“Branda” e giacobini in Piemonte – I

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1798-1799 (dicembre-maggio): 1a repubblica piemontese

 

Accademia delle Scienze di Torino
Fondo Armando mss. III 334

 

[Secolo XVIII: sonetto piemontese]

Sonèt

É-lo pijà o nen pijà col gran omnon

Ch’a l’ha fàit tramolè l’Adige e ’l Pò;

É -lo o non bosarà col gran floton

Ch’a vorrìa che tut ’l mond a fussa sò?

 

Catalan da banda a dis che ’d nò,

Bran (?) d’l’àutra a dis ch’a l’é un cojon.

Ma tuti coj ch’a san conosse lò

A dùbito pa un pluch dl’afé ’d Nelson.

 

A lo dà la gasëtta d’Inghiltèra,

Cola ’d Venessia e fin ’d Cavorat[1]

A l’ha dit l’àutr di la lavandera.

 

Òh, ma fotre, finila d’andé mat

S’j’Inglèis a’l l’han pa ancor an caponera[2]

A j’é ’l gran Turch ch a-j farà tiré ij pat[3].

 

Inedito

Il tema centrale del sonetto anonimo, infarcito di italianismi (cosa comunque al tempo non rara) e segnato da una metrica talora zoppicante, ma con qualche concessione ad un lessico tra il popolare ed il volgare, è la satira nei confronti di Napoleone. Dai riferimenti interni (la flotta, gli Inglesi, il gran Turco) sembrerebbe da assegnare al tempo della battaglia di Abukir (1798) o a vicende di poco precedenti.

 

Traduzione

È preso o non è preso quel grand’uomo/ Che ha fatto tremare l’Adige e il Po;/ È o non è buggerata quella grandissima flotta/ Che voleva che tutto il mondo fosse suo?// Catalan (?) da una parte dice di no,/ Bran (?) dall’altra dice che è un coglione./ Ma tutti coloro che lo sanno capire/ Non dubitano per nulla del fatto di Nelson.// Lo riferisce la gazzetta d’Inghilterra,/ Quella di Venezia e persino quella di Cavoretto/ Ha detto l’altro giorno la lavandaia.// Oh, ma capperi, finitela di diventare matti/ Se gli Inglesi non ce l’hanno ancora in galera/ C’è il gran Turco che lo farà crepare.

 

Biblioteca Civica di Savigliano (Cn)
Fondo Avenati ms. 12242

[altra copia: ASCT, coll. Simeom nr. 10157]

 

Pubblicato da G. Buratti, in Quand ël Piemont a l’era sot ël giov ëd Fransa (Doe poesìe nen conossùe) [Quando il Piemonte era sotto il giogo della Francia (Due poesie non conosciute)], in «Ij Brandé, armanach ëd poesìa piemontèisa» 1997, p. 58.

 

Sonetto Piemontese XXXII

 

Democrates, colons, paralisie

Régénération, éléctrisé,

Réorganisation, égalité,

Directoire, district, anti-anarchie[4],

 

Club, tricolore, et integrante patrie,

Notables, convention, fraternité,

Despotes, Aristocrate, et liberté,

Cocarde, arbre, bonnet, regomanie[5].

 

Oh fotre, é-la finìa? Lanterne, Guillote,

Belge, Allobroge[6], Savoisien, Niçois

Ecco la neuva crusca dij cravotte[7].

 

Òh Crusca bosaron-a! it has vërsà

Tant sangh për man dij bòja e ij sanculotte

Ch’a l’é ’l Diavo sigur ch’at ha anventà.

 

Guardé ben patriòt

Ch’s’a ven-o an Piemont sti cruscador

Av voltran l’ass da piche ant l’ass da fior[8].

 

[databile intorno al 1798?]

Varianti presenti nel testo Simeom

Titolo: La Crusca neuva fransèisa-Sonat

v. 8 Civisme; v. 9 guillot; v. 11 la crusca neuva; cravòt; v. 16 Ch’s’an Piemont a-i ven sti cruscador; v. 17 An voltran

 

Sonetto caudato, o sonettessa, di 17 versi di autore anonimo, in cui ritroviamo un’eco dei dibattiti del tempo sull’uso della lingua francese, che si voleva imporre (e di lì a poco si imporrà) come lingua ufficiale del Piemonte. L’autore, anti-giacobino, ironizza sia sulle azioni che sulla lingua dei rivoluzionari.

 

Traduzione

Democrates, colons, paralisie/ Régénération, éléctrisé,/ Réorganisation, égalité,/ Directoire, district, anti-anarchie,// Club, tricolore, et integrante patrie,/ Notables, convention, fraternité,/ Despotes, Aristocrate, et liberté,/ Cocarde, arbre, bonnet, regomanie// Oh capperi, è finita? Lanterne, Guillote,/ Belge, Allobroge, Savoisien, Niçois/ Ecco la nuova crusca dei capretti.// Oh Crusca buggerona! hai versato/ Tanto sangue per mano dei boia e dei sanculotti Che è di sicuro il Diavolo che ti ha inventato.// Fate attenzione patrioti/ Che se vengono in Piemonte questi cruscanti/ Vi trasformeranno l’asso da picche nell’asso da fiori (cioè faranno andare le cose di male in peggio).

 

 

1799-1800 (da maggio a maggio): restaurazione austro-russa e guerra dei cosiddetti Branda.

 

Canzoni popolari (ed. C. Nigra), nr. 145 (pag. 646)

 

I giacobini di Torino

 

Sti Giacobin ’s fasìo rason, vorèivo ’lvé la religion.

Lor i fasìo na gran festa a prèive e fra copé[9] la testa.

La libërtà l’é andà a la fin a confusion dij Giacobin.

’L general Russ[10] a l’é rivà, sot a Turin as je fërmà;

Aa je fërmà na gran batarìa, bombe e granade e artijerìa;

A n’un batìa a bala afoà, la sitadela é stàita pijà.

I-i son sti sgnori Giacobin, i vorìo esse padron ’d Turin.

“Ò Giacobin, l’hèi ’vù na rota, i l’hèi pijave na bela bòta;

E Giacobin e patriòt[11], i ve butroma tuti al cròt”.

In questa canzone, raccolta a La Morra, presso Alba, trasmessa da Tommaso Borgogno, notiamo in particolare l’avversione popolare (propria particolarmente delle campagne) nei confronti dei giacobini, la cui colpa principale, messa in evidenza nel testo, era l’avversione per la religione ed i religiosi. Fin dal titolo, poi, si nota la volontà di distacco morale tra la città (Torino, a cui appartengono i giacobini) e la campagna tradizionalista e fedele al passato, ma non sanguinaria come gli avversari: i giacobini volevano ghigliottinare preti e frati, mentre i lealisti si limiteranno a mettere in prigione i colpevoli[12].

 

Traduzione

Questi Giacobini si facevano ragione, volevano togliere la religione./ Essi facevano una gran festa a tagliare la testa a preti e frati./ La libertà è arrivata alla fine a confusione dei Giacobini./ Il generale Russo è arrivato, sotto Torino si è fermato;/ Si è fermata una gran batteria, bombe e granate e artiglieria;/ Batteva a palla infuocata, la cittadella è stata presa./ Sono questi signori Giacobini, volevano essere padroni di Torino./ “O Giacobini, avete avuto una sconfitta, vi siete presi una bella botta;/ E Giacobini e patrioti, vi mettremo tutti in prigione”.

 

Carlo Botta (1766-1837)
Novelletta piacevole di Simplicio (1799)

 

Composta nel 1799 dal Botta a Grenoble, durante il suo esilio seguito all’arrivo degli Austro-Russi in Piemonte, rimase inedita fino al 2011. Il testo è ricavato da un ms. presente alla Biblioteca Civica Centrale di Torino.

In essa l’Autore, assumendo la figura del medico Simplicio, anch’egli esule in Francia poiché giacobino, ci presenta, nelle primissime parti, un quadro del Piemonte successivo alla sconfitta giacobina e ci descrive brevemente la vita degli esuli piemontesi (e non solo) in Francia.

Ecco, di seguito, alcune parti dell’incipit della novella, boccacciana nello stile, nella lingua e nei contenuti, incipit in cui si narra di come Simplicio, e l’amico di esilio, il romano Totolo, avessero dovuto lasciare l’Italia per la Francia.

 

Nel tempo, in cui gli eserciti francesi abbandonavano precipitatamente le terre italiane, cacciati dall’armi barbare venute dal Settentrione, tutti coloro fra gl’italiani, i quali spinti dal desiderio di giovare ai loro paesani e fondandosi sulle promesse dei francesi seguirono le parti di questi, erano anch’essi costretti di abbandonare la patria, le famiglie, gli averi, riducendosi nelle terre della Repubblica francese, per isfuggire la rabbia tedesca e russa che gli voleva strascinare a coda di cavallo. Fra gli altri un certo Simplicio de Simplici nato a Roverbella nel Mantovano ebbe a capitare a Grenoble, antica e famosa città fondata dall’Imperatore Graziano sulle rive del fiume Isera. O fosse influsso di quel cielo caliginoso e paludoso, dov’ebbe a nascere, ovver del sangue della stirpe sua, la quale forse nel progresso del tempo abbia con ragione dato luogo a quel nome, e da qualunque altra causa venisse prodotto l’effetto, era questo Simplicio de’ Simplicj uomo bonario anzichenò e di dolce e facile natura dotato. La lunga sperienza delle cose non l’aveva ancora, com’era dovere, fatto accorto della nequizia umana, ed era inclinato a vedere in altrui quella dabbenaggine ch’egli aveva e gli altri non avevano del pari. […] Tal’era dunque il Signor Simplicio de’ Simplicj, che né l’esiglio, né la sua speranza, che gli rimaneva di riveder la sua Mantova, né la pochezza della fortuna non avevano punto potuto cambiar d’animo o insegnargli senno.

Venne poi un mese dopo nella stessa città di Grenoble un altro curioso accidente per nome Totolo de’ Bandi nato nel borgo di Fiorenza, uomo di fervidissima immaginativa dotato e di molta eccellenza nell’arte della scoltura, che con molta laude aveva esercitato lungo tempo nella grande città di Roma. […]; ei fuggì da Roma, allorquando i barbari s’impadronirono del profanato Campidoglio [aggiunta in margine destro: e poco mancò non fosse appiccato sulle forche nella Città d’Arezzo]; e nella Liguria di levante ebbe ad essere strascinato a coda di cavallo con la corda al collo per ben due miglia, e seguitava arrancando pel dolore delle piante de’ piedi rotte dal lungo viaggio pedestre, il cavaliero, e si raccomandava ad ognissanti. Finalmente arrivò in Grenoble zoppicando con certi calli sotto i piedi che parevano le gallozzole delle paludi, sfinito e magro, come la buscalfana di Messer Ridolfo.

 

Anonimo

ASCT, Coll. Simeom, nr. 8209

Pubblicato da G. Gasca Queirazza, Voci di consenso e di plauso, di polemica, di irrisione e di satira (1798-1814), in Ville de Turin, vol. misc. a cura di G. Bracco; Torino 1990; vol. 2°, p. 152 e da G. Buratti, Tilèt e canson ant nòsta lenga al temp ëd la nassion piemontèisa e dj’Àustro-russi [Manifesti e canzoni nella nostra lingua al tempo della nazione piemontese e degli Austro-russi], in “Atti del XIII Congresso internazionale di studi sulla lingua e la letteratura piemontese” (Torino 11-12 maggio 1996); Ivrea 1998, pp. 321-323.

 

Canzonetta nuova sopra la vittoria di S.A.R. Maestà Francesco II contro i Francesi

Ij Fransèis son stàit tirann

J’han robà dné e campan [vv. 15sg.]

 

Cavaj e caròsse j’han mna via

Da Milan e da Pavìa,

Da Pavìa fin a Turin

Sensa paghé ij viturin. [vv. 17-20]

 

Ij Fransèis j’han mal pensà

A mné via ’l Papa, fé cassé ij Fra;

As së chërdìo de fesse onor,

E peui j’han avù de disonor

Lor së chërdìo ’d balé na dansa,

E peui j’han avù ampò ’d mal ’d pansa [vv. 33-38]

 

I parlo la sèira, e la matin

Djë sgnori Giacobin

Ch’a portavo col vestidon

Anca Lor fasìo ’l sò flon

E adess jë vnuni l’ocasion

De calé giù gale e boton [vv. 41-46]

 

Turinèis e Alessandrin

J’ero vari Giacobin

E taj Sgnori Turinèis

Cortrëgiavo co’ij Fransèis

Ma je rivà l’Imperator

J’ha fàit prové ’l dolor

Adess a’n peulo pì nen crijé

Viva l’arbre de la Liberté [vv. 49-56]

 

Si tratta di un testo, ovviamente anonimo (come nella migliore tradizione), in ottave a rime baciate, di scarsissimo (se non nullo) valore letterario, scritto da un piemontese presumibilmente fuggito in Lombardia al tempo dei giacobini (il foglio volante che lo riporta è edito a Bergamo), per celebrare la vittoria degli Austro-Russi sui Francesi. In base a suoi elementi interni il testo fu presumibilmente composto tra l’entrata in Milano dei vincitori (28 aprile 1799) e la presa di Torino da parte dei medesimi (25-26 maggio dello stesso anno).

La lingua è il piemontese letterario con influssi delle parlate del Piemonte orientale; il fatto poi che si sottolinei come i torinesi fossero per la maggior parte filo-giacobini sembrerebbe confermare questa ipotesi.

Alcuni momenti interessanti riguardano in particolare l’osservazione che i giacobini erano ladri, prepotenti e nemici della religione.

 

Traduzione

I Francesi sono stati tiranni/ Gli hanno rubato soldi e campane [vv. 15sg.]// Cavalli e carrozze li hanno portai via/ Da Milano e da Pavia,/ Da Pavia fino a Torino/ Senza pagare i vetturini. [vv. 17-20]// I Francesi hanno mal pensato/ Di portar via il Papa, far cacciare i Frati;/ Si credevano di farsi onore,/ E poi hanno avuto disonore/ Si credevano di ballare una danza,/ E poi hanno avuto un po’ di mal di pancia [vv. 33-38]// Parlo la sera, e la mattina/ Dei signori Giacobini/ Che portavano quel vestone/ Anche Loro facevano i prepotenti/ E adesso è arrivata l’occasione/ Di tirar giù gale e bottoni [vv. 41-46]// Torinesi e Alessandrini/ Erano veri Giacobini/ E tali Signori Torinesi/ Corteggiavano i Francesi/ Ma è arrivato l’Imperatore/ Gli ha fatto provare il dolore/ Adesso non possono più gridare/ Viva l’arbre de la Liberté [vv. 49-56]

 

Anonimo

ASCT, Coll. Simeom, nr. 8179

Pubblicato da G. Gasca Queirazza, Voci di consenso e di plauso, cit., pp. 153sg. e da G. Buratti, Tilèt e canson, cit., pp. 323-326.

 

Canson neuva su l’aria “Deje ai Nòbil, massé ij Nòbil”

6 giugn 1799. Neuv stil

 

Finalment a l’era temp

Che sta canaja andèissa via,

S’un i-j mostrava nen ij dent

Nò ch’mai pì ’s në dësfasìa:

Ah birbant, ciamé le bote,

[…][13]

Scapé pura, Patriòt[14],

A l’é temp ch’i meni ’l plòt.

Ij Fransèis, costi furbass,

Gastognand tuti ij canton,

A l’han pròpi avù bon nas,

L’han sërnù tuti ij birbon[15],

Ma ’nt ël bon a j’han posaje,

Che maleur a j’é arivaje,

A son tuti fòra ’d lor,

L’han finì ’d fé j’impostor.

 

Costa l’é na Libërtà

Ch’a l’han portane ij nòsti amis?

Col ch’a l’era ’l pì sfrontà

Col detava ’nt ël pais:

Pretendìo con soa ciancia

Fé lò ch’a l’han fàit an Fransa

Con sòi scrit, e ij sòi spatuss

De butene tuti a j’uss.

 

Col bel nòm ëd Patriòt

Usurpà dai Giacobin

L’ha ’ngosà dontrè Giovnòt

Ch’a’n prevdìo pa ’l sò fin;

Ma tuti san pur a st’ora,

Che ’l pais a l’é ’n malora,

E ch’le gent son ruvinà

Grassie a tuti sti anrabià.

 

Paisan, Nòbil, Negossiant[16]

Basta ch’a l’avèisso ij dné

A pagavo tuti quant

Pr’angrassé costi mëssé;

Cola l’era l’Uguaglianza

Lì ’s é vist la Fratellanza;

Òh che bela Libertà

Ampò cara an verità?

 

Ciamé ampòch a j’artesan

Coj ch’l’avìo dij mësté

Quanti ch’a l’han pers sò pan

Nen trovand pì a travajé;

Nsun l’avìa pì nen da spendi,

As sercava sempre ’d vendi,

Col a l’era nòstr stat

Dl’Uguaglianza ’l ver ritrat.

 

A sentì peui soe rason

Òh che sécol fortunà!

Tuti ij gheu[17] a vnìo ’d ricon,

L’òr corìa ’nt le contrà;

Ma ’s é vist tut ël contrari,

Visité ’mpò ij nòsti erari,

J’é pa nsun ch’fussa padron,

Tut a l’era ’n requisission.

 

Tuti costi sbragalon

Ch’a crijavo peui tant fòrt,

Quand sentiro ij colp ’d canon

A son dventà tuti smòrt.

Pòvri diavo pien ’d paura

Costa si va smijeve dura,

Scapé pura Patriòt

A l’é temp ch’i meni ’l plòt.

 

Costi l’ero ’d fier grivoé

’Ntorn a l’Erbo sempre an piassa

’S contentavo ’d prediché,

E ’d crijé a àuta ganassa,

Ma dì ampòch s’a la bataja

Un l’ha vist dë sta canaja,

Mentre ch’j’àitri son marcià

Lor son stass-ne ampòch a ca.

 

’L but ëd tuti sti grupion

L’era ’d buté ’d contribussion,

Su le spale dla Nassion

Lor gavavo soa porsion:

Guardé ampòch lì che bel quàder

Essi mnà da ’n strop ëd Làder

Ch’a rusiavo impunement

A spèise mach dl’onesta gent.

 

Tuti coj përseguità

Ch’l’avìo nen a rimprocesse

J’é pa nsun ch’a sia scapà,

A l’han pa pensà ’d salvesse;

Ma ij guson lor as në van,

A n’han fane, tuti a san:

Scapé pura, ’ndevne prest,

Torné pa pì pijé vòstr rest.

 

S’un l’avèissa da conté

’L dann ch’l’han fàit a la Nassion

A-i në j’é da seguité

Për fé ’ncora sent canson;

Ma ’n val pa nen la pen-a

Veuj pa pì buteme ’n len-a,

Son già tuti dësgabusà,

Son ëvnù ’n ciàir dla verità.

 

Questa canzone anonima, definita nel titolo “nuova” come era consuetudine per quasi tutti i testi dell’epoca specie se di argomento politico, venne composta, quasi certamente per irrisione e gusto di rivalsa, per essere cantata sull’aria di una canzone giacobina (Deje ai Nòbil, massé ij Nòbil) a noi comunque sconosciuta.

Un aspetto interessante è la presenza in essa, più che in altre composizioni del tempo, di termini squisitamente e originariamente piemontesi, anche se non mancano neppure qui alcuni italianismi e francesismi. Alcuni esempi dei primi sono: ciamé le bote (chiedere tregua), mné ’l plòt (far fagotto), gastognand (frugando), sbragalon (sbruffoni, schiamazzatori), sentiro (sentirono: antica forma di passato remoto, poi scomparsa dall’uso nei decenni immediatamente seguenti), grivoé (arroganti, arditi), a àuta ganassa (a squarciagola), grupion (ghiottoni, mangioni), guson (forchettoni), dësgabusà (disingannati, delusi). Esempi invece di francesismi, anche se probabilmente dovuti all’uso “colto-nobiliare” e non di derivazione rivoluzionaria: gheu (pezzenti, miserabili), va smijeve (vi sembrerà).

In tutte le stanze prevale la satira, anche feroce, nei confronti dei giacobini e delle loro colpe, specialmente quelle relative al disastro economico del Paese (mancanza di lavoro e di denaro, commercio quasi inesistente, requisizioni e contribuzioni forzate), ma anche la loro incoerenza e pusillanimità (cfr. ottave 8-9): tutti pronti a gridare e a “predicare” intorno all’albero della libertà, ma poi al momento del pericolo più nessuno che volesse combattere; ed alla loro disonestà, poiché dalle contribuzioni essi sapevano ricavare la loro “porzione”.

 

Traduzione

Finalmente era tempo/ Che questa canaglia andasse via,/ Se non gli si mostravano i denti/ No che mai più ce ne disfacevamo:/ Ah birbanti, chiedete tregua,/ Scappate pure, Patrioti,/ È tempo che ve ne andiate.// I Francesi, questi furboni,/ Frugando tutti gli angoli,/ Hanno proprio avuto buon naso,/ Hanno scelto tutti i birbanti,/ Ma sul più bello li hanno abbandonati,/ Che disgrazia gli è capitata,/ Sono tutti fuori di sé,/ Hanno finito di fare gli impostori.// Questa è una Libertà/ Che ci hanno portato i nostri amici?/ Colui che era il più sfrontato/ Quello dettava legge nel paese:/ Pretendevano con la loro ciancia/ Fare ciò che hanno fatto in Francia/ Coi loro scritti, e il loro sfoggio/ A tal punto da metterci tutti alla porta.// Quel bel nome di Patriota/ Usurpato dai Giacobini/ Ha ingozzato alcuni Giovanotti/ Che non prevedevano la lor fine;/ Ma tutti sanno pure a quest’ora,/ Che il paese è in malora,/ E che la gente è rovinata/ Grazie a tutti questi arrabbiati.// Contadini, Nobili, Negozianti/ Basta che avessero i soldi/ Pagavano tutti quanti/ Per ingrassare questi messeri;/ Quella era l’Uguaglianza/ Lì si è vista la Fratellanza;/ Oh che bella Libertà/ Un po’ cara in verità?// Chiedete un po’ agli artigiani/ Quelli che avevano un mestiere/ Quanti hanno perso il loro pane/ Non trovando più da lavorare;/ Nessuno aveva più qualcosa da spendere,/ Si cercava sempre di vendere,/ Quello era la nostra condizione/ Dell’Uguaglianza il vero ritratto.// A sentire poi le loro ragioni/ Oh che secolo fortunato!/ Tutti i pezzenti diventavano dei ricconi,/ L’oro correva per le strade;/ Ma si è visto tutto il contrario,/ Visitate un po’ i nostri erari,/ Non c’è nessuno che fosse padrone,/ Tutto era in requisizione.// Tutti questi sbruffoni/ Che gridavano poi tanto forte,/ Quando sentirono i colpi di cannone/ Son diventati tutti smorti./ Poveri diavoli pieni di paura/ Questa sì vi sembrerà dura,/ Scappate pure Patrioti/ È tempo che smammiate.// Questi erano dei fieri arroganti/ Intorno all’Albero sempre in piazza/ Si accontentavano di predicare,/ E di gridare a squarciagola,/ Ma dite un po’ se nella battaglia/ Qualcuno ha visto di questa canaglia,/ Mentre gli altri marciarono/ Loro se ne sono stati un po’ a casa.// Il fine di tutti questi ghiottoni/ Era di mettere delle contribuzioni,/ Sulle spalle della Nazione/ Essi toglievano la loro porzione:/ Guardate un po’ che bel quadro/ Essere guidati da un gregge di Ladri/ Che rosicchiavano impunemente/ A spese solo dell’onesta gente.// Tutti quei perseguitati/ Che non avevano nulla da rimproverarsi/ Non c’è nessuno che sia scappato,/ Non hanno pensato di salvarsi;/ Ma i forchettoni, loro se ne vanno,/ Ne hanno fatte, tutti lo sanno:/ Scappate pure, andatevene presto,/ Non tornate più a prendere il vostro resto.// Se uno dovesse raccontare/ Il danno che hanno fatto alla Nazione/ Ce ne è da continuare/ Per fare ancora cento canzoni;/ Ma non vale la pena/ Non voglio più mettermi di lena,/ Sono già tutti disingannati,/ Sono venuti in chiaro della verità.

 

Anonimo

ASCT, Coll. Simeom, nr. 8214

Pubblicato da G. Gasca Queirazza, Voci di consenso e di plauso, cit., pp. 158-160 e da G. Buratti, Tilèt e canson, cit., pp. 327-329.

 

Na croata a le fomne piemontèise ch’a van vëstìe a la giacobin-a

Bele fomne compatime

Se vë scrivo sta canson,

A l’é nen për divertime,

A l’é ch’i j’hai un gran magon.

 

Dël bon gust (l’é nen busìa)

Una vòlta j’ere ’l model,

Ma pr’adess lassé ch’iv dija

Che përdù j’evì ’l servel:

 

Chërde ’d fé le galantin-e,

E de feve bin stimé

Con paresse Giacobin-e;

Ma iv fé bin critiché:

 

Cole veste sensa taja

Ch’a sëmijo ’d camisass,

I’n seu nen com mai la baja

Non av faso andand a spass,

 

Lì as ved nen né fianch, né vita,

Ch’a l’é tut mal anvlupà,

S’a sia stòrta o sia drita,

As sà nen la qualità.

 

I smije tante lavandere

Con coj brass così argaucià.

Për dì mej cole fornere

Quand a van buté ’l levà.

 

Certe scarpe ch’am fan rije

Con col bech sensa gartin

Ant ël marcé ’d mule i smije

Quand a son sensa ciapin.

 

As conossìa j’àitre vòte

Ij bej pe da coj mal fàit;

Ma pr’adess son tute piòte

Com cole ch’a monzo ’l làit.

 

Ma dai pe sàuto a la testa

Ch’andaré lassava già.

Im fareu dì ’l nòm dla festa

Ma pur veuj dì la vrità.

 

Fan gran pompa le Roman-e

Dij sò biond o brun cavèj;

Le belìssime Giorgian-e

A costumo ’dcò parèj.

 

E voi àitre sot la pruca

Ij cavèj veule stërmé;

O ch’j’avì nen ’d sal an suca

O ch’sé mate da lijé;

 

È-lo nen na drolarìa

Vorèj smijé ebree dij ghèt,

O com coj che për maladìa

A son stàit al lasarèt?

 

Fèisse ancor bela figura

I starìa chiet, vorìa nen dì,

Ma ij moton la soa coefura

A la fan ’dcò lor così.

 

Ij cavaj ch’van a l’inglèisa

L’han la còma e’l pnass tajà.

E voi àitre a la fransèisa

I sé tute bërtondà.

 

Ma butoma che ste mòde

A sio bele e vado bin,

A saran mai degne ’d lòde

Quand a spusso ’d giacobin.

 

Ant col temp dla baronada

Chi ha tajà codin e riss

Ma ’nt ël fé dj’Alman l’intrada

Son butassje prest postiss[18].

 

Lolì as ciama avèj prudensa,

E porté ampò dë rispet,

Ma l’ha fàit la soa presensa

Ant voi àitre pòch efet.

 

Vëdde pur com cola rassa

L’é da tuti biasimà;

E a-j dan sempre la cassa

Për le ca e për le contrà;

 

’S é già fass-ne gran cujìa,

E gropà pì ch’ij salam,

As é già mandass-ne via

A patì un tantin la fam.

 

Già bin prest sarà distruta

Cola smens ëd pòch ëd bon

A l’é vei che sempre a buta

Com ’nt ij camp a fà ’l gramon.

 

Libërtà, sì, piemontèisa,

L’era quasi gnanca nà,

L’é rëstà longa e dëstèisa

Sùbit mòrta e peui sotrà.

 

Già la mòrt l’é tòst vësin-a

De coj pèrfid traditor,

Ch’a son stàit nòstra ruin-a,

Ma an ruin-a a-i son ’dcò lor.

 

As chërdìo sti barbagiaco

Ch’a son fasse garoté

Ëd fé lor quàich bel miraco,

E de fela arsussité.

 

Le speranse a son finìe

E për lor l’é mòrt e cheuit;

O antasché bin le cuchije,

O bondì e bon-a neuit.

 

Siché care mie fumele

Pijé le mòde dël passà,

Ch’av faran rësté pì bele,

E da tuti rëspetà.

 

Basta, prima che quaicun-a

Për la bile am manda a spass,

Taso già che për fortun-a

J’hai pì nen ant ël gavass.

 

Ci troviamo dinanzi ad un componimento, stampato ma senza indicazioni tipografiche, che può essere inserito nella categoria del tòni[19], sia per la forma metrica (la quartina a rima alternata) sia soprattutto per il contenuto satirico di tipo più sociale e di costume che non politico (tranne nelle ultime strofe). L’argomento – pur all’interno della polemica tra lealisti e giacobini – è quanto mai tradizionale, cioè la satira sulle donne, e in particolare sul loro modo di vestire e di comportarsi. A ciò si aggiunga, come detto, che la “moda” femminile contro cui l’Autore si rivolge è anche segnale di un pensiero e di un comportamento politico (quello rivoluzionario) anch’esso oggetto di satira e di sarcasmo, specie nella seconda parte del testo.

Quanto ad alcune delle mode femminili criticate dall’Autore, chi – in tempi più recenti – ha vissuto il periodo del cosiddetto “Sessantotto” ritroverà alcuni atteggiamenti e modi di vestirsi e di pettinarsi, già presenti a quanto qui leggiamo al tempo dei giacobini (vestiti larghi ed informi, scarpe senza tacco, capelli cortissimi…), utilizzati per eliminare ogni forma di femminilità nelle donne, volendole rendere pressoché indistinguibili rispetto agli uomini.

 

Traduzione

Un rimprovero [lett. cravatta] alle donne piemontesi che vanno vestite alla giacobina

Belle donne compatitemi/ Se vi scrivo questa canzone,/ Non è per divertirmi,/ Ma è che ho un gran dispiacere.// Del buon gusto (non è una bugia)/ Una volta eravate il modello,/ Ma per adesso lasciate che ve lo dica/ Che avete perduto il cervello:// Credete di fare le damine,/ E di farvi molto stimare/ Col sembrare Giacobine;/ Ma vi fate molto criticare:/ Quei vestiti senza misura/ Che sembrano dei camicioni,/ Non so come mai la presa in giro/ Non vi facciano andando a spasso,// Lì non si vedono né fianchi, né vita,/ Ché è tutto mal avviluppato,/ Se sia storta o sia dritta,/ Non si sa la qualità.// Sembrate tante lavandaie/ Con quelle braccia così rimboccate./ Per dire meglio quelle fornaie/ Quando vanno a mettere il lievito.// Certe scarpe che mi fanno ridere/ Con quel becco senza tacco/ Nel camminare sembrate delle mule/ Quando sono sensa ferri.// Si riconoscevano una volta/ I bei piedi da quelli mal fatti;/ Ma adesso sono tutte zampe/ Come quelle che mungono il latte.// Ma dai piedi salto alla testa/ Che gia tralasciavo./ Passeròdei guai (lett. Mi farò dire il nome della festa)/ Ma pure voglio dire la verità.// Fanno gran pompa le Romane/ Per i loro capelli biondi o bruni;/ Le bellissime Georgiane/ Sono abituate anche così.// E voi sotto la parrucca/ I capelli volete nascondere;/ O che non avete sale in zucca/ O che siete matte da legare;// Non è forse una stranezza/ Voler sembrare ebree dei ghetti,/ O come quelli che per una malattia/ Sono stati al lazzaretto?// Faceste ancora una bella figura/ Starei tranquillo, non vorrei parlare,/ Ma i montoni la loro acconciatura/ La fanno anche loro così.// I cavalli che vanno all’inglese/ Hanno la criniera e la coda tagliata./ E voi altre alla francese/ Siete tutte tosate.// Ma ammettiamo che queste mode/ Siano belle e vadano bene,/ Non saranno mai degne di lode/ Quando puzzano di giacobino.// In quel tempo della furfanteria/ Chi ha tagliato codino e riccioli/ Ma nel fare il loro ingresso i Tedeschi/ Se li sono rimessi subito posticci./ Quello si chiama avere prudenza,/ E portare un po’ di rispetto,/ Ma la loro presenza ha fatto/ Su di voi poco effetto.// Vedete pure come quella razza/ È biasimata da tutti;/ E le danno sempre la caccia/ Per le case e per le strade;// Se ne è già fatta una gran raccolta,/ E legati più che salami,/ Se ne sono già mandati via/ A soffrire un tantino la fame.// Già ben presto sarà distrutta/ Quella semente di poco di buono/ È vero che sempre germoglia/ Come nei campi fa la gramigna.// Libertà, qui, piemontese,/ Non era quasi neanche nata,/ È rimasta lunga e distesa/ Subito morta e poi sotterrata.// Già la morte è presto vicina/ A quei perfidi traditori,/ Che sono stati la nostra rovina,/ Ma in rovina ci sono anche loro.// Si credevano questi baggiani/ Che si sono lasciati arrestare/ Di fare loro qualche bel miracolo,/ E di farla risuscitare.// Le speranze sono finite/ E per loro è finito del tutto;/ O andarsene con le pive nel sacco,/ O buondì e buona notte.// Sicché, care le mie donne/ Riprendete le mode del passato,/ Che vi faranno apparire più belle,/ E da tutti rispettate.// Basta, prima che qualcuna/ Per la bile mi mandi a spasso,/ Taccio visto che per fortuna/ Non ho più niente nel gozzo.

 

[1] Cavoretto è un sobborgo collinare di Torino, citato spesso – popolarmente – per dare un senso ironico di straniamento ad un termine alto (qui la “gazzetta”). La desinenza –at è arcaica, e quindi è ipotizzabile un autore aristocratico che usa una lingua più “raffinata”, ma può anche essere semplicemente una necessità di rima con mat (v. 12).

[2] Letteralmente “stia per i polli”, ma popolarmente è la prigione.

[3] Forma idiomatica, di origine popolare-volgare, per indicare “morire”.

[4] Anarchistes erano detti coloro che volevano l’unione del Piemonte con l’Italia.

[5] Nelle due quartine (e in parte della 1a terzina) l’Autore ci dà un elenco di parole francesi entrate nell’uso con la rivoluzione (non sfugga il trinomio di “égalité, fraternité, liberté” abilmente inserite in tre momenti diversi ed in rima tra loro): il valore del testo infatti non è assolutamente di tipo poetico (praticamente nullo), ma linguistico e polemico nei confronti dei giacobini.

[6] Forse un riferimento alla Legione degli Allobrogi, fondata nel 1791 dal medico savoiardo Joseph-Marie Dessaix per favorire l’annessione della Savoia alla Francia.

[7] Il testo Simeom usa il termine in grafia piemontese (cravòt), tanto da scrivere anche guillot, mentre quello Avenati, con maggiore acribia, lo adatta, per la rima, al francese Guillote (cravotte).

[8] Ass da fior è una forma popolar-volgare per indicare il deretano. L’autore fa quindi un gioco di parole con ass da piche. Interessante il testo Simeom che scrive an, cioè “ci”, in luogo di av, cioè “vi”, presentandoci una più sentita partecipazione alla situazione; a meno di pensare che nel testo Avenati chi scrive pensi di rivolgersi solamente ai patriòt intesi come “giacobini”, volendoli mettere ironicamente in guardia dai loro falsi amici francesi.

[9] Francesismo di uso raro, ma non peregrino in piemontese: si usa in genere nel senso specifico di “tagliare le carte” (copé ’l mass). Non è da escludere, qui, la volontà di sottolineare l’origine francese del “tagliare la testa” (in Piemonte si usava impiccare i condannati).

[10] È ovviamente il Suvarov.

[11] Si noti l’uso “rivoluzionario” del termine (cfr. supra), qui inteso quasi come sinonimo di Giacobin.

[12] Alcune immagini, ed alcuni versi, relative all’arrivo del Suvarof a Torino ed alle intenzioni violente dei giacobini, si ritrovano pressoché identiche in un’altra canzone dello stesso periodo, scritta dal monregalese Giuseppe Bertolino (cfr. infra).

[13] Vista quella che è la struttura metrico-ritmica della canzone (ottave con schema di rime ABABCCDD), dobbiamo congetturare la caduta del verso 6 della 1a strofa.

[14] Qui col valore dispregiativo di “rivoluzionari”. Si veda, a conferma di quanto detto supra a commento dei testi carignanesi, quanto si troverà ai vv. 25sg. di questa stessa canzone (Col bel nòm ëd Patriòt/ Usurpà dai Giacobin).

[15] Altra osservazione generale della situazione: i Francesi hanno saputo sempre appoggiarsi ai peggiori soggetti, salvo poi abbandonarli al loro destino con l’arrivo degli Austro-Russi. Pensiamo, per esempio, all’apertura delle prigioni ed alla conseguente liberazione di tutti, indistintamente, i prigionieri, politici e comuni, al momento dell’occupazione di Torino (dicembre 1798).

[16] In un verso solo abbiamo l’analisi sociologica delle categorie sociali che, pur non essendo d’accordo con la rivoluzione, ne hanno però dovuto fare le spese, pagando tasse e contribuzioni: contadini, nobili e negozianti (con l’aggiunta degli artesan del v. 41, che non trovavano più lavoro). Ma allora chi erano i fautori della rivoluzione? Pochi nobili scapestrati (come fu, per es., Vittorio Alfieri prima di conoscere e capire, sulla sua pelle, i danni della rivoluzione), i nullatenenti (cfr. infra: i gheu, v. 51) che vivevano più che altro di espedienti o di lavoretti saltuari, e soprattutto la classe borghese, in particolare gli “intellettuali” (maestri e professori, anche ecclesiastici), i professionisti (medici, avvocati, farmacisti, notai…) e qualche piccolo commerciante che sperava di arricchirsi col “nuovo corso” rivoluzionario.

[17] Ecco il vero sovvertimento sociale ed economico: nella crisi morale, civile, economica, solamente i pezzenti, i miserabili riuscirono a guadagnare (in modo ovviamente illecito, se non illegale) diventando così dei “ricconi”.

[18] Al tempo della dominazione francese non mancarono dunque (come sempre…) gli opportunisti ondivaghi, i quali, tagliatisi il codino (caratteristica dell’ancien régime) sotto i giacobini, non esitarono a metterselo posticcio all’arrivo degli Austro-Russi.

[19] Il tòni, il cui nome è di origine incerta, è un componimento in genere (ma non sempre) anonimo, di carattere satirico e, talora, moraleggiante. I primi esempi di questo genere letterario risalgono alla fine del sec. XVII, ma la grande fioritura di esso (con scrittori quali padre Isler, Ventura Cartiermetre e il cav. Vittorio Amedeo Borrelli) si trova nel secolo seguente. Gli ultimi esempi di tòni risalgono intorno alla metà del secolo XIX.

 

 

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