della campagna napoleonica d’Italia;
1797: il Piemonte è autonomo, nonostante la sconfitta nella guerra precedente, ma agitato da ribellioni popolari;
1798-1799 (dicembre-maggio): 1a repubblica giacobina piemontese;
1799-1800 (maggio-maggio): restaurazione grazie alle armate austro-russe e imprese dei contro-rivoluzionari (i cosiddetti “Branda”);
1800-1802 (giugno-[aprile 1801]-settembre): 2a repubblica giacobina piemontese, detta popolarmente dei “Tre Carli”;
1802 (11 settembre)-1814 [1815]: annessione definitiva del Piemonte alla Francia fino alla caduta, temporanea e poi definitiva, di Napoleone.
Le due guerre tra Regno di Sardegna e Francia rivoluzionaria, con le repubbliche giacobine sue alleate, e la fine momentanea della monarchia sabauda (1792-1798)
Tra il 1792 ed il 1793 Nizza e la Savoia passano alla Francia rivoluzionaria dopo vari scontri militari, il principale dei quali fu quello di Authion[2], mentre in Piemonte scoppiano alcuni tentativi rivoluzionari (a Carignano nel 1793) soffocati però dalle stesse popolazioni e dalle truppe fedeli al re[3].
Perse Nizza e la Savoia, il regno sabaudo dovette poi affrontare, tra il 1796 e il 1798, un’altra guerra contro le Repubbliche giacobine che erano sorte nel frattempo in Liguria, aiutate dalla Francia rivoluzionaria. In particolare, nel 1796 la Francia, con l’esercito guidato dal giovane Napoleone Bonaparte, attacca il Piemonte dalla Liguria, giungendo fino ad Alba, Cherasco, Fossano (battaglie di Cengio, Cosseria/Montenotte, Millesimo, Ceva). Conseguenza di queste sconfitte sabaude è la nascita della Repubblica giacobina di Alba (sotto l’egida di Ignazio Bonafous e Giovanni Antonio Ranza), fino all’armistizio di Cherasco tra Carlo Emanuele IV e Napoleone (27 aprile 1796), in conseguenza del quale va alla Francia tutta la parte sud-orientale del Piemonte, quella cioè compresa tra il fiume Stura ed Alessandria, più le fortezze di Ceva, Cuneo e Tortona. Le condizioni dell’armistizio vengono confermate il 15 maggio successivo con la pace di Parigi. Con il mese di giugno si esaurisce l’esperienza della repubblica giacobina di Alba.
Nel 1797 vediamo un tentativo insurrezionale in val d’Ossola, ad Ornavasso, annullato dall’esercito regio, con 180 morti sul campo e 400 prigionieri, di cui 74 poi fucilati a Domodossola ed a Casale. Nel mese di luglio assistiamo poi a varie ribellioni per le quali la causa scatenante fu il prezzo del pane: a Torino (nella quale fu coinvolto il medico e scrittore Edoardo Ignazio Calvo), Fossano, Mondovì, Racconigi, nuovamente (dopo quella del ’93) a Carignano, dove si ebbero 12 fucilati, Asti, Novara, Moncalieri[4], Biella. Tutte queste rivolte vengono soffocate tra luglio e agosto.
Nel 1798 truppe della Repubblica ligure insieme a giacobini piemontesi invadono il territorio sabaudo, e precisamente a Carrosio, nell’alessandrino. Conseguenza di questa invasione fu la guerra tra il Piemonte e la Repubblica giacobina ligure. Tra le principali operazioni militari ricordiamo, nel mese di luglio, la vittoria sabauda a Serravalle Scrivia. A questo punto i francesi si propongono come intermediari ed occupano la cittadella di Torino, che resta in mano loro come premessa alla loro conquista dell’intera città nel mese di dicembre. Infatti in questo mese abbiamo l’attacco francese proveniente dalla Repubblica Cisalpina (con l’attraversamento del Ticino), a cui seguono l’occupazione di Alessandria, di Vercelli e di Susa, fino a quella della capitale stessa (il giorno 9) e l’innalzamento dell’albero della libertà nel cortile dell’università. A questo punto re Carlo Emanuele IV rinuncia al trono, recandosi prima a Firenze e poi in esilio in Sardegna (24 febbraio 1799), mentre in Piemonte si stabilisce un governo provvisorio di 15 membri, voluto dal generale francese Joubert, detto della “Nazione Piemontese”[5].
La cosiddetta 1a Nazione Piemontese (dicembre 1798-maggio 1799)
Il governo della “Nazione Piemontese” fu costituito da 15 membri con un Presidente nominato a turno ogni 10 giorni, 4 ministeri, 4 dipartimenti (Eridano, cap. Torino, Sesia, cap. Vercelli, Stura, cap. Mondovì, e Tanaro, cap. Alessandria). La bandiera adottata fu, a somiglianza della Francia, quella tricolore, ma coi colori blu, rosso ed arancione.
Napoleone vieta l’unione con altre repubbliche giacobine, lasciando la scelta tra indipendenza o unione con la Francia, ipotesi voluta fortemente dal Ranza, votata dal governo (23 gennaio) e vittoriosa nelle votazioni del febbraio, ratificate e proclamate nell’aprile, quando votarono a favore non certo tutto il popolo, ma i consigli comunali e gli altri corpi costituiti, come Università ed Accademie. Aggiungiamo ancora che molti contrari furono incarcerati.
Tra la fine del ’98 e il gennaio ’99 scoppiarono le prime rivolte contadine, nei dintorni di Asti, Alba (in particolare a Neive) ed Acqui, stroncate dal governo con l’aiuto dei francesi. Altre seguirono dopo la ratifica dell’annessione alla Francia: ad Acqui, nelle Langhe, nel Monferrato (a Strevi), al grido di “viva il re, viva l’indipendenza, viva noi” (cfr. la “Relazione del cittadino Colla” del 12 ventoso anno VII = 2 marzo 1799). Queste rivolte vennero stroncate dal generale Grouchy, che si era già “distinto” in Vandea, con un totale di oltre 400 morti, Strevi bruciata dai francesi e la fucilazione del medico Porta. Nacquero poi altre rivolte sulle montagne cuneesi, dove già ne erano scoppiate dopo il passaggio di Nizza alla Francia nel 1792/93, nelle Langhe (Narzole) ed in valle d’Aosta (Champorcher, Donnas e Verrès), con la presa da parte dei rivoltosi del forte di Bard. Nei mesi di aprile e maggio del ’99 queste ribellioni si mescolano all’arrivo delle truppe austro-russe.
Nel corso dei circa sei mesi della prima “Nazione Piemontese” è di particolare interesse una sorta di “questione della lingua”, relativa cioè all’uso, come lingua di stato della “Nazione”, dell’italiano o del francese. Il francese è sostenuto da alcuni membri del governo per le sue “affinità” col piemontese (opinione diversa da quella del Denina[6] nel suo libro La clef des langues del 1804). Alla fine si decide per il francese come lingua ufficiale dello Stato.
A proposito delle vicende della prima “Nazione Piemontese” possiamo leggere due testimonianze, la prima di uno storico del Novecento (Francesco Cognasso; Pinerolo, 1886-Torino, 1986) e l’altra di un “antiquario” di cose torinesi e piemontesi, anch’egli vissuto tra XIX e XX secolo, non un vero e proprio storico, ma comunque persona acuta e penetrante nei suoi giudizi, cioè Alberto Viriglio (Torino, 1851-1913)[7].
«Quando nel 1799 nella breve occupazione austro-russa si indagò sul movimento giacobino del 1798 si constatò come fossero pochi i responsabili della rivoluzione. Anche a Torino come nelle altre città piemontesi si trattava di poche decine di individui: nobili declassati, borghesi, professionisti senza lavoro, preti e frati in rotta con la chiesa. Molti gli ingenui ubriacati dalla retorica rivoluzionaria. Pochi certo partecipavano a questa ondata con sincerità: i più erano spinti dal desiderio di piacere ai nuovi dominatori, molti da leggerezza impulsiva. Liberté, Egalité, Fraternité era scritto dovunque, ma l’arguzia del popolo commentava: ij Fransèis an caròssa e noi a pe». F. Cognasso, Storia di Torino; Torino, 1934 (rist. anast. Firenze 1978), p. 391
«Nell’inizio [1798] della nuova èra diversi erano i pareri e varie le aspirazioni circa la sorte del nostro paese. Gli Italici opinavano per lo stabilimento di una repubblica di tutta l’Italia; gli anelanti alla indipendenza dalla Francia pensavano ad una repubblica piemontese [Calvo]; alcuni patrocinavano l’unione colla Cisalpina, altri finalmente (ed era il partito ufficiale) volevano la riunione pura e semplice colla Francia». A. Viriglio, Vecchia Torino; Torino 1905 [rist. in Torino e i torinesi; Torino 1970], p. 15
A riguardo poi delle rivolte contadine scoppiate in molte località del Piemonte, ma specialmente in quello meridionale e nella Valle d’Aosta, possiamo riportare l’interpretazione che, data dallo storico locale biellese Gustavo Buratti (1932-2009)[8], si pone tra le due classiche, e tra loro antitetiche, che vedono in queste rivolte contadine o la reazione conservatrice dei piccoli proprietari terrieri contro le idee rivoluzionarie che avevano preso il potere (origine di “destra”) o, al contrario, come l’azione diretta e violenta dei contadini più poveri che vedevano nell’istituzione del governo repubblicano una sorta di fallimento della rivoluzione radicalmente intesa (origine di “sinistra”). Ci si ribella invece – secondo Buratti – per un’antica volontà di indipendenza montanara, simboleggiata in qualche modo da uno dei gridi di ribellione più diffusi, cioè “viva noi”, in opposizione alle città[9].
La Restaurazione grazie all’esercito austro-russo: maggio 1799-maggio 1800
Il 28 aprile del 1799, in seguito alla sconfitta napoleonica del giorno precedente a Cassano d’Adda ad opera degli eserciti alleati austro-russi comandati dal Suvarov, questi entra a Milano, insieme con il maggiore Branda de’ Lucioni e la sua “massa cristiana”[10].
Nel maggio successivo Branda coi suoi ussari entra a Novara ed a Biella, donde lancia il suo proclama ai cattolici. A Chivasso, quindi ormai nei pressi di Torino, ordina l’arruolamento obbligatorio ed il 25 dello stesso mese entra, insieme agli austro-russi, a Torino, abbandonata dal governo repubblicano e dai francesi, che fuggono prima a Pinerolo e poi a Grenoble. Infine il 16 di giugno gli Austro-Russi smobilitano la “massa cristiana” forte di circa 10.000 uomini[11].
Il governo austro-russo sul Piemonte durerà circa un anno, fino cioè alla vittoria napoleonica di Marengo (giugno 1800), durante il quale i Savoia non tornarono dall’esilio poiché, pur volendolo il Suvarov, gli austriaci vi si opposero.
Di questo periodo sempre il Viriglio (op. cit., p. 37) ci riporta un interessante epigramma francese, relativo all’instabilità delle opinioni del tempo, opera del futuro re Carlo Felice:
«Si Bonaparte approche
Je suis de son parti,
S’il reçoit la taloche
Je ne suis pas pour lui.
Je porte dans ma poche
L’aigle et les fleurs de lys»
(Se Bonaparte si avvicina/ Io sono del suo partito,/ Se si prende una sberla/ Io non sono dalla sua parte./ Io porto in tasca/ L’aquila e i fiori del giglio)[12].
La cosiddetta 2a Nazione Piemontese: giugno 1800 (Marengo)-settembre 1802 e successiva annessione alla Francia: 1802 (decretata però già ad aprile 1801)
Il principale personaggio favorevole all’annessione fu Carlo Bossi, mentre propendeva per una repubblica indipendente il conte Cavalli d’Olivola.
Al governo, su richiesta del generale francese Jean Baptiste Jourdan (1762-1833), che governava il Piemonte, fu posto un triumvirato esecutivo (1800/1801) formato da Carlo Botta (1766-1837), Carlo Bossi (1758-1823) e Carlo Giulio (1757-1815), triumvirato detto scherzosamente dal popolo, per il medesimo nome di battesimo dei suoi componenti, dei “Tre Carli”.
Scoppiarono ancora rivolte in Valle d’Aosta ed in Canavese (1801: forse per la sottrazione delle campane e per motivi autonomistici) e in altre parti della regione si diffuse ampiamente il “brigantaggio”, che durò almeno fino al 1804. Dal punto di vista linguistico il francese divenne la lingua ufficiale, per essere poi obbligatoriamente insegnata nelle scuole a partire dal 1802[13].
Bibliografia
C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814; Parigi 1824
M. Viglione, Rivolte dimenticate; Roma 20093
M. Viglione, Le insorgenze controrivoluzionarie nella storiografia italiana: dibattito scientifico e scontro ideologico (1799-2012); Firenze 2013
G.Vaccarino, I giacobini piemontesi (1794-1814), 2 voll.; Roma 1989
[1] Ovviamente lo stesso tipo di ricerca, e di analisi, potrebbe essere fatta per qualunque altra regione d’Italia, partendo magari proprio dal più famoso poeta dialettale italiano della prima metà del secolo XIX, cioè il romano (e romanesco) G. G. Belli (1791-1863), che nei sui sonetti cita sia i “giacubbini” che “Napulione”.
[2] Abbiamo notizie su questi scontri, e in particolare di quelli sulle Alpi di Valle d’Aosta e Savoia, cui partecipò il marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, padre dei più noti Massimo, Luigi e Roberto, dall’opera autobiografica I miei ricordi di M. d’Azeglio (libro I, cap. 2, passim).
[3] A Torino il giacobino, e futuro storico, Carlo Botta (1766-1837) fu arrestato nel 1794 in seguito alla scoperta di una congiura di cui egli faceva parte; dovette poi fuggire esule l’anno successivo.
[4] L’insurrezione in questa città alle porte di Torino (con un famoso castello Reale) si concluse con la morte del docente al Collegio cittadino e letterato Carlo Tenivelli di San Giorgio Canavese (1754-1797), discepolo del Denina e maestro del Botta.
[5] Le testimonianze letterarie per alcuni di questi avvenimenti sono: G. Cantù (?): I miliziani carignanesi, 1793, e Rime di Carignano, agosto 1797 (negli ultimi versi è interessante la richiesta di perdono per i meno implicati: ciò spiegherebbe il cambio di bandiera di questo personaggio negli anni successivi; cfr. infra, in questa stessa nota); C. Casalis (?): Rime di Moncalieri (1797); alcuni altri testi poetici mss anonimi. Il Giuseppe Cantù indicato come ipotetico autore delle rime carignanesi fu prima fedele al re, sia nel 1793 che nel 1797, poi Commissario napoleonico di polizia, sempre a Carignano, nel 1813. Carlo Casalis, a cui ipoteticamente si assegnano le rime sull’insurrezione di Moncalieri, nacque nel 1768 e morì nel 1846.
[6] Revello (Cuneo), 1731-Parigi, 1813.
[7] Entrambe le testimonianze (e specialmente la prima) ci confermano una situazione molto comune nelle “rivoluzioni”: pochi sono coloro che credono in essa (per fede o per calcolo), mentre la maggior parte delle persone tende a lasciarsi trascinare dai pochi esagitati, senza una loro propria opinione se non quella che sia meglio seguire chi, almeno in quel momento, sembri essere il più forte.
[8] Cfr. «Ij Brandé, armanach ëd poesìa piemontèisa» 1997, pp. 57-59.
[9] Altre fonti scritte per le vicende di questo periodo sono: E. Calandra, La bufera (1898 e 19112) e i racconti di Vecchio Piemonte (1889); E. I. Calvo, 4 componimenti in piemontese del 1798-99: Campana a martel pr’ij piemontèis; L’auròra dla libertà piemontèisa; Passapòrt dj’aristocrat; Sairà dij piemontèis; Anonimo, La Bissa copera për pòsta; Anonimo, Canzone per i soldati piemontesi; Felice Mattone, Canzone contro la nobiltà, 21/1/1799, in A.S.T. Coll. Simeom 8140; Giuseppe Cantù, Testament d’un pito aristocràtich, 4/2/1799; alcuni altri componimenti anonimi mss.
[10] Di questa controversa figura di militare e di capo-popolo si sa che, di famiglia nobiliare originaria di Abbiate Guazzone (Varese), nacque o a Milano o a Winterberg, in Boemia, intorno al 1740; fu maggiore dell’esercito austriaco, venendo fatto prigioniero dai francesi nel 1796. Dopo le vicende piemontesi se ne hanno poche notizie fino alla morte, avvenuta a Vicenza nel 1803.
[11] Ancora Gustavo Buratti (op. cit.) esprime la sua opinione su questa smobilitazione forzata: essa sarebbe avvenuta per il timore che la “massa cristiana” potesse fomentare una rivolta anti-nobiliare.
[12] Anche per questo periodo abbiamo alcune interessanti testimonianze letterarie, quali C. Botta, Novelletta piacevole di Simplicio, post. 2011; Anonimo, Canzonetta nuova, Bergamo 1799 (aprile), in A.S.T. Coll. Simeom 8209; Anonimo, Canson neuva 6 giugn 1799, in A.S.T. Coll. Simeom 8179; Anonimo, Na croata a le fomne piemontèise ch’a van vëstìe a la giacobin-a, in A.S.T. Coll. Simeom 8214; G. Bertolino, Canzonetta nuova, 1799 (giugno/luglio), in A.S.T. Coll. Simeom 10169; idem (?), Canzonetta nuova sopra il Giacobin Pean di Roccavione, in A.S.T. Coll. Simeom 8211; C. Nigra, Canti Popolari del Piemonte; Torino 1888 (rist. Torino 2009), nr. 145 (I giacobini di Torino).
[13] Testimonianze letterarie relative a quest’ultimo periodo sono: E. Calandra, Juliette (1909); E. I. Calvo, Su ij prèive (1800-01), Folìe religiose (1801); XII Favole morali (I-VI: 1802; VII-XII: 1803); Petission dij can (1803); A Mëssé Edoard (1803); Artaban bastonà (1804); Anonimo (ma forse E. I. Calvo), Le ridicole illusioni (1801-02); Anonimo, Canzone sël smantelament dij bastion; in A. Viriglio, Voci e cose del vecchio Piemonte; Torino 1917 (rist. Torino 1970), pp. 257-259; C. Nigra, Canti Popolari del Piemonte, cit., nr. 146 (I coscritti di Bonaparte) e nr. 147 (Napoleone).