Nel giorno dei funerali di Carlo Alberto dalla Chiesa, che si tennero 40 anni fa, il 4 settembre 1982 nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di avere lasciato solo il generale. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti.
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente eliminate le corone di fiori comprate dalla Regione Siciliana (all’epoca era presidente Mario D’Acquisto) e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola, il berretto della sua divisa da Generale dei Carabinieri con le relative insegne, nonché la sciarpa. Il cardinale Pappallardo, dal canto suo, pronunciò nell’omelia queste parole, ispirate a Tito Livio: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo»
Il Generale dalla Chiesa fu lasciato solo dalle autorità nei 100 giorni da prefetto di Palermo. Mentre aspettava invano i «poteri speciali» da Roma, provò a difendersi come gli era possibile, come accadde anche la sera del 3 settembre 1982. Prenotò a suo nome un tavolo in un ristorante per poi recarsi a cena altrove. Il clima nei suoi confronti era diventato pesantissimo nel capoluogo siciliano perché negli ambienti politici e istituzionali erano trapelate informazioni sulle prese di posizione di dalla Chiesa circa le attività antimafia e il silenzio che era calato intorno ai suoi interventi pubblici contro la mafia l’aveva allarmato.
Era un uomo vero, onesto, intelligente e giusto, era un piemontese tutto d’un pezzo, dunque dalla tempra subalpina, sabaudo-militare. Era un Carabiniere ed è morto da Eroe. Le origini erano di Saluzzo, in provincia di Cuneo, dove era nato il 27 settembre 1920. Figlio dell’ufficiale dell’Arma Romano dalla Chiesa, entrò nel 1941 nel Regio Esercito, dapprima frequentando la scuola allievi ufficiali di complemento di Spoleto, in seguito prestando servizio in fanteria come sottotenente nel 120º Reggimento fanteria «Emilia», partecipando per dieci mesi all’occupazione del Montenegro e ricevendo due croci di guerra al valore. Nel 1942 transitò nei Reali Carabinieri e fu inviato a comandare la tenenza di San Benedetto del Tronto, dove rimase fino alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
Dopo un periodo trascorso nella resistenza della Brigata Patrioti Piceni, nel luglio del 1943 si laureò in giurisprudenza all’Università degli Studi di Bari, dove il padre Romano era comandante della locale Legione Carabinieri. Dal Regno del Sud venne poi inviato a Roma per seguire gli alleati nel loro ingresso nella capitale, dove fu incaricato di garantire la sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell’Italia liberata. Nel 1944, quando comandava una tenenza di Bari, conseguì in questa città la seconda laurea in Scienze politiche e, contemporaneamente conobbe la sua prima moglie, Dora Fabbo, che sposò nel 1946.
Entrò presto nei labirinti criminali del banditismo campano e siciliano, dove fu posto ad operare con brillanti risultati. Nel 1949 in Sicilia, con il grado di capitano, al Comando delle forze di repressione al banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, contribuì ad eliminare le bande di criminali nell’isola, come quella del celebre Salvatore Giuliano. Continuò ad agire sul campo e fra i diversi incarichi assegnati ebbe quello di indagare e incriminare l’allora emergente boss della mafia Luciano Liggio.
Dall’unione matrimoniale ebbe tre figli: Rita nel 1947, Nando nel 1949, Simona nel 1952. Trasferito dalla Campania alla Sicilia, da Firenze a Como a Roma, nel 1964, passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria della Corte d’appello di Milano per poi dirigerlo. Ma il suo destino lo chiamava nuovamente in Sicilia, dove rimase dal 1966 al 1973 con il grado di colonnello, al comando della Legione Carabinieri di Palermo, periodo nel quale ebbe modo di distinguersi anche nelle operazioni di soccorso della Valle del Belice, colpito da un tragico terremoto nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968.
Dalla fine degli anni Sessanta, dalla Chiesa iniziò una efficiente collaborazione con la Commissione parlamentare antimafia, cui presentò numerosi rapporti e schede di mafiosi, venendo citato in audizione numerose volte per illustrare lo stato delle inchieste antimafia. Il risultato delle indagini sulle cosche mafiose fu il noto «Rapporto dei 114» del giugno 1971, redatto congiuntamente da Carabinieri e Polizia, nel quale erano denunciati centinaia di mafiosi per associazione a delinquere. L’innovazione voluta dal Generale fu quella di non mandare i boss arrestati al confino nelle periferie delle grandi città del Nord Italia e pretese invece che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara, Lampedusa.
Grazie alle eccellenti sue operazioni, venne convocato per intervenire contro un altro tipo di criminalità organizzata: le Brigate Rosse, che avevano dichiarato guerra allo Stato. Per affrontarle il Generale utilizzò gli stessi sistemi sperimentati nelle organizzazioni mafiose siciliane, infiltrando alcuni uomini dentro gli stessi gruppi terroristici, con lo scopo di venire in possesso delle loro mappature di potere interno. Fu una linea innovativa: all’organizzazione da colpire oppose la capacità di sviluppare una risposta basata su conoscenze specifiche raccolte da gruppi investigativi specializzati.
Selezionò dieci ufficiali dell’Arma dei Carabinieri per fondare nel maggio del 1974 la struttura «Nucleo Speciale Antiterrorismo», con base a Torino e nel settembre dello stesso anno riuscì a catturare, a Pinerolo, Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori e leader delle Brigate Rosse. Nel febbraio del 1978 morì la moglie: fu un tempo di grande dolore, che superò gettandosi capofitto nella lotta contro i brigatisti. Si organizzò in sinergia con la magistratura, che adottò gli stessi criteri costituendo anch’essa gruppi specializzati come i pool. Queste innovazioni furono accompagnate da una normativa premiale, anch’essa innovativa, che aprì la strada al cosiddetto «pentitismo» e per le Brigate rosse fu l’inizio della fine e tali strategie permisero di assestare un colpo durissimo anche a «Cosa nostra», da qui verranno le grandi inchieste del pool Falcone e Borsellino.
Il 9 agosto 1978 dalla Chiesa fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali per diretta determinazione governativa. Si trattava di una sorta di reparto operativo speciale contro le Brigate Rosse, alle dirette dipendenze del ministro dell’Interno, a quel tempo Virginio Rognoni, fra i vari compiti era compresa la ricerca degli assassini di Aldo Moro
La concessione di poteri speciali al generale dalla Chiesa fu vista da alcuni come pericolosa o impropria: le sinistre estreme arrivarono a considerarla come un «atto di repressione». Ricevuto l’incarico, egli decise di stringere il cerchio intorno ai vertici delle Brigate Rosse e ottenne l’obiettivo: arrestò Rocco Micaletto e Patrizio Peci nel febbraio 1980, il quale collaborò, rivelando fatti e persone importanti, contribuendo allo sgretolamento delle BR.
Il Generale rimase comandante della prima divisione Pastrengo fino al dicembre 1981, ma l’operazione dei bliz portati a termine sulle BR crearono malumori, in quanto lo si accusò di non aver rispettato le regole d’ingaggio degli agenti catturatori. «Avevo l’impressione», lascia scritto Carlo Alberto dalla Chiesa nel bellissimo Diario e Dialogo con la moglie scomparsa, «che mi si volesse togliere l’incarico. E se davvero c’era una volontà di farlo, andò a segno».
Il 16 dicembre 1981 fu nominato Vicecomandante generale dell’Arma, carica che aveva già rivestito il padre: la massima carica raggiungibile per un ufficiale generale dei Carabinieri, giacché all’epoca il Comandante generale dell’Arma doveva necessariamente provenire, per espressa disposizione di legge, dalle file dell’Esercito. Ma il 6 aprile 1982 il Consiglio dei ministri lo nominò prefetto di Palermo in una stagione in cui occorreva fronteggiare un’escalation di violenza mafiosa senza precedenti. Posto contemporaneamente in congedo dall’Arma, il 30 aprile si insediò nella città, il giorno stesso dell’omicidio (ordinato da alcuni capi mafiosi, fra cui da Totò Riina e Bernardo Provenzano) del politico e sindacalista Pio La Torre, una delle personalità palermitane che avevano sostenuto la sua nomina a prefetto. Il tentativo del primo governo Spadolini era quello di ottenere contro «Cosa nostra» gli stessi vincenti risultati ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa era perplesso inizialmente, ma poi fu convinto dal ministro degli interni Rognoni, che gli promise poteri fuori dall’ordinario per contrastare la sanguinaria guerra fra le cosche.
Conosciuta la crocerossina Emanuela Setti Carraro (1950-1982), originaria di Borgosesia, in provincia di Vercelli, la sposò il 10 luglio nella cappella del castello di Ivano-Fracena, in provincia di Trento.
Fin da subito, a Palermo, dalla Chiesa lamentò il mancato rispetto degli impegni assunti dal governo e, dunque, il mancato sostegno da parte dello Stato, che egli servì con convinta abnegazione, basti ascoltare e leggere i suoi discorsi e/o verificare le sue azioni. Le promesse sui «poteri speciali» non vennero mantenute. Intanto la mafia lo scrutava, lo esaminava, lo studiava.
Con amarezza dichiarò: «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì, se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti»[1].
Nell’agosto del 1982 rilasciò un’intervista a Giorgio Bocca, in cui dichiarò ancora una l’assenza di sostegno e di mezzi per la lotta alla mafia, che nel suo piano strategico doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza delle forze dell’ordine. In quella temeraria intervista ebbe anche a dire: «Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?». Quelle parole disturbarono non poco… e arrivarono le minacce di morte, seguite dall’assassinio.
Erano le 21:15 del 3 settembre 1982, non aveva ancora compiuto 62 anni. Il Generale si trovava sulla A112, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro. La loro auto, che transitava in via Isidoro Carini a Palermo, fu affiancata da una BMW, dalla quale furono scaricate raffiche di Kalashnikov AK-47, che crivellarono il Prefetto e la giovane consorte. Anche l’agente di scorta, Domenico Russo, venne colpito e per le ferite riportate morirà il 15 settembre.
Si legge nella Sentenza-ordinanza del Maxiprocesso che si terrà nel 1985: «L’assassinio Dalla Chiesa dopo l’assassinio Moro è certamente il delitto più grave della storia della Repubblica. Le carte di una sentenza giudiziaria sono di solito raggelanti. Le carte sulla vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa rappresentano invece la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste, manipolate».
Dopo 40 anni i processi hanno portato alla luce solo una verità parziale. Sono stati condannati i sicari e i vertici della cupola, fra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Ma tanti misteri permangono. Si legge nella sentenza che condannò all’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, e a 14 anni i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci: «Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale».
L’uomo dello Stato, per amor di patria, andò a Palermo, lo mandarono poiché nella lotta al terrorismo si era attirato il dubbio di tessere trame, in realtà la congiura si è accanita contro di lui, tanto «da alimentare la convinzione che si decise di mandarlo a Palermo senza poteri “per liberarsi di lui e dei segreti di cui era in possesso”»[2].
La sera dell’efferato omicidio qualcuno andò addirittura a cercare in casa dalla Chiesa lenzuola per coprire i cadaveri dei due coniugi e allo stesso tempo ripulì la cassaforte dove l’eroico e solitario Prefetto teneva documenti scottanti, compreso un dossier sul caso Moro. Furono altri uomini di potere, oltre ai boss della Cupola, a condannare a morte Carlo Alberto dalla Chiesa e sua moglie Emanuela.
«Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli», Carlo Alberto dalla Chiesa
[1] P. Giordano con A. Cottone, Il sopravvissuto. L’unico superstite di una stagione di sangue. I miei anni in prima linea nella lotta alla Mafia con Borsellino, Falcone, Cassarà e Montana, prefazione di A. Ingroia, Lit Edizioni Srl, Roma 2012. Cfr. https://books.google.it/books?id=hjWnBAAAQBAJ&lpg=PP1&hl=it&pg=PP1#v=onepage&q&f=true
[2] https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2022/09/03/dalla-chiesa-mafia-e-terrorismo-storia-di-un-innovatore_92e709b2-5450-434a-bec8-f8402769ea0b.html Cfr. anche V. Coco, Il generale dalla Chiesa, il terrorismo, la mafia, Editori Laterza, Bari 2022.