Siamo nel tempo in cui la «donna» viene sbandierata di qua e di là, perché, si dice, è ora che venga considerata come pari all’uomo, nella vita privata come in quella pubblica, “libera” di fare ciò che più le pare e piace, anche a danno di mariti, compagni, figli.
La donna per la politica, la magistratura, i media è una vittima del sistema patriarcale (tanto sano e benefico, dove il ruolo della donna era fondamentale non perché scimmiottante l’uomo, bensì per la propria identità femminile nei suoi ruoli familiari, lavorativi e sociali), impotente se non è supportata dall’ideologia femminista, un pensiero assolutamente distruttivo dei rapporti umani, a cominciare da quelli familiari. Perciò, si dice ancora, è giunto il tempo di liberarla ancora di più rispetto alle istanze sessantottine.
Ecco dunque, che viene in soccorso la testimonianza di una grande ed umile donna attraverso un bellissimo libro, Anita. Un nome, un destino. 1922-2022, il secolo lungo, scritto da Maurizio Grandi, con i commenti di Augusto Grandi, il prologo di Gustavo Mola di Nomaglio, le fotografie e il diario di Lycia Grandi e l’epilogo di Lanmarco Laquidara (Editore La torre, pubblicato nel 2022).
Anita Toselli, moglie dell’amato medico Cesare Grandi, partito volontario nel 1940 per il fronte, ha lasciato un diario autobiografico, ripreso in queste pagine, grazie al quale possiamo assistere ad uno spaccato della “piccola storia” nella grande Storia e accorgerci, con mestizia, che i valori presenti nel 1922, ad un secolo di distanza, non esistono più e al loro posto si è creata un’Italia aliena.
Scrive il figlio Augusto Grandi, fratello di Maurizio e di Lycia:
«Fortunatamente la bambina che era nata in Sardegna nel 1922 non ha dovuto assistere al declino del Paese che aveva tanto amato. Non ha dovuto assistere all’impoverimento, al degrado, alle città attraversate da bande di criminali intoccabili, alla nullità di sedicenti politici che aspettano solo ordini dall’esterno per proferire parola. Non ha dovuto vedere la totale perdita di dignità di un Paese che lei chiamava Patria. Alla perdita di valori come il rispetto della parola data, l’amicizia, la lealtà. Non che abbia sempre incontrato persone legate a quei valori, ma almeno esistevano nel sentire comune. Il suo secolo lunghissimo ha visto guerre, tragedie private e pubbliche, difficoltà e speranze deluse. Ha visto carrozze e viaggi sulla luna, le prime radio e i televisori al plasma, gli ultimi garibaldini e la bomba atomica. È cresciuta leggendo Grazia Deledda e ha avuto la fortuna di non dover ascoltare Sfera Ebbasta» (p. 22).
Un libro, ricchissimo di spunti, di notizie e informazioni, introdotto con queste parole promette molto, tant’è vero che procurerebbe, e ne siamo ben consci oltre che lieti, l’orticaria alle femministe che continuano, nonostante le rovine che stanno intorno a loro, a cavalcare i proponimenti sessantottini, sviluppandoli ulteriormente per produrre “migliorie” incendiarie (rivoluzionarie) e “libertà” contro natura, rendendo la donna sempre meno donna e, quindi, fabbricando una civiltà sempre più abbruttita e sempre più in calo demografico, grazie anche agli omicidi infantili nel grembo materno, che avvengono con leggi statali abortiste, risultato delle lotte ideologiche e politiche femministe, che oggi inneggiano anche al “mondo arcobaleno”.
Invece no, Anita Grandi è stata una donna davvero donna, che ha amato esserlo in pienezza, realizzandosi seguendo i valori fondamentali del rispetto, del dovere, del sacrificio, dell’autentico amore per il marito e i figli, della bellezza di mantenere amicizie vere, di difendere idee sane e di impegnarsi con dedizione nel proprio lavoro quotidiano, con la massima attenzione, senza mai ferire nessuno. Altro che gridare nelle piazze per ottenere “diritti” contrari alle leggi naturali e alle leggi di Dio.
«Conosco Maurizio Grandi da sempre», scrive Gustavo Mola di Nomaglio nel prologo del libro, «Prima ancora che scoccasse l’obbligo di legge, quando avevamo poco più di cinque anni, i nostri genitori, forse è più esatto dire le nostre madri, ci iscrissero di comune accordo, correva l’anno 1957, e con una scelta per quei tempi non usualissima, alla Sacra Famiglia di Torino, dove frequentammo insieme la prima elementare (e dove in seguito avrei fatto la Prima Comunione)» (p. 5). Il primo è diventato un grande medico, il secondo un grande storico e studioso di genealogie familiari e di araldica, entrambi a livello internazionale. «Le idee di mia madre erano un po’ quelle di Anita, anche lei era “monarchica” e certo tutt’altro che antifascista, prima e dopo la guerra» (p.6).
Si tratta di un vero e proprio tributo di Maurizio, Augusto e Lycia a loro madre, e noi siamo a loro grati per averci rivelato, in un’epoca di asfissiante e nauseante femminismo, tronfio e smargiasso pur con contenuti miseri e svilenti, la vicenda di una ragazza forte e coraggiosa, in seguito madre di famiglia, profondamente intelligente e ricca di umanità.
Anita trascorre la sua infanzia in Sardegna. Il nonno è piemontese e lascia il continente, il padre è notaio, amico di Rudinì e Galimberti e per professore ha un anarchico socialista. In queste pagine di vividi ricordi leggiamo la tensione lirica, la voglia di recuperare ossigeno dai valori autentici di famiglie unitissime, dove tutto si condivideva e i giorni si dipanavano fra il buon senso, la saggia filosofia e la scienza al servizio delle persone e non delle case farmaceutiche. Ma c’è anche il sapore letterario, artistico e della cultura popolare, «senza distinzioni di principio, ma con la consapevolezza di chi sa distinguere, riconoscere, e, per questo, connettere» (p. 27).
Questo è un testo da leggere quando si desidera fare pulizia nella mente, quando si vuole trovare un po’ di pace in questa turbolenta, inquieta, frenetica, talvolta pazza società, dove la maggioranza non sa più stare al proprio posto perché ha perso principi, regole, ordine.
Alcune fotografie riguardanti Anita Toselli, poi coniugata Grandi. Il libro contiene molte illustrazioni
Traversie, lutti, spostamenti, traslochi, ritorno della famiglia in Piemonte, prima a Beinette, poi Mondovì e Torino. Racconta lei stessa che quando ebbe la difterite la curò il cugino che veniva da Peveragno e in quel periodo venne a mancare lo zio, anche lui medico, ma a Boves. «Alle superiori venni mandata con Gemma Secchia, figlia del Capostazione, a Mondovì dalle Suore Francesi […]. Domenica messa alle 7, perché più raccolta. Poi messa grande con le ragazze dell’oratorio. Artemisia, Maria, Iole, Rosi, Bosio, che, vent’anni dopo, con le famiglie, divennero i primi clienti dello studio di mio marito». Scuola di danza al Regio, che terminò quando venne bruciato. Ginnastica artistica, poi salto in alto per consiglio dell’istruttore Maiocco, al tempo del fascio erano tutti corsi gratuiti. Dopo un primo periodo al Saro Cuore di Via Lanfranchi 10, passò all’Istituto magistrale inferiore di Maria Ausiliatrice, poi cambiò ciclo scolastico: prima andò al Circolo filologico per imparare le lingue, in seguito al Maria Letizia per la ragioneria e il commerciale. Apprese la dattilografia e la stenografia. La prima assunzione le venne offerta da Vannini, presidente dell’Ente Moda, ma il primo suo posto di lavoro fu in via Roma, angolo piazza Carlo Felice, alla San Giorgio, che prese in seguito il nome di Cisitalia, azienda tessile, che si trasferì in corso Peschiera, fra corso Trapani e corso Montecucco. Nel 1942 entrò nella pellicceria Rivella.
Sono alcuni scorci dell’intensa vita di Anita che, con umiltà e senza lamentele di alcun genere, narra difficoltà e sacrifici con fare semplice e senza recriminazioni… uno stile abissalmente distante dalle grida fuori posto delle femministe d’assalto e da chi mette in pasto sui social se stesse per essere protagoniste sul web e ricevere più like e followers possibili.
Il 20 novembre del 1942 un bombardamento rese inagibile la casa di famiglia a Torino, proprio nei giorni in cui Anita si ruppe una caviglia. «In quel mare di sfollati trovammo un posto (una stanza divisa da una tenda) nella campagna di Torrazza Piemonte. Io con le scarpe da pattinaggio, bastone, dovevo percorrere oltre due chilometri per recarmi alla stazione dove, quando andava bene, riuscivo a entrare in un carro merci, diversamente aggrappati a grappolo si stava sui respingenti, scivoli, sotto tutte le intemperie. Prima del rientro cercavo di recuperare qualcosa nella casa dove porte, finestre, non esistevano più. Il mio stipendio era indispensabile, dai contadini riuscii a avere qualche cosa solo pagando borsa nera. Mia Madre andrò a Mondovì. Io continuai per qualche tempo a stare a Torrazza» (p. 39).
Avventure, rinunce, continui spostamenti e nuove assunzioni in un clima difficile e perennemente pericoloso. Il primo febbraio del 1944 approdò alla Ceat (Cavi Elettrici e Affini) di Torino, dove si stabilì nuovamente, ma alla fine di agosto ci fu un terribile bombardamento che illuminò di fiamme la città. La mattina, camminando sul ponte, fra corso Fiume e corso Vittorio, per recarsi in ufficio, vide dei corpi inceneriti. Il cugino Franceschino Lamberti era invece annegato; quindi andò in treno fino a Saluzzo, proseguendo anche a piedi per prendere «gli abiti per seppellirlo».
Il dolore muto nutre questo diario, ma anche la voglia di vivere, sebbene in abitazioni provvisorie, sebbene i congiunti scomparsi, sebbene, finita la guerra, ci fosse sempre il pericolo di essere mitragliati. «Avevo conosciuto la cella di sicurezza e il plotone di esecuzione, regalo di una collega» (p. 40) e conobbe anche l’epurazione.
Anita, che conosceva il tedesco, era stata inviata al Comando delle SS, mostrando fogli falsi di assunzione all’azienda bellica (maschere antigas) per salvare dall’esecuzione il maggior numero di rastrellati e di partigiani. A 22 anni era stata messa davanti al plotone di esecuzione dal CLN perché “collaborazionista” con il Regime… ovvero la sua frequentazione, come si è detto, al Comando delle SS per soccorrere il suo prossimo!
Ma non è il caso di andare oltre, altrimenti si rischia di svelare tutta una storia che va assaporata per comprendere che le donne quando rimangono donne non hanno nessuna rivendicazione da fare nei confronti degli uomini, perché non c’è odio da brandire, bensì consapevolezza delle prove e delle croci dell’esistenza umana, femminile e maschile insieme. E quando c’è da sopravvivere tutti gli uomini e le donne di buona volontà si rimboccano le maniche e non fanno flash mob.
La cristiana Anita credeva al Re e alla monarchia. Custodiva una profonda stima per Umberto II «un uomo che non aveva potuto salvare il suo Paese», afferma il figlio Maurizio, «perché il padre non si era fidato di lui e non gli aveva dato ascolto. Non mancò un solo anno all’appuntamento a Cascais in Portogallo o a Beaulieu, in Francia, accompagnandolo nell’ultimo viaggio a Hautecombe» (p. 118). In tutto e per tutto italiana, conscia dell’alto tradimento perpetrato dal massonico generale Badoglio, ella visse esprimendo ideali alti e nobili.
C’è un’altra storia delle donne nella Grande Storia da raccontare rispetto alle bieche, meschine, maleodoranti e cupe vicende femministe. Questo di Anita è un racconto che vale la pena conoscerlo tutto, dall’inizio alla fine.