Servitore del Popolo: il gioco politico di Zelens’kyj – Parte X

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Mentre Vasily Petrovyč si concentra sulla sua campagna fiscale, gli oligarchi ingaggiano uno scagnozzo per indagare sul Presidente ucraino, affinché scopra se è davvero così incorruttibile o se ha qualche scheletro nell’armadio. Potevano risparmiarsi la fatica, visto che l’abile giornalista Yana Klymenko, ancora una volta, mostra a Vasily Petrovyč, tramite un altro suo servizio televisivo, i comportamenti “bestiali” delle persone a lui vicine. Guardando il telegiornale, Vasily scopre che il padre, Petro Vasil’ovyč Goloborodko, fa il taxista senza licenza, così lo affronta immediatamente. Ovviamente, Petro pensa ai propri interessi; evitando le tasse, lui guadagna di più. Per questo non ha alcuno problema ad ammetterlo al figlio, il quale afferma di essere stato «derubato», in quanto Presidente dell’Ucraina, da lui e da quelli come lui. Ma se i soldi delle tasse finiscono nelle casse dell’erario, allora come fa il Presidente ad essere stato derubato? I soldi dovrebbero appartenere all’intero Stato…

Ad ogni modo, il padre, per difendersi, rivela che anche Svetlana Petrovna Sakhno, sorella di Vasily, evade le tasse. Ella lavora alle ferrovie e gestisce, senza licenza, un vagone ristorante insieme all’amante, dove vendono i liquori che i pazienti di Mariya Stefanovna Goloborodko, madre di Vasily, che fa l’infermiera, le regalano. La madre cerca di far tacere il marito, chiamandolo col suo nomignolo.

«Non chiamarmi “Petya”! Come se non lo sapesse…» risponde Petro, guardando il figlio, che rimane in silenzio, con la sua solita espressione inorridita.

«Non lo sapevi?» domanda il padre a Vasily Petrovyč. In risposta, egli dà le spalle all’intera famiglia e si chiude in camera sua.

Non è strano che un Presidente impegnato a cambiare il proprio Paese venga a conoscenza di ciò che succede in esso sempre e comunque attraverso il telegiornale? Non quanto lo è il fatto che venga a sapere delle proprie questioni familiari nello stesso modo.

Visto che per Vasily Petrovyč famiglia e popolo sono la stessa identica cosa, non si fa nessuno scrupolo a mettere dei posti di blocco, il giorno dopo, lungo il percorso che il padre avrebbe fatto, in modo che la polizia stradale gli controllasse i documenti e gli appioppasse una multa salata. Petro cerca di difendersi, ricordando all’agente che è il padre del Presidente, ma senza successo, visto che il Presidente stesso ha specificato di controllarlo, senza favoritismi. Ovviamente, Petro si sente tradito, quasi come Cesare quando ha ricevuto le pugnalate di Bruto.

Vasily Petrovyč, intanto, è sulla strada per raggiungere il palazzo governativo, tutto sorridente nell’immaginare la faccia del padre per la “sorpresina” che gli ha preparato. Ma la sua goduria viene spazzata via dalla vista di Marina, moglie di Tolja, già vista nel precedente episodio. Nel solo vederla, il Presidente s’infuria, mentre dovrebbe essere lei quella infuriata. Il “coraggioso” Presidente cerca di evitarla, nascondendosi ridicolosamente ed inutilmente dietro ad un tabellone trasportato da due operai. Visto che Marina lo ha comunque notato, lui l’affronta in maniera diretta, parlandole in malo modo, per poi cercare di andarsene. A questo punto, la povera donna scoppia a piangere; allora, Vasily Petrovyč, mosso a compassione, torna indietro, domandandole cosa voglia che faccia. La signora gli chiede semplicemente di parlare con il marito, affinché possa almeno aiutarlo a tornare in sé. Finalmente, il Presidente le viene incontro e promette di parlare con Tolja. Marina, felice, abbraccia istintivamente il Presidente, ringraziandolo, mentre tutti e due vengono fotografati dai passanti.

Intanto, Olha Jurijivna Miščenko sta per licenziare Dmitry Vasilyevich Surikov, Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Banca Nazionale, perché non sopporta più il suo atteggiamento, che sembra essere troppo arrogante per i suoi gusti. Tuttavia, Dmitry Vasilyevich sospettava delle intenzioni della nuova Direttrice della Banca Nazionale. Così, usa sfacciatamente la figlia, una bambina avuta con la sua ex-moglie, con una storia strappalacrime per commuovere il suo superiore e ci riesce, non solo salvandosi il posto, ma conquistando persino la sua simpatia. Infatti, appena ottenuto il suo scopo, il Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Banca rimanda ipocritamente la bambina dalla madre.

Ma più che Olha Jurijivna, è Michajlo Ivanovič Sanin, il Ministro delle Finanze, ad avere a che fare con i corrotti. Siccome nessun Ministro o Parlamentare ha voluto presentarsi da lui per il controllo delle loro finanze, Michajlo Ivanovič decide di andare personalmente al Palazzo Presidenziale, per incontrarli uno ad uno, in modo che non possano inventare più scuse per evitarlo. E ciascuno di loro, su carta, sembra avere pochi possedimenti, mentre le proprietà più lussuose sono a nome dei loro parenti: genitori, figli, fratelli, sorelle, mogli, mariti. Ovviamente, sono i politici ad acquistare e utilizzare le proprietà più interessanti, ma siccome sono tutte intestate a qualcun altro, possono evitare di pagare le tasse in un modo, con grande dispiacere di Vasily Petrovyč, assolutamente legale.

Vista la sua grande esperienza nel mondo fiscale, Michajlo Ivanovič capisce al volo questo trucco e ne discute con il suo amico Presidente, suggerendo di tassare ulteriormente i proprietari ufficiali, ma teme che questo possa scatenare la vendetta dei politici. Vasily Petrovyč prende la parola «vendetta» un po’ troppo alla lettera, associandola alla violenza fisica. E chi meglio rappresenta la violenza se non un mafioso? Ed ecco Vasily vede il suo quarto personaggio immaginario: Alphonse Gabriel “Al” Capone (1899-1947), conosciuto anche con il soprannome di Scarface (sfregiato), a causa di una cicatrice sulla guancia sinistra, fattagli circa nel 1917 da un certo Frank Galluccio, il quale lo colpì con un rasoio per aver espresso commenti pesanti sulla sorella.

Colpevole di molti atti violenti, come la famosa strage di San Valentino, avvenuta a Chicago il 14 febbraio del 1929, “Al” Capone era riuscito a diventare il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti. Eppure, la Polizia Federale riuscì a farlo processare unicamente per evasione fiscale.

Il boss mafioso immaginato da Vasily Petrovyč (o Volodymyr Zelens’kyj) si lamenta per essere stato incriminato proprio per evasione fiscale, dicendo che si sarebbe vendicato volentieri per questa “umiliazione”.

«Signor Capone» dice Vasily Petrovyč a Scarface «io so bene chi è lei. Sono uno storico, conosco bene tutte le sue gesta».

«Allora riesci a capirmi» risponde il personaggio immaginario «Quello che hanno fatto è stato un vero insulto, per me. Io, il re indiscusso del crimine, un contrabbandiere. Io, che uccidevo persone, gestivo bordelli, casinò e case di spaccio, sono stato perseguitato dal Governo degli Stati Uniti per aver evaso le tasse! Mi hanno beccato per aver nascosto pochi spiccioli. Io gli ho anche detto: “Va bene, fatemi pagare una multa”.

Ero disposto a farlo, pur di chiudere per sempre quella storia! Avrei pagato un milione di multe, un milione! Ma loro niente

Indovina che cosa hanno fatto. Mi hanno rinchiuso per ventidue anni».

«Pensavo fossero undici» lo corregge Vasily Petrovyč.

«Non sei mai stato ad Alcatraz, vero?».

«No…».

«Ogni anno lì vale doppio».

«Posso immaginarlo…».

Per questo discorso, penso che persino il vero Alphonse Gabriel “Al” Capone sia rivoltato nella tomba. Per prima cosa, l’attore che interpreta lo Scarface immaginario, non assomiglia per niente all’originale. L’attore è magro e ha il volto sguardato, mentre il boss mafioso era più in carne e aveva il volto dalla forma ovale. Un attore che ha interpretato “Al” Capone con una buona somiglianza fisica è stato Robert De Niro (New York, 17 agosto 1943), nel celebre film The Untouchables (Gli intoccabili) del 1987, diretto con diretto da Brian De Palma  (Newark, 11 settembre 1940) e scritto da David Mamet (Chicago, 30 novembre 1947), con la partecipazione di Kevin Costner (Lynwood, 18 gennaio 1955), Sean Connery (Edimburgo, 25 agosto 1930 – Nassau, 31 ottobre 2020), Andy García (L’Avana, 12 aprile 1956) e Charles Martin Smith (Los Angeles, 30 ottobre 1953).

Secondo, la mafia degli anni ’20 e ’30 non si sognava nemmeno di spacciare droga, perché i boss sapevano che essa avrebbe portato disordine all’interno dell’organizzazione, visto che, come si sa, quella roba riduce la forza di volontà e fa scatenare gli istinti, portando la persona allo sbando.

E terzo, la pena menzionata che il boss avrebbe scontato non è esatta. Il 17 ottobre del 1931, “Al” Capone fu condannato a pagare una multa di 50 000 dollari ed a trascorrere undici anni in carcere. Tuttavia, prima di andare ad Alcatraz, egli era stato inviato nel penitenziario di Atlanta, in Georgia, dove condusse una vita migliore rispetto al resto dei carcerati perché disponeva di lussi e privilegi, senza contare il fatto che potesse continuare a governare i suoi interessi anche all’interno della prigione. È nel 1934 che fu trasferito nel carcere di Alcatraz, dove ricevette trattamento che si era meritato, ovvero decisamente più duro, e tutti i contatti con l’esterno vennero interrotti, ponendo fine al suo impero. Tuttavia, “Al” Capone tornò in libertà già nel novembre del 1939; la sua condanna era stata ridotta a sei anni e cinque mesi per buona condotta e per i crediti di lavoro che aveva guadagnato in carcere. Ma ormai non poteva più essere una minaccia per nessuno, a causa della sua malattia (una sorta di sifilide), contratta in gioventù e riscontrata ad Alcatraz, che lo ha costretto a ritirarsi dal giro per curarsi, fino al giorno della sua morte (25 gennaio 1947).

Michajlo Ivanovič riporta alla realtà l’amico e gli domanda: «Vuoi farlo davvero?».

«Sì, Micha. Gli americani hanno avuto il coraggio di arrestare “Al” Capone, rinchiudendolo per aver evaso le tasse, e noi, adesso, ci dovremmo preoccupare di questi politici che non fanno altro che mentire? Con le loro madri, mogli, animali domestici? Se non abbiamo coraggio, non avremo mai dovuto iniziare».

Un bel discorso, soprattutto perché, per l’ennesima volta, c’è un elogio verso gli Stati Uniti d’America. Peccato che neanche loro erano pianamente contenti per aver condannato il nemico numero uno solamente per frode fiscale; se avessero potuto, l’avrebbero senza dubbio condannato alla sedia elettrica, visto tutta la violenza che aveva causato. Inoltre, a differenza dei federali americani, Vasily Petrovyč non ha a che fare con violenti boss mafiosi, bensì con politici corrotti.

Per concludere la giornata, il Presidente s’incontra, finalmente, con Tolja. I due, su richiesta di Vasily Petrovyč, si incontrano per strada, così il Governante risparmia tempo perché, mentre torna a casa, prima di cercare un taxi, fa due passi e parla con l’ex-capo della sicurezza presidenziale. Tuttavia, sembra l’incontro non porti da nessuna parte visto che Vasily Petrovyč si comporta come Volodymyr Zelens’kyj nei confronti di Mosca: si rifiuta di trattare. Il Presidente continua ad insistere che non gli serva una guardia del corpo, dando per scontato che la gente lo ami unicamente perché lo ha eletto, anche se c’è in corso una pesante campagna fiscale. Se volesse aiutare davvero l’uomo che ha licenziato senza alcun riguardo, potrebbe cercargli un altro impiego, fargli fare la guardia del copro di qualcun altro. Ma no, non lo fa. E al povero Tolja non resta che ascoltare tutto in completo silenzio. Anzi, si offre persino di dargli un passaggio verso casa, ma Vasily Petrovyč rifiuta, per prendere un taxi dalla stazione lì vicino a loro. Peccato che si ritroverà a doverci ripensare, visto che tutti i taxisti lì presenti, armati di bastoni, ferri e mazze (prese dove, poi?) si mettono ad inseguirlo.

Ma l’atteggiamento ipocrita del Presidente non si ferma qui. Prendendolo sulla sua auto, Tolja gli ha appena salvato la vita e lui limita solo a riassumerlo, senza nemmeno ringraziarlo o ad ammettere che ha sbagliato a credere di essere amato. Per distrarsi dal pericolo appena scampato, o dal silenzio di Tolja, Vasily Petrovyč domanda se può accedere la radio e la guardia del corpo riassunta acconsente. Appena l’accende, il Presidente sente una pubblicità sulla campagna fiscale, sottoforma di canzoncina country. Allora, spegne immediatamente la radio e comincia a lamentarsi: «Non ci posso credere, è assurdo! Ho detto qualunque cosa, tranne le canzoncine country. E loro l’hanno fatto ugualmente! Odio le canzoncine country. A te piacciono? Non ci credo, Tolja!».

Di solito, un Presidente non deve badare a ciò che piace alla sua persona, ma a ciò che è più giusto e opportuno fare per il proprio Paese. E poi, nello scorso episodio, non aveva lasciato la campagna elettorale al Ministro della Cultura, Andriy Volodymyrovyč?

Se lascia gestire le cose agli altri, perché si stupisce se c’è qualcosa che non gli piace?

Misteri della politica, se così li possiamo chiamare…

 

– 10 continua

 

 

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