Non poteva essere proposto termine più idoneo e convincente che «presidio» per definire l’operato di più di 50 anni di attività del Centro Studi Piemontesi, di cui si è parlato nella conferenza a tre voci dello scorso 21 giugno nell’elegante salotto colonnato e all’aperto di Palazzo Biandrate Aldobrandino di San Giorgio a Torino, in via delle Orfane 6, a pochi passi da Palazzo Barolo. L’incontro sul tema Un presidio culturale dal Piemonte all’Europa: il Centro Studi Piemontesi – Ca dë Studi Piemontèis è stato promosso dall’Associazione Amici del Museo di Reale Mutua, che a sede proprio nel Palazzo di San Giorgio[1].
Hanno preso la parola tre colonne del cenacolo culturale torinese, sorto l’11 giugno del 1969 per volontà di Renzo Gandolfo (1900-1987), in ordine di successione: Albina Malerba, direttore del Centro Studi, responsabile della rivista interdisciplinare «Studi Piemontesi» e autrice di diverse pubblicazioni; Rosanna Roccia, già direttore dell’Archivio storico di Torino, direttore della rivista del Centro e firma prestigiosa di studi storici; Gustavo Mola di Nomaglio, vicepresidente del Centro Studi Piemontesi, Consigliere dell’Associazione Amici della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e celebre esperto sulla storia e l’identità del Piemonte e dei piemontesi.
L’incontro è stato moderato da Enrico Genta Ternavasio, membro del Comitato scientifico del Centro Studi Piemontesi, Presidente dell’Associazione Amici del Museo Reale ed esponente accademico, il quale ha espresso vive lodi per i tre conferenzieri che proseguono nel percorso intrapreso tanti anni fa con lo stesso convincimento, gli stessi obiettivi e la stessa volontà delle origini del Centro Studi subalpino, detentori di ciò che potrebbe essere tradotto con un’espressione che fu cara a Renzo Gandolfo: «Conoscenza – e coscienza – attuale del passato piemontese», espressione che utilizzò nella sua conversazione tenuta al Circolo della Stampa di Torino nel 35° della fondazione del Centro, il 31 maggio 1984.
Non possiamo non ricordare alcuni passaggi di quella puntuale occasione gandolfiana: «Piemonte!: una parte di terra nelle cui strutture fisiche sono, dalla preistoria, insediati i gruppi destinati a divenire la gente piemontese; una unità singolare compostasi, attraverso secolari vicende, di varietà molteplici. […] gente operosa farsi abile a guidare, per altipiani aridi, canali e bealere, diradare le selve, e piantar viti, e roncare sterpeti e campi per i grani e per le erbe; e nelle pianure prosciugare paludi e acquitrini e far produttivi gerbidi e popolarli di armenti.
Susseguirsi di stagioni aspre e dolci; lunghi inverni taciturni e indulgenti alla riflessione; durare contro l’inclemenza delle temperie e congregarsi a difesa; e brevi estati per le fervide opere delle raccolte, brevi primavere fiorite e ilari per allietare i cuori e le menti.
E nei borghi operosi, nelle città, impiantarsi e moltiplicarsi il lavoro delle officine e delle botteghe a produrre ricchezza e franchezza di civici costumi e ordine di reggimenti civili». Fu una conversazione memorabile, che oggi diventa monito e sollecitazione, soprattutto quando Gandolfo spiegò magistralmente del sistema della Corte sabauda, dove il metodo del buon governo ricadeva positivamente e virtualmente sulla collettività, la quale aderiva consapevolmente al sistema amministrativo – ristretto a sé oppure pubblico – del «servizio»:
«La Corte dà il tono al viver civile, la capitale ne trae lustro e incremento; Torino si espande, si abbellisce in un fiorire di opere architettoniche, artistiche, sociali. La vita provinciale segue la capitale e si arricchisce delle sue promozioni. Le fiorenti relazioni internazionali attivano idee e scambi intellettuali. […]
Carlo Emanuele I, Carlo Emanuele II, il grande Vittorio Amedeo II dalle determinazioni di ampie vedute, Carlo Emanuele III.
Un re, un popolo, una comunità “ben fazionata a governo” per dirla col Botta; dove i ruoli sono definiti e noti e le relative funzioni si attuano nel concerto del “servizio”. Quel servizio che subordina e coordina l’operare del singolo con la finalità comunitaria cui il servizio serve: così che chi governa possa governare, verbo che nella parlata piemontese diventa usuale regola di vita; e lo usa il contadino per “goerné soe bestie”; il proprietario terreno per “goerné soa cassin-a”; la donna di casa per “goernela” nelle pareti domestiche; il singolo, in ogni situazione, per “goernesse”, per vivere regolato: senza cedere agli impulsi irrazionali: e per contemperare il côté fantastico, estroso ed irrazionale dell’anima individuale subalpina con il côté geometrico e razionale al quale l’anima sociale si subordina per obbedienza.
Una società dove c’è chi comanda e chi obbedisce, non per tirannia di despota ma per convinzione della utilità del servizio, singolo e collettivo; e lo stato ha l’orgoglio e la gelosia della sua funzione, e i cittadini sono consci di doveri e di diritti».
Nell’appuntamento torinese Albina Malerba si è particolarmente soffermata sulla riuscita intuizione di Gandolfo nell’affiancare agli intellettuali il mondo imprenditoriale, un sodalizio che egli ottenne con alcune realtà degli anni Settanta, che desideravano portare avanti insieme i valori della cultura piemontese. Il Comitato scientifico del Centro Studi Piemontesi ebbe vita già nel 1970: non si voleva compiere un’operazione accademica o di carattere nostalgico, bensì avviare un percorso dinamico e interdisciplinare nel recupero del vasto patrimonio subalpino, un cammino di impegno e di lavoro esaltante, che ha realizzato nei decenni una fertile produzione editoriale, una biblioteca, un archivio, un fondo fotografico, un apparato multimediale. Molte personalità hanno lasciato in eredità al Centro Studi di Torino fondi di pregio e di valore, come il fondo Gandolfo, Gasca Queirazza, Drovetti, Ricossa, Pichetto… Ha affermato Albina Malerba: «Nel 1972 si realizzò un sogno accarezzato da Renzo Gandolfo, quello di pubblicare la rivista di Studi Piemontesi», una corposa rassegna di studi interdisciplinari che osserva e analizza ad ampio raggio il territorio piemontese, uscita ininterrottamente dal marzo di quell’anno in poi. Possiede una diffusione internazionale ed è presente in tutte le più importanti biblioteche del mondo, ma è anche luogo di incontro fra studiosi subalpini, italiani, stranieri. Anche giovani ricercatori ambiscono a scrivere per la rivista, alcuni con successo, altri non rientrano a motivo dello scarso interesse giudicato dal Comitato scientifico o per assenza di spazio. Nel primo numero la rivista venne così identificata: rassegna di lettere, arti e varia umanità, aperta a tutti gli studiosi per il Piemonte di ieri e di oggi. Gandolfo fu l’anima dell’operazione, ne fu il direttore per quindici anni pur non volendo assumere ufficialmente tale titolo per ragioni che potremmo chiamare di nobile nascondimento subalpino: «Egli fu un vero gentiluomo, un galantuomo» di quelli che oggi è ben difficile trovarne ancora testimonianza.
Molte importanti firme sono passate e continuano a passare sulla solida ed autorevole pubblicazione culturale che riporta sempre in copertina l’insegna del Centro Studi Piemontesi, ovvero una tavola tratta dal Recetario de Galieno stampato da Antonio Ranoto a Torino nel 1526, che consiste in una ruota alfabetica e che ad ogni numero cambia di colore, di volta in volta scelto dalla responsabile della rivista.
L’interpretazione di Rosanna Roccia sulla ruota galenica è quella della forza e della potenzialità della scrittura e delle lettere, mentre il cerchio e le raggere secondo il suo punto di vista ricondurrebbero «alla circolarità della cultura che lievita e si espande e si interseca». Pertanto la rivista fa riferimento al ricettario medico di Galeno di Pergamo, come a dimostrare che oltre alla cura del corpo occorre prestare attenzione anche alla conoscenza delle nostre radici e della nostra storia, perché il nostro presente si cura anche attraverso l’aver cura del nostro passato. Nelle parole della Roccia è emersa la tenacia dell’operare secondo un principio da sempre presente nel carattere piemontese: la costanza nel senso del dovere, quello che non dà spazio alle chiacchiere quanto all’azione. Ed è per questo che, quando ci si avvicina al Centro Studi Piemontesi si rimane sorpresi e ammirati nel vedere quanti prodotti culturali sono usciti da questo “magico” e tuttavia fortemente realistico luogo, ricco di meraviglie e bellezze saggistiche, tutti contributi che arricchiscono il tesoro subalpino.
Gustavo Mola di Nomaglio ha voluto quindi rendere omaggio a Malerba e Roccia definendole «due donne granitiche», che in maniera lungimirante scelse lo stesso Renzo Gandolfo, al quale, ha ricordato il vicepresidente, «Torino ha dedicato una via, quella che precede via dell’Arcivescovado». «Gandolfo, al quale Giovanni Agnelli, come si può notare da una sequenza di fotografie, si chinò nel salutarlo, ha realizzato una fucina di giovani, una vera e propria palestra culturale». I soci sono oggi 800, ma il Centro Studi Piemontesi ha necessità di incrementare i suoi appartenenti perché la mole di lavoro è notevole e idee e progetti sono innumerevoli, tutto ciò non può far altro che dare lustro alla terra subalpina anche attraverso mostre, conferenze, eventi che questa istituzione continuamente realizza anche grazie alla collaborazione che si è venuta a creare con diversi importanti enti presenti sul territorio, guardando anche oltre confine.
La «Piccola Europa delle Alpi», come ha chiamato Mola di Nomaglio la dinastia Savoia, ha impresso nel temperamento subalpino e quindi nella sua linfa vitale e culturale una valenza europea, «ben più forte dei luoghi comuni» e fin dagli albori della sua esistenza, coordinate internazionali che oggi assumono una fisionomia ante litteram, attraverso le quali il Piemonte fuoriesce fieramente e plasticamente da un contesto pregiudizialmente considerato provinciale. Ecco perché il Centro Studi Piemontesi è sempre stato e sempre sarà un presidio, dunque una guarnigione di tutela, di vigilanza, di difesa, nonché trasmissione di identità e di valori che sono stati consegnati di generazione in generazione al «servizio» di tutti.
[1] Il Palazzo nobiliare seicentesco deve il suo nome al conte Guido Francesco Biandrate Aldobrandino di San Giorgio, cui fu donato nel 1612 da Carlo Emanuele di Savoia come omaggio per i suoi servizi militari. Dopo diversi passaggi di proprietà, nel 1877 l’edificio venne acquistato da Reale Mutua, che ne fece la sua sede fino al 1932. Un complesso restauro voluto dalla Compagnia fra il 2010 e il 2012 ha restituito il Palazzo al suo antico splendore, con la scoperta di preziosi soffitti lignei e di affreschi del secondo Seicento. Oggi Palazzo Biandrate ospita nei suoi locali dislocati al piano terreno gli ambienti del Museo e dell’Archivio storico della Compagnia.