All’indomani della morte di Santa Elisabetta d’Ungheria, la cui festa liturgica si celebra il 17 novembre, la sua tomba a Marburgo fu teatro di numerosi miracoli e non tardò a diventare meta di numerosi pellegrinaggi provenienti dall’Ungheria, dal mondo germanico e dai Paesi slavi; se ne ha testimonianza nella Vita di Santa Elisabeth, che figura nella Leggenda aurea dell’agiografo domenicano Jacopo da Varagine, a partire dai manoscritti degli anni fra il 1270 e il 1280. Vi si legge, per esempio:
«Un tale di nome Giovanni, della diocesi di Magonza, era stato catturato in compagnia di un ladro e condannato ad essere impiccato con lui. Scongiurò allora tutti che pregassero santa Elisabetta perché l’aiutasse secondo i suoi meriti. Essendo stato impiccato, sentì una voce sopra di sé che diceva: “Coraggio, confida in santa Elisabetta e sarai liberato”. E subito, essendosi rotta la fune, cadde rovinosamente a terra dall’alto della forca, senza farsi alcun male, benché la sua camicia, che era nuova, si fosse lacerata. Ed egli pieno di gioia disse: “Santa Elisabetta, sei stata tu a liberarmi e a farmi cadere sul morbido”. Alcune persone si misero allora a dire che fosse impiccato per la seconda volta, ma il giudice disse: “Dio l’ha liberato, non permetterò che venga impiccato di nuovo”. Ci fu un converso della diocesi di Magonza, di nome Volmaro, molto pio, che mortificava la sua carne al punto da portare per venti anni una corazza sul corpo e dormire su pietre e pezzi di legno. Mentre si trovava in un mulino, per caso gli si impigliò la mano in una mola che la stritolò in modo tale che la carne si era staccata dalle due parti e le ossa e i nervi si erano frantumati, così da sembrare pestata in un mortaio, ed era tormentato da un dolore così intenso da chieder che la mano gli si fosse amputata. E avendo invocato più volte in suo aiuto santa Elisabetta, che era stata ancora in vita amica sua, una notte ella gli apparve dicendo: “Vuoi guarire?”. E avendo questi risposto: “Volentieri”, quella prendendogli la mano guarì i nervi, ricompose le ossa e la carne e gli restituì la salute precedente. Il giorno dopo si trovò perfettamente guarito e, tra lo stupore di tutti, mostrò la sua mano sanata a tutto il convento».
Elisabetta nacque a Sárospatak, in Ungheria, nel 1207 e morì a Marburgo il 17 novembre 1231. Era figlia di Andrea II il Gerosolimitano, Re d’Ungheria, Galizia e Lodomiria, e della sua prima moglie Gertrude d’Andechs-Meran, appartenente ad un lignaggio particolarmente prestigioso che diede numerose Regine e Duchesse nell’Europa di quel tempo.
Nel 1211 venne promessa in sposa al primogenito del langravio di Turingia, Ermanno I, per suggellare l’alleanza delle due dinastie nella lotta contro l’Imperatore Ottone IV, pertanto venne inviata nel castello di Wartburg, alla corte di Turingia, dove fu educata dalla futura suocera, Sofia di Baviera. Qui regnava un’atmosfera «cortese» grazie ai numerosi minnesänger che venivano a recitarvi i loro poemi d’amore e di cavalleria. Il fidanzato a cui era destinata in moglie venne a mancare, così Elisabetta si unì in matrimonio con il di lui fratello cadetto, Ludovico IV (1200-1227) – mai formalmente canonizzato, ma noto fra il popolo tedesco come Ludovico il Santo e, altrove, come Beato Luigi di Turingia – che successe a suo padre nel 1218. Il matrimonio fu celebrato nel 1221, quando ella aveva 14 anni. Fu un’unione assai felice e nacquero tre figli: Ermanno (1222), poi Langravio d’Assia, Sofia (1224), futura Duchessa di Brabante e Gertrude (1227), che si consacrò a Dio, divenendo poi priora dell’Abbazia premostratense di Altenberg.
Elisabetta conduceva una vita da principessa ed accompagnava nei suoi viaggi l’amato consorte, fu così che partecipò al suo fianco alla dieta imperiale di Wurzburg. Nell’aprile del 1226 Ludovico IV raggiunse l’Imperatore a Cremona e partecipò ad un’assemblea il cui scopo era quello di stabilire la pace fra i principi tedeschi. Elisabetta aveva per direttore spirituale Corrado di Marburgo, che aveva predicato la crociata in Germania e godeva della fiducia di Papa Gregorio IX. Il 24 giugno 1227 Ludovico IV, attraverso Ravenna e Bari, raggiunse Otranto, dove l’armata di Federico II preparava il suo imbarco per l’Oriente per gli inizi di agosto. Contagiato durante un’epidemia, il Langravio di Turingia morì in Puglia l’11 settembre di quell’anno.
Elisabetta si trovò vedova a 20 anni, con tre bambini. La famiglia del marito fece pressione su di lei per farle prendere nuovamente marito, ma ella fu decisa nel non dare l’assenso, affermando la sua volontà di restare vedova e casta. Malvista e maltrattata dai parenti, alla fine del 1227, abbandonò il castello di Wartburg per ritirarsi nelle vicinanze di Eisenach in una piccola casa insieme alle sue amiche, Guda e Isentrude e, quindi, dedicarsi con loro all’assistenza dei poveri.
L’anno successivo suo zio, l’Arcivescovo Ecberto di Wurzburg, la accolse nel suo castello di Pottenstein, dove assistette al ritorno delle spoglie del consorte, che furono tumulate nell’Abbazia di Reinhardsbrunn, il pantheon dinastico dei sovrani di Turingia. Ma, non appena il prelato cercò di spingerla, a seconde nozze, Elisabetta lasciò anche questa residenza. Era la primavera del 1228. Si recò, quindi, a Marburgo, dove si liberò di tutti i suoi beni, distribuendo il denaro della sua dote ai poveri e fondando un ospedale che pose sotto il patronato di San Francesco d’Assisi, appena canonizzato.
Fin dai primi anni della sua esistenza, Elisabetta fu attenta alle opere di misericordia. Le deposizioni di chi la servì la mostrano mentre fila la lana a Wartburg per confezionare delle vesti per i frati minori ed i poveri. In occasione della grande carestia che colpì l’Ungheria, nei primi mesi del 1226, sorvegliò personalmente le distribuzioni di viveri agli affamati che lei stessa aveva organizzato nei granai signorili. Stabiliva contatti diretti con i diseredati. Già prima della vedovanza andava a far visita alle donne in attesa e bisognose d’aiuto: entrava nelle loro capanne per soccorrerle con denaro, per confortarle e, talvolta, diventava madrina dei loro figli. La sua era un’autentica spiritualità della carità formulata in tre gradi: umiltà, compassione, attenzione alle sofferenze del prossimo più debole.
Santa Elisabetta, che entrò nel Terz’ordine francescano dopo essere rimasta vedova, è spiritualmente molto simile a Santa Chiara d’Assisi: entrambe votate alla povertà assoluta. Il direttore spirituale Corrado arrivò persino a frenare i desideri di privazione e di carità della sua assistita, poiché pensava che fosse meglio per una vedova benestante utilizzare le sue ricchezze per fare l’elemosina, piuttosto che rinunciare ad esse per vivere in povertà volontaria. Decise, quindi, di chiamarla a sé per controllarla, separandola dalle sue fedeli compagne Guda e Isentrude, sostituite da severe domestiche. Un giorno addirittura la picchiò perché aveva abbracciato un lebbroso e giunse ad impedirle di donare denaro ai miseri, autorizzandola solo a distribuire loro tozzi di pane. Scelte alquanto singolari, visto che Corrado seguiva una vita austera e non possedeva nulla di proprio, fatto che aveva convinto la Santa a prenderlo come suo confessore, a differenza degli ecclesiastici di sua conoscenza. Tale conflitto di vedute riempì gli ultimi mesi di vita di Elisabetta. Si scontravano due opposte concezioni di povertà: per Corrado (non è certo che sia stato premostratense, ma non lo si può escludere), la cui posizione si inquadra negli sviluppi dei movimenti riformatori moderati del XII secolo, la povertà valeva solo per i chierici, nella misura in cui conferiva alla loro testimonianza di vita e al loro apostolato maggiore credito e maggiore efficacia. D’altro canto, Santa Elisabetta, come Santa Chiara, era profondamente convinta che, colui che vuole conformarsi a Gesù Cristo – il «Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9, 58) – sia chiamato a privarsi di ogni cosa. Dovette rinunciare alla mendicità errante e al lavoro manuale per condurre la vita di una conversa all’interno dell’ospedale.
I giorni di Elisabetta erano attivi e contemplativi allo stesso tempo. Benché le fonti ci parlino maggiormente della sua azione caritativa, è indubbio che ebbe familiarità con il soprannaturale. Non contenta di pregare giorno e notte, come hanno raccontato i testimoni diretti, ella intratteneva con il Signore un dialogo mistico e confidente. Dopo aver lasciato ogni cosa per seguire Cristo, aspirò ad unirsi a Lui. Nella deposizione delle sue ancelle, per la sua canonizzazione, si legge ciò che Elisabetta disse loro:
«Ho visto il cielo aprirsi e Gesù piegarsi verso di me con una estrema bontà, mostrando il suo volto più aperto, e sono stata inondata da una gioia ineffabile nel vederlo; mentre si ritirava, ero assalita da una grande tristezza; allora ebbe pietà di me e mi rallegrò ancora una volta con la visione del suo volto e mi disse: “se tu vuoi essere mia, io voglio ben essere con te”». E, al momento di spirare, all’età di 24 anni, il 17 novembre 1231, disse: «Arriva il momento in cui Dio chiama i suoi amici alle nozze celesti».
Alcuni mesi dopo, Gregorio IX, informato dal teologo Corrado di Marburgo dei miracoli che avvenivano sulla tomba di Elisabetta d’Ungheria, domandò all’Arcivescovo di Magonza di aprire un’inchiesta: era l’ottobre del 1232; ma il prelato non manifestò interesse, anzi, cercò di sabotare le indagini, perciò fu ancora il teologo Corrado a trasmettere alla Santa Sede i documenti più interessanti: un riassunto della vita, Summa Vitae, dove Elisabetta viene presentata come la consolatrice dei poveri sullo sfondo della spiritualità della crociata, alla quale si sarebbe associata in modo personale facendo voto di castità e di povertà; inoltre una raccolta di una sessantina di miracoli avvenuti a Marburgo. Così il direttore spirituale della Langravia diventa biografo sincero e rigoroso, denunciando anche il conflitto di vedute fra lui e la Santa, facendo emergere, nonostante le non poche incomprensioni fra di loro, il fascino spirituale che aveva esercitato sulla sua persona.
Tuttavia Corrado venne assassinato nel 1233 mentre stava esercitando le funzioni di inquisitore e si batteva contro gli eretici, questo fatto diede nuovo slancio alla causa di beatificazione di Elisabetta. Nell’ottobre dell’anno dopo, Gregorio IX affidò il mandato d’inchiesta al Vescovo di Hildesheim e a due abati cistercensi, ordinando loro di inviargli i verbali entro sei mesi. Ventiquattro miracoli si aggiunsero a quelli che erano già stati recensiti, mente i commissari raccolsero le deposizioni di diversi testimoni. Quelle di quattro ancelle e domestiche di Elisabetta sono state conservate con il nome di Dicta quatuor ancillarum, si tratta di Guda, Isentrude, Irmingarda, Elisabetta. Questo testo, che fu in seguito rielaborato sotto forma di opuscolo, Libellus, costituisce un documento di prim’ordine e di interesse eccezionale nella misura in cui queste donne, e soprattutto le prime due, erano state accanto alla Santa, raccogliendo così numerose sue confidenze. Il Pontefice, già favorevolmente disposto nei confronti di questa causa, fu pienamente convinto dei meriti della nobildonna dal dossier trasmessogli dagli inquisitori e canonizzò Elisabetta il 27 maggio 1235.
Le spoglie vennero tumulate nella chiesa dell’Ospedale di Marburgo, ma una nuova chiesa, nella stessa città, fu costruita per ospitarle, su iniziativa di Corrado di Turingia, cognato di Elisabetta, il quale aveva rinunciato nel 1235 al titolo di Langravio per entrare fra i Cavalieri Teutonici. L’edificio sacro, officiato dall’Ordine Teutonico e sepolcro dei Langravi di Turingia, venne ultimato nel 1249 e, il 4 novembre di quell’anno, Papa Innocenzo IV incaricò l’Arcivescovo di Magonza di trasferire le spoglie della Santa nella Elisabethkirche, accordando un’indulgenza a tutti coloro che avrebbero partecipato alla cerimonia.
Si tratta di un’imponente costruzione a tre navate[1], coronata da due grandi guglie: un vero e proprio capolavoro dell’architettura gotica tedesca. Le folle vi affluivano, più numerose che a Santiago di Compostela, come afferma, verso il 1240, il cronista Alberico delle Tre Fontane. I pellegrini, in massa, andavano a venerare le spoglie conservate nella magnifica tomba in quercia, ricoperta di placche d’argento e di rame dorato. Sui lati erano rappresentate otto scene della vita. Altri episodi, insieme ad alcuni miracoli, figurano sulle splendide vetrate.
La memoria di Santa Elisabetta fu celebrata da numerosi testi letterari. Una prima attendibile biografia fu composta nel 1237 dal cistercense Cesario di Heisterbach, il quale si basò sugli atti del processo di canonizzazione. Il culto a Santa Elisabetta oltrepassò i confini tedeschi. Nel 1244 il domenicano Vincenzo di Beauvais introdusse nel suo Speculum historiale dei passaggi del Libellus, ed il poeta Rutebeuf redasse, fra il 1258 e il 1270 una Vie de sainte Elysabel, seguita da una Vita anglonormanna, opera del francescano di Nottingham Nicola Bozon.
Il pellegrinaggio di Marburgo fu celebre in tutta l’Europa centrale ed orientale, attirando fedeli su fedeli fino al 1539… quando la Rivoluzione protestante vi pose drammaticamente fine. Le spoglie di Santa Elisabetta furono trafugate e i suoi resti passarono a Vienna; mentre molte sue reliquie furono venerate nei Paesi sotto la dominazione austriaca e spagnola, dalle Fiandre alla Franca Contea.
La devozione a Santa Elisabetta, compatrona dell’ordine francescano secolare insieme a San Luigi IX (Lodovico come terziario) di Francia, conobbe una nuova fioritura nel XIX secolo, quando, durante un viaggio in Germania (1832-1833), Mantalembert si recò a Marburgo e qui concepì il progetto di scrivere una biografia di Elisabetta d’Ungheria e di Turingia, incoraggiato dagli scrittori cattolici tedeschi Görres e Clemens Brentano. Ammirato da Elisabetta e dal Medioevo tedesco, l’autore compose un’opera più lirica che storica, ma il clamore che suscitò la sua Histoire de sainte Elisabeth d’Hongrie, pubblicata nel 1834, fu considerevole, attirando sulla figura della Santa l’attenzione degli ambienti letterari ed artistici. A lei si ispireranno Wagner per il suo Tannhäuser (1845) e il musicista ungherese Franz Liszt con il suo oratorio iniziato a Weimar nel 1857 e terminato a Roma nel 1862. La prima esecuzione ebbe luogo a Budapest nel 1865, sotto la direzione del compositore, che aveva appena ricevuto in Vaticano la tonsura e gli ordini minori.
[1] Il linguaggio formale di questa architettura è vicino a Toul e Treviri, sebbene Marburgo da un punto di vista ecclesiastico appartenesse a Magonza. Ciò è dovuto ad una probabile rivalità fra il langravio di Turingia e l’arcivescovo di Magonza, al punto che il langravio cercò i propri modelli in una arcidiocesi diversa dalla sua.