Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, Duca di Maddaloni (II)

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Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, Duca di Maddaloni

 

La Mozione d’Inchiesta nelle Province Napoletane costituisce il vertice della vicenda umana e politica del Duca di Maddaloni, vissuta sotto il segno della generosità e della coerenza sostanziale –sempre dalla parte del popolo meridionale- e fatalmente votata alla disillusione.

Sarà lui stesso a definirsi in un testo del 1864:

 

«Spirito alquanto bizzarro e strano uomo politico era il Duca di Maddaloni, perché in què che hanno il torto di politicar con il cuore e non con la mente, di quelli predominati fieramente dallo spirito di simpatia o di antipatia, carattere impossibile ad ogni incarico, ad ogni ufficio di buon reggimento». (Il Conte Durante p.161)

 

Ritratto del duca di Maddaloni di Pietro Scoppetta, che si riferisce all’incontro tra Salvatore di Giacomo e il duca, descritto nella prefazione degli Epigrammi ed. Luigi Pierro 1894, e ivi pubblicato (incisore E. De Clemente).

 

In queste parole c’è autocritica e senso dei propri limiti, ma anche l’orgoglio dell’isolamento in cui incorre chi agisce a viso aperto e niente cedendo alle “nuove” leggi della politica, non fatta da uomini, ma da partiti, dai media, dal denaro. E del resto parimenti votati all’isolamento, ciascuno a suo modo, si trovarono altri che, venendo da opzioni politiche liberali e anche unitarie, si trovarono a scegliere tra esse e le loro convinzioni religiose, morali ed identitarie. E per tener fede a queste, e mantenere aperta la via ad una diversa sorte della loro terra, cercarono riferimenti nell’area legittimista, per agire altresì in essa in senso costituzionale e federalista. Figure come Pietro Calà-Ulloa (capo del governo napoletano in esilio a Roma) o Enrico Cenni (difensore dell’identità cattolica, per lui condizione e ispirazione di un vero e giusto processo unitario) furono anch’esse, in questo nobile e disperato tentativo, votate al silenzio della storia.[1]

Il Duca di Maddaloni, se rinunciò alla politica attiva, non smorzò per parte sua i toni dello sdegno e della denuncia, e restò fino all’ultimo avversario irriducibile della nuova classe dirigente unitaria rapace, anticattolica, corrotta e corruttrice.

In questo finì per trovarsi oggettivamente vicino ad un altro letterato napoletano, Vittorio Imbriani, che di lui scrisse con astioso dileggio, pur dovendone ammettere il coraggio personale. È probabile che il misantropo Imbriani (sul cui padre, sindaco liberale di Napoli, Proto aveva scritto un inclemente epigramma) mal sopportasse l’esuberante personalità del Duca, che aveva ripreso il suo posto nei salotti napoletani e soprattutto nel mondo letterario, con una produzione varia e copiosa.

Il ritratto che ne danno i contemporanei, reticente sugli aspetti politici, disegna infatti del Duca un’immagine brillante, di erudito, autore di successo, temuto per la sua lingua, ma irresistibile per il suo charme[2]: una figura che già allora sfuggiva alla borghese specializzazione delle professioni e delle carriere. Ne dà l’estrema immagine un famoso testo di Salvatore di Giacomo[3] che descrive un uomo fiaccato dall’età e dai dispiaceri, il sopravvissuto di un’epoca e di uno stile, aristocratici e romantici.

Occorreva la penna brillante di Giovanni Artieri[4] che nella rievocazione della Napoli nobilissima tornasse a menzionarlo in una sequenza di figure di intellettuali e artisti napoletani.

Vi è quindi continuità etica e di contenuti tra la testimonianza politica –che contiene una forte motivazione religiosa- e l’opera letteraria del Duca, nella quale l’ispirazione di fede e le tematiche morali avranno negli anni un peso crescente. In effetti nelle opere letterarie non teatrali non c’è solo l’impronta della sua personalità e convinzioni, ma appare lui stesso, acuto ed ironico osservatore della società del suo tempo, ovvero sdegnato e sofferto testimone dell’agonia della sua amatissima terra.

Gli epigrammi

Il Duca di Maddaloni sarcastico cronista dell’attualità politica e mondana parla negli epigrammi, ove è condensato humour e disdegno verso l’establishment napoletano postunitario. I suoi versi pepatissimi erano – possiamo immaginarlo – terrore e attrazione dei salotti, giocando su tutta la gamma degli effetti, salaci, galanti, sferzanti, bonari, dal pettegolezzo all’invettiva.

Fu Salvatore Di Giacomo a curare nel 1894, alla morte del Duca, la pubblicazione di 183 epigrammi[5] composti nel corso degli anni, con la sua prefazione (v. sopra e nota n.6) che è quasi una pièce teatrale con alternanza di scene ad effetto: quella lugubre e improbabile del Duca moribondo ma restio a pentirsi del suo passato di viveur, l’intermezzo da commedia con la pia sorella Anna che consegna ingenuamente a Di Giacomo i luciferini epigrammi, l’elegia sul gran signore napoletano che contempla dalla finestra di palazzo Cellammare la sua amata città e accoglie il visitatore:

«Duca?»

«Oh…figlio… buongiorno…»

«Come state?»

«Nun vide? Sto murenno…»[6]

La prefazione di Di Giacomo conclude con quello che, rimosso un passato scomodo, si riteneva dovesse restare nella memoria dei napoletani:

«Noi d’oggi che pur tanti – sorridendo – ascoltiamo laudatores temporis acti, al cospetto d’uomini somiglianti dobbiamo credere che davvero qualche cosa c’è stato, a tempo loro, qualche cosa s’è fatta. Non dimentichiamo, dunque, queste senilità d’opera così costante, e così giovani, fra noi giovani così già vecchi. Però questo volumetto rinnovi l’immagine del Duca a’ sonnecchianti occhi nostri, gravati dalla contemplazione astratta d’un soffitto d’un caffè o intorpiditi dalle ciance di un vicino, dal vaniloquio di un qualche nullo. Io vorrei che ci facesse esclamare ancora una volta, come seguiva al tempo di quell’apparizione desiderata e liberatrice: – Toh! Finalmente! Ecco il Duca! – »

 

           2                   Alle ciarle non più batto le mani,

                                 conosco assai questi liberaloni,

                                 Bruti a digiuno, ed al poter Sejani.

 

11                              Con sovrano decreto

                                  il conte Tommasino è nominato

                                  del Santo Padre camerier segreto.

                                  Lo dice a tutti, ma dovria tacere.

                                  Pel suo troppo parlar che segue? E’ chiaro:

                                  sfuma il segreto e resta il cameriere.

 

20                              Ammaestrati i porci,

                                  i buoi, ogni animale,

                                  di ciuco non ci resta

                                  che il corpo elettorale.

 

44                              Lidia geme e sospira

                                  e col fato si adira

                                  che ogni dì più s’appressa ai quarant’anni.

                                  Ma io temo s’inganni

                                  e la paura sia bugiarda e vana:

                                  chè ogni giorno di più se ne allontana.

 

71                     Un ladruncolo ieri iva in prigione,

                                  ed io chiedendo a lui: “Per qual ragione? “

                                  “Si sa” mi rispondea “solito gioco:

                                   ci vò perché ho rubato troppo poco.”

 

       86                       Il compito mi par che ben sia questo

                                  della musica tua, Wagner mio bello:

                                  svegliar chi dorme e addormentar chi è desto.

 

       89                     Che dalle scimmie deriviam non credo,

                                  Darvin, secondo i magni tuoi trovati:

                                  ma che alle bestie decliniam ben vedo.

 

90                              Silvio partì da Napoli cinghiale

                                  ma, grazie alla francese civiltà,

                                  ritornato è maiale.

 

94                              Immortali ne rende

                                  senza dubio, la gloria che ci onora:

                                  delle patrie battaglie i nostri reduci,

                                  invece di scemar, crescono ognora.

 

98                              Quante statue erigiam noi!

                                  D’uomini forti e immacolati è rara

                                  la specie ormai.

                                  Suppliamo con i marmi di Carrara.

 

111                            Il Gran Legislator babbo Mosè

                                  della Legge le tavole ci diè.

                                  E i nostri bei legislator che fanno?

                                  La legge delle tavole ci danno.

 

146                            Perché non son pagati

                                  i nostri deputati?

                                  Perché sono impagabili

                                  per esser rispettabili.

                                  Ma io credo –e credi a me-

                                  che si paghino da sé.

 

Il Duca di Maddaloni e il suo doppio

Il Conte Durante (1864, ed. anonimo Italia), pubblicato sotto lo pseudonimo accademico di Ausonio Vero, fu scritto in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, la cui celebrazione dovè essere un’orgia di retorica, con strascico di cenotafi e monumenti, su cui assai ironizzò anche Imbriani in un testo famoso.[7]

Dà spunto al libro la pretesa degli unitari di annettere Dante tra i propri precursori e ispiratori, in quanto ghibellino e patriota.

Il Duca immagina che Dante, per abbreviare la sua permanenza in Purgatorio, venga inviato nella penisola, testé unificata. Il fatto che sia una penitenza, anticipa la prova a cui andrà incontro il poeta, che a un certo punto dirà che avrebbe preferito essere mandato all’inferno. Partendo da Firenze e concludendo il viaggio a Roma (con tappe nel nord e sud della penisola), il poeta, sotto il nome di Conte Durante, si troverà nella paradossale situazione di scoprirsi, in quanto Dante strumentalizzato come unitario ed anticlericale dalla cialtronesca élite del regno d’Italia, e invece sospettato e perseguitato come pericoloso reazionario nella sua vera personalità e idee. Via via che il testo (che ha un tono prevalentemente sarcastico, con una miriade di personaggi più o meno famosi, menzionati col loro nome o comunque riconoscibilissimi all’epoca) procede, si avverte sempre più l’identificazione tra l’autore e il personaggio del Conte Durante, fino all’inquietante effetto dell’incontro tra esso e… il Duca di Maddaloni, in una Roma dove dietro una facciata imponente e fastosa, si muovono fosche trame e nuovi tradimenti.

Dato che nella città partenopea (p.119) Dante già aveva avuto modo di rendersi conto della fondatezza delle accuse contro i «Piemontizatori a Napoli», e a Torino aveva letto la chiacchieratissima Mozione del Duca, è ben lieto di conoscerlo nella persona di

 

«…un uomo di quarant’anni o circa, forte di colore nella carnagione, vasto della persona, superbo nell’aria non nelle parole» (p.160)

«Come il Conte Durante non una volta aveva letto il nome del Duca di Maddaloni, onorato da ogni fatta d’ingiurie dalla serva stampa della nuova Italia, credeva veramente in lui fosse qualcosa di buono o almeno di non mediocre, e però non si dispiacque della novella conoscenza di quel napoletanissimo. Il quale trovatolo fiero di sua impopolarità più che non sel pensava, domandogli:

-Di grazia! Fossivo stato un giorno popolare?-

-Altro!…vedete quei giornalacci del 1848! Allora era Marcello!-

-Ora comprendo. Voi avete conosciuta la vanità del favor del vulgo, e come spesso costi l’abdicazione della propria volontà, il sagrificio della ragione e di ogni più nobile senso.-

E allora il Duca, richiesto, prese a contargli dei fatti suoi, del come sorgendo Italia alla voce del gran Pio, egli italiano e cattolico e liberale, anch’egli si levasse a chiamar franchigie e a desiderare una confederazione degli Stati italiani, per la quale fu poi deputato ministro plenipotenziario l’anno 1848, non ancora compiuto il quinto lustro. La confederazione degli Stati non essendosi allora potuta operare, né già per la opposizione del Papa (come chi ignorantissimo di ciò che allora si passò osava affermare) ma per i brogli e il capzioso rifiuto di Re Carlo Alberto; il Duca si ritrasse a Napoli e venne deputato al Parlamento. Esule poi il 1849, tuttoché affatto innocente del dibordare di quella rivoluzione, ripatriava nel 1857 per grave infermità. Succeduta l’iniqua soggezione del Napoletano l’anno 1860, venia deputato al Parlamento di Torino da quel collegio medesimo che il 1848 avevalo mandato a quello di Napoli. Però vedendosi chiamato alla difesa dei diritti di una nazione conculcata e seguendo il costume dei Giacobiti in Inghilterra, dei Legittimisti e dei Repubblicani in Francia ecc., divisò a andare Torino. Ma, come vi fu, si accorse non esservi loco per esso; quella del Palazzo Carignano essere loggia di settarii, non assemblea popolare, nella quale tutte le opinioni possono combattere. (..) Vergognando della compagnia deliberò abbandonar quel campo issofatto. Ma non volle uscirne silenzioso ed inutile, e però solennemente protestava contro alle infamie della rivoluzione per la sua famosa mozione d’inchiesta, onde fu minacciato della vita e costretto a esulare, segno alle maggiori ire della fazione. La quale, non trovando da appiccicargli nemmeno una calunnia, veniva strombazzando disertore lui il Duca di Maddalone, stato sempre cattolico e federalista. E così incocciava a dirlo un sodalizio famoso per lo accorrervi  di ogni fatta di apostati e traditori, preti, laici, soldati, che ha ministri e caporioni uomini già stati servi ai Papi, all’Austria, ai Duchi della Toscana e dell’Emilia, ai reali di Napoli ecc…» (p.161)

 

Il Conte Durante conviene col suo interlocutore:

 

«…nuovo disertore sarebbe  quello di che vi appuntano, il passar dal campo dei vincitori alle trincee dei vinti…» (p.161)

 

Il nucleo più tragico e impressionante del testo è il viaggio del Conte Durante nel Sud d’Italia, in cui la cornice narrativa rimane sullo sfondo dell’accorata descrizione dello stato delle province meridionali e delle stragi della lotta al banditismo con il racconto di molti episodi raccapriccianti riguardanti l’applicazione della legge Pica e quella sulla leva obbligatoria. Amarissimo quindi, nonostante le pagine che volgono al ridicolo i fasti politico-mondani della classe dirigente unitaria, è il bilancio del viaggio in Italia del Conte Durante, che si trova infine ad aver più che scontato ogni residua pena e accede al Paradiso. Nel frattempo a Torino i giornali danno conto, con dovizia di particolari, che un provocatore, tal Conte Durante, spia della reazione, ovvero emissario del Borbone e dei preti, anzi agente austriaco, si era infiltrato nelle celebrazioni dantesche:

 

«…così via via del tenore medesimo, come da fiumi le irrigazioni, venia scribacchiando quella stampa italiana, alla cui libertà e indipendenza sospirammo quindici anni, incanagliandoci con queste maschere di filopatri, i quali chiarironsi birri da allogare ned altro, quando fu stagione di toglier la buffa.» (p.226)

 

 

Il Conte Durante – mai ripubblicato e raro anche sul mercato antiquario – è un testo che si svolge su molti piani, tra considerazioni  generali e profonde, e cronaca, per quanto se ne perda alquanti riferimenti a persone ed eventi inghiottiti dall’oblio; è triste constatare come i mali del nuovo Stato nazionale fossero riconoscibili e riconosciuti sin dalle origini nella sua classe politica opportunistica, rapace e ignorante, con relativi annessi burocratici, giornalistici, culturali e mondani, con la sua subordinazione alle mode e all’«estero», con la copertura ideologica di interessi e speculazioni. Insomma, la casta.

Quanto invece alla lettura banalizzante e strumentale di Dante da parte dei rètori unitari, è la nostra epoca che ahimè può vantarne il primato.

 

Il monumento a San Francesco

Stanislao Lista, Monumento a S.Francesco nell’Ospizio marino di Posillipo (disegno dell’epoca)

 

Nel 1876, il Duca di Maddaloni fu colpito da un gravissimo lutto, che lo tenne lontano per molto tempo da ogni frequentazione pubblica: la morte del figlio Carlo Alberto, di soli 29 anni; dopo due anni, morì anche la moglie. Rimasto solo con la sorella Anna, trovò nella sua fede religiosa il conforto e poi l’impulso a riprendere a scrivere, pubblicando, all’inizio degli anni 80, La leggenda del poverello di Assisi[8], per contribuire al finanziamento del monumento a San Francesco nell’Ospizio

Marino a Posillipo, progetto promosso da Padre Ludovico da Casoria per il settecentesimo anniversario della nascita del Santo d’Assisi. (Nell’immagine qui a fianco: Vincenzo Galoppi Ludovico da Casoria predica nella Chiesa di San Raffaele”, seconda metà del XIX secolo). Il Duca aveva stabilito uno stretto e profondo rapporto con San Ludovico, abbracciando la regola del terz’ordine francescano. Il monumento, scolpito da Stanislao Lista e inaugurato nel 1882 raffigura San Francesco, che in atto benedicente impone le mani su tre famosi terziari: Dante, Cristoforo Colombo e Giotto.

Negli stessi anni  pubblicò anche altre due opere che in modo diverso testimoniano la sua sensibilità ai problemi contemporanei e il suo interesse a leggerne le costanti storiche: il romanzo Il divorzio di Lady Flora e il saggio storico Pilato.

 

La “storia moderna” contro il divorzio

Il divorzio di Lady Flora (Stabilimento Tipografico Cortile della Cassazione, Napoli 1881) è un testo che professa le posizioni antidivorziste dell’autore, volendo dimostrare, con un esemplare intreccio romanzesco ambientato nel Regno Unito, come l’eventuale istituzione in Italia del divorzio, anziché sanare le situazioni, le renderebbe più gravi e dolorose.

Le due anime del romanzo non riescono ad armonizzarsi, l’una facendo capolino con commenti e digressioni, l’altra inanellando complicazioni e scene sentimentali. (Nell’immagine, qui a fianco: James Tissot, Too Early, 1873). Si capisce però l’intento del Duca: intervenire nella discussione sull’istituzione del divorzio – sul fronte opposto si erano schierati la Deledda e Meleri – descrivendo con ironia un ambiente e costumi, quelli dell’alta società inglese, da lui ben conosciuti[9], e come uno che non aveva nei confronti delle grandi nazioni europee alcun complesso reverenziale, ma le guardava dall’alto di una cultura e di una civiltà superiori.

Ecco per esempio un corteggiamento “all’inglese” (p.87):

 

          «Ed in Inghilterra, non si fan molte parole in amore. Forse perché l’amore è più vero, malgrado la scorza sia più fredda. Non si fan molte dichiarazioni, o veramente si dichiarano a modo loro. Per esempio, un giovane che mandi a una miss per due giorni di seguito il Times, le fa una bella e solenne spiegazione d’affetto. Per un italiano che mandasse ad una nostra signorina, per due giorni di seguito, due numeri del Piccolo o del Pungolo sarebbe come se le facesse una dichiarazione di guerra. Ma non così di là dalla Manica. E sia valore del diario della City, sia la rapida comprensione di quelle genti, gli è indubitato che due numeri del Times, mandati consecutivamente, costituiscono il prodromo di un matrimonio, lo stabilimento di una nuova famiglia, il principio di, Dio sa, quante gioie e quanti guai».

 

Con le debite proporzioni, nel romanzo si respira a tratti un’aria imbrianesca, nella ridicolizzazione dell’obbligo all’adulterio romantico, fonte di effimeri piaceri e di permanenti fastidi.

Lo humour non è comunque rivolto solo ai sudditi della Regina e ai loro emuli, ma serpeggia anche nel finale del romanzo, dove l’accoglienza dei coniugi divorziati, pentiti e riunitisi, nella Roma papalina, tra nobildonne devote e monsignori, risolve il caso, perché il secondo matrimonio di Lady Flora è nullo, i due si convertono al Cattolicesimo, sono ricevuti dal Papa, e ritornano felicemente in patria, in famiglia e nel loro ceto. Il malaugurato seduttore, per degno contrappasso, rovinatosi al gioco, si suiciderà gettandosi nelle gelide acque del lago di Ginevra.

 

Il «saggio istorico» su Pilato.

In Pilato[10] il Duca affronta un personaggio che ha più volte attirato l’attenzione, nei suoi aspetti politici e morali, mentre le fonti, oltre i Vangeli, sono ad oggi sempre le stesse, e la libertà di fantasticare assai ampia (ultimamente l’episodio è stato inteso nientemeno che come l’inizio della modernità. Mah.). Il Duca di Maddaloni, modestamente e scrupolosamente attingendo alle suddette fonti, racconta la vita e le vicende del prefetto della Giudea con capacità evocativa e competenza sui meccanismi di funzionamento dell’Impero romano, rifuggendo da toni di romanzo (Ben Hur è del 1880, Quo Vadis uscirà nel 1894).

 

Antonio Ciseri, Ecce Homo, 1871, Gallaeria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze

 

Appare probabile che Ponzio Pilato fosse uno dei tanti carrieristi le cui sorti si decidevano in base al destino dei pezzi grossi a cui per far carriera si erano legati. Quel «Cos’è la verità» – che il Duca sottolinea non avere il punto interrogativo, e quindi essere un’altra forma del “lavarsene le mani”- appare la banalizzazione di un atteggiamento sofistico, tipica dell’alta burocrazia dell’Impero (più che un segno d’inquietitudine moderna). Pilato, avendo scelto a suo tempo di non fare la carriera militare, poteva accettare, in cambio di concreti profitti e privilegi, l’impopolarità di svenare con le tasse e reprimere con la forza le popolazioni, ma era indifferente ai princìpi, compreso quelli formali, visto che il processo a Gesù si svolge nella più totale illegalità (quanto alle leggi dell’Impero).

Il Duca non tenta ipotesi sensazionalistiche, fa una rassegna delle fonti se contrastanti, attinge a tradizioni, leggende, narrazioni apocrife ove – osserva – se c’è molta fantasia e pochi dati certi, c’è comunque l’atmosfera, le tipicità di quei luoghi e tempi lontani. Da tali fonti trae la figura di Claudia, moglie di Pilato, caratterizzata con commossa poeticità. L’atteggiamento dell’autore verso l’aspetto teologico, di fede, del racconto evangelico, è di grande delicatezza:[11] come fosse una luce che splende radiosa e misteriosa, al di là delle ombre sanguinarie che si agitano in primo piano, imperiali, cortigiani, sette giudaiche. Chè infatti

 

«… quale degli uomini non sa la mestissima delle storie? E come ripeterla in modo degno della sublimità del soggetto? (…) Solo la divina semplicità del Vangelo il seppe fare…» (p.285)

 

È quando tratta delle situazioni ed avvenimenti politici, che il Duca di Maddaloni si fa avanti, rilevandone le tragiche costanti dal I al XIX secolo: sofferenze e miseria della povera gente, rapacità e sfrenatezza dei potenti; e nel mezzo una gradazione quasi infinita, che va dai miseri opportunisti agli ambiziosi pronti a tutto. Nel suo raffronto col presente, con la dappocaggine dei politici di fronte a problemi e decisioni serissime, ritorna quel “lavarsene le mani”: in trasparenza, nell’antica provincia dell’impero, si indovina un Regno delle Due Sicilie, tradito dai suoi notabili, governato da figure locali avide e opportuniste, depredato e soggiogato con la corruzione e con la forza.

Il saggio, concludendo sulle atroci vicende del periodo finale del regno di Tiberio, segue Pilato fino alla morte, intorno alle quale sono bensì fiorite ipotesi e leggende; la narrazione iniziata con l’approdo  delle sontuose triremi al porto di Giffa caldo di sole e fragrante di frutteti e giardini, si chiude su (possibili) panorami nordici, nelle luci livide di un’inospitale Gallia, o in acque gelide, fino nel cuore della Svizzera, in un laghetto sul monte nei pressi di Lucerna, che da tale leggenda ha preso il nome: Pilatus.

 

Nel 1883 il Duca di Maddaloni fu eletto nella lista cattolica al Consiglio Comunale di Napoli, che frequentò poco e svogliatamente; fu invece sempre interessato a discussioni e ricerche in campo storico, filosofico e letterario, avvicinandosi anche alla rivista romana La Rassegna italiana, che puntava a inserire i cattolici nel dibattito nazionale. Membro di accademie e di circoli eruditi, condivise attivamente il crescente interesse dell’epoca verso le tradizioni popolari e il folklore (che tanto impegnò anche Imbriani).

 

Davanti al Presepe

Ne è un esempio l’ampia e densa prolusione letta all’Accademia Pontaniana il 3/1/1889 sul tema “Il Presepe”[12], nella quale con il consueto scrupolo di ricercatore, felicità evocativa e vis polemica, ripercorre le origini del presepe e passa in rassegna i presepi storici napoletani, verso cui, dopo dispersioni e distruzioni lamentevoli, vi era gran fervore, tra devozione e collezionismo (l’uno non necessariamente disgiunto dall’altra). Riferisce fra l’altro del suo rapporto con Michele Cuciniello, anch’esso autore di teatro, che nel 1879 aveva curato, da esperto di scenografia, nella Certosa di San Martino l’allestimento del “suo” presepe.

Il testo si conclude con un vivace episodio, che vuole rispondere sorridendo alla vecchia questione dell’anacronismo e dell’eccesso profano di abiti, arredi, suppellettili ecc. nel presepe napoletano settecentesco e posteriore, nel quale la rievocazione sacra può apparire un particolare se non un pretesto.[13]

«Di grandi e ricchi presepi fànnosi ancora nei casali dell’Agro Nolano. Ne vidi uno bellissimo, or son dieci anni, a Saviano, nell’oratorio di, non ricordo, qual Confraternita del contado. Vi si rappresentava tutta la trilogia del Natale, come già dalle nostre dame di Donna Romita. E ricordo anche come, parimenti, nella Strage degli innocenti, vedessi un bel villino, civettuolo, con persiane verdi, ed Erode il Grande, vestito da pascià, a non quante code, sedente al balcone, sorsando una tazzolina di caffè, come usano i nostri borghesi villeggianti a Portici.

Mi sbellicavo dalle risa. È naturale. Ed allora il buon Rettore dell’Oratorio, riprendendomi, con bel garbo:

Ecco, vedite –mi diceva- chesto se fa pecchè’o popolo putesse rentennere quant’era ‘nfame chill’Erode. Mentre facea scannà tant’aneme nnocente, isse po’, comme niente fosse, se pigliava nu tocchetto, for’ ‘o balcone!-

Non ebbi che rispondere: e, ricordando i tanti anacronismi e le tante bizzarrie di Tiziano, di Paolo Veronese, del Rubens, del Rembrandt e dello stesso Michelangelo e del nostro Salvator Rosa, dottissimi entrambi, mi accomiatai, dicendogli:

– Bravo! Avete fatto bene.» (p.70)

 

Al di là dei suoi interventi e delle sue opere, il Duca di Maddaloni costituì sempre come persona un punto di riferimento per il mondo culturale napoletano, nonostante o forse proprio perché testimone di un mondo scomparso e di uno stile di vita travolto dalla modernità. Nella sua casa di palazzo Cellamare, da un incontro tra Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo, nacque la rivista Napoli nobilissima.

Morì a Napoli il 25 aprile 1892.

Sipario

 

Scenografia teatrale, seconda metà XIX sec. 

 

Croce e delizia della carriera letteraria del Duca di Maddaloni furono le opere per il teatro. Esse costituirono un suo costante interesse, forse anche per l’aspetto scenografico, sempre emozionante, complesso ed incerto della messa in scena e del rapporto col pubblico. Ebbe la soddisfazione di concludere la sua carriera di drammaturgo nel 1889 con il grande esito di Ruit hora, in cui si distinse per la prima volta la giovanissima Tina Di Lorenzo.

Nei seguenti versi dal dramma Gaspara Stampa,[14] che fu invece il primo e restò forse quello di più duraturo successo, sentiamo il Duca di Maddaloni affacciarsi da dietro il velario, in una posa scaramantica:

 

La Motte – Ebben, tal sia… Non sdegnerà… Commedia,

                   Mio signor Conte di Collalto, è tutto

                   Delle cose del mondo.

 

Collalto – Ma, badate,

                  Vi ha commedia applaudita, e v’ha commedia

                  Fischiata.

 

La Motte – Bravo! E la sarà applaudita.

 

(2 – fine)

 

[1]     Il libro di Giuseppe F. De Tiberiis, sotto l’eloquente titolo Le ragioni del Sud E.S.I.1969 porta come testimonianza biografie e testi del Duca di Maddaloni (la Mozione), di Pietro Calà-Ulloa, di Enrico Cenni e di Giovanni Manna.

[2]     Il più ampio e vivace è quello pubblicato da Federico Verdinois e raccolto nel volume Profili letterari napoletani di Picche (Cav.Antonio Morano ed., Napoli 1881) in cui così conclude (p.44):

Ora il duca di Maddaloni, datosi tutto all’arte, lavora con assiduità tedesca e foga giovanile. Accoppia alla nobiltà dei natali quella ancor più nobile dell’ingegno e della coltura, esempio o rimprovero ai giovani della nostra aristocrazia.

[3]     Salvatore di Giacomo, Opere vol.II (Cronache) Il Duca di Maddaloni p.839  Ed. Mondadori 1946.

[4]     Giovanni Artieri, Napoli nobilissima, ed.Longanesi 1955.

5     Francesco Proto duca di Maddaloni, Epigrammi. Luigi Pierro editore Napoli 1894. Negli anni ’60, ne è stata pubblicata una scelta, in abbinamento con quelli del Marchese di Caccavone.

6   In Napoli nobilissima op. cit., pp.30/32, Artieri, riferendo di una sua visita nel 1948 a Benedetto Croce a palazzo Filomarino, fa un’identificazione tra l’anziano filosofo e il duca, ripetendo le parole di Di Giacomo, «Solo: egli ora era solo là dentro, egli che era stato tanto con ogni cosa viva e con tutti.”. Croce, per parte sua, aveva in quell’occasione citato a memoria un irridente epigramma inedito del duca di Maddaloni. Artieri parla poi del decesso di Croce (1952): «Era morto sulla sedia come il duca Proto, nel suo grande palazzo, ascoltando il brusio della città…».

[7]     Il monumento a Dante a Napoli, pubblicato nel 1871 sul giornale La nuova Patria e raccolto in Vittorio Imbriani, Passeggiate romane ed altri scritti di arte e varietà inediti e rari, a cura di Nunzio Coppola, Fausto Fiorentino editore Napoli 1967.

[8]     Tipografia Degli Accattoncelli, Napoli 1881 2 voll. “A benefizio del monumento da erigersi in Napoli, rappresentante S. Francesco di Assisi con i tre terziarii, Dante Giotto e Colombo”.

[9]     Francesco Proto, allora duca dell’Albaneto, aveva sposato Harriet Vanneck (1816/1878), figlia di Gerard, figlio del terzo Barone Huntingfield.

[10]   Pilato, saggio istorico del Duca di Maddaloni. Tip. e Libr. Arciv. Boniardi-Pogliani, Milano 1883. La pubblicazione del libro diede occasione ad un beffardo epigramma, anche autoironico (in Epigrammi op.cit. n.12):

Cecco mi porta il broncio

dicendo che il mio Saggio su Pilato

a cani e porci ho dato

e a lui non già. Dio buono!

Quando ai cani ed ai porci lo darò

di darlo pure a lui non mancherò.

[11]   Più volte nelle sue opere il duca si riferisce con insofferenza a Ernst Renan (1823/1892) e all’impostazione positivistica e sentimentale della Vita di Gesù (1863), libro di gran moda all’epoca.

[12]   Il testo è pubblicato in: Franco Mancini,  Il presepe napoletano, scritti e testimonianze dal secolo XVIII al 1955, Società editrice napoletana 1983.

[13]   Questione ben superata dagli eventi, dato che l’attacco dissennato alle tradizioni religiose cattoliche (soprattutto il presepe, per il suo legame con l’infanzia) ne ha per contrasto e drammaticamente messo in risalto il profondo significato morale e identitario. La miniaturizzazione dei luoghi e della comunità umana ha un forte valore simbolico, e mette in scena la plausibilità e l’immanenza del sacro.

[14]   Gaspara Stampa, dramma in versi in 5 atti di Francesco Proto Pallavicino duca dell’Albaneto, tipografia di Gennaro Fabbricatore del fu Gennaro, Napoli 1858, Atto II scena I.

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