Monsignor Luigi Stefani per Firenze fu un simbolo: simbolo della fede e dell’obbedienza, simbolo del coraggio e dell’abnegazione.
Era nato a Zara nel 1913 e fu segretario del Vescovo di quella città, testimone dell’olocausto del popolo dalmata (alcuni suoi seminaristi – era anche lui studente e, nello stesso momento, insegnava ai più giovani – furono evirati e, con i genitali in bocca, e una corona di spine in capo, ancor vivi, furono “infoibati” dai prodi partigiani comunisti di Tito); nella Seconda Guerra Mondiale fu cappellano militare della Divisione Tridentina, orgoglioso del suo “cappello alpino”, e arrivò, esule, a Firenze nel 1945 dove fu nominato dal Vescovo Elia Dalla Costa Cappellano dell’Arciconfraternita di Misericordia di Firenze, dove ha prestato servizio per oltre trent’anni, insegnando, contemporaneamente, prima Religione all’Istituto Tecnico Agrario delle Cascine e, quindi, come insegnante di lettere all’Istituto di don Gnocchi.
Si legge in una breve biografia di don Stefani: «Dalle operazioni belliche dei fronti albanese, montenegrino e croato, torna in Dalmazia all’isola di Arbe, ove svolge opera di cappellano militare presso il locale Presidio. Qui il Comando tedesco ha installato un grande lager, per i prigionieri politici e non, donne e bambini compresi. Le inumane condizioni di vita che costringono tante creature a una convivenza piena di stenti, di malattie, in uno stato di privazioni e di disagio per molti insuperabile, coinvolgono questo generoso cappellano militare in un nuovo grande slancio d’amore e di passione. Egli si cala in mezzo alle loro sofferenze e al loro dolore con coraggio e abnegazione: affronta e supera divieti e restrizioni, sfida minacce di morte che gli pervengono dal Comando tedesco, portando ogni sorta di aiuto morale e materiale.»
Con la stessa pietas, con la stessa sollecitudine e cura, con lo stesso amore con cui aveva chiuso gli occhi ai soldati italiani, ai quali aveva portato il Cristo, come Viatico per l’ultimo viaggio; con lo stesso fraterno affetto con il quale aveva raccolto le ultime volontà dei ragazzi con il cappello alpino che se ne andavano in Cielo, ora assiste, sempre nel nome del suo Cristo, questi “fratelli” che avrebbero dovuto essergli nemici… c’è chi lo ricordava sempre in giro per l’isola con due grandi valigie pregando e convincendo famiglie di negozianti locali a farsi dare cibo e mezzi di sostentamento. Quando arriva don Luigi, il cappellano militare, con la penna in capo, i ragazzi gli corrono incontro e gli fanno festa, ovunque lui porta del cibo o dei vestiti, quando può; un sorriso, un abbraccio, una parola di conforto, sempre.
Successivamente, a guerra finita, dopo che il nostro cappellano militare, da esule, ha abbandonato la sua amata terra, il Governo juguslavo gli offre un riconoscimento, una sorta di decorazione, dopo che centinaia di persone avevano testimoniato l’opera del sacerdote dalmata nel Campo di Arbe… ma lui la rifiuta, ha ancora la visione negli occhi di quei suoi seminaristi infoibati e le migliaia e migliaia di persone che erano state massacrate. Insomma, morti di serie B perché italiani, perché trucidati dai comunisti di Tito…
Ricordo che la cosa che più irritava don Stefani erano proprio le discriminazioni, specie quando si parlava di «Guerra civile»: onore a chi aveva combattuto dalla parte “giusta”, infamia a chi aveva combattuto dalla parte “sbagliata”. No, per don Luigi Stefani chiunque avesse combattuto, da qualsiasi parte, con onore, meritava rispetto; era un fatto di civiltà, una meta religiosa e civile del vivere e del convivere… eppure c’era allora chi discriminava (e c’è tuttavia, ancor oggi, chi discrimina) i combattenti, i poveri morti…
«Nell’anniversario della Conciliazione tra Stato e Chiesa, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Lamberto Cambi, viene approvato un odg: “I cappellani militari in congedo della Regione Toscana, nello spirito del recente Congresso Nazionale dell’Associazione svoltosi a Napoli, tributato il riverente fraterno omaggio a tutti i caduti d’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti gli eserciti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la così detta “obiezione di coscienza” che è estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”.» (Cfr. «La Nazione» 12 febbraio 1965)
A comando delle centrali del Comunismo (si sentivano già in quel periodo i prodromi del Sessantotto) iniziò da parte dei “pacifisti” il fuoco concentrico sui cappellani militari autori di un così nobile comunicato che invitava all’amore e al superamento dei rancori e dell’odio scaturiti da una Guerra civile. Sì, le vestali del pacifismo si stracciarono le vesti e il primo a far sentire i suoi “strazianti lai” fu proprio don Milani, il quale voleva mantenere il clima di odio nella società, quell’odio che, giornalmente, inculcava nelle menti e nei cuori dei suoi ragazzi, per cui scrisse la famigerata Lettera ai cappellani militari della Toscana, nella quale dirà subito facendo parlare il suo spirito di classe: «se voi (cappellani militari della Toscana n.p.c.) avete il diritto di dividere il mondo tra italiani e stranieri allora vi dirò che che (…)io non ho patria e reclamo di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria gli altri i miei stranieri.»
Quindi il priore di Barbiana parte, lancia in resta, all’attacco di quella Crociata di liberazione che «ridette la Dio alla Spagna e la Spagna a Dio» perché lui è dalla parte dei miliziani rossi che disseppellivano frati e suore, che fucilavano le statue della Madonna e del Sacro Cuore: «Nel 36 – scrive don Milani– 50.000 soldati italiani partirono ad aggredire l’infelice popolo spagnolo…»
Poi, dopo aver affermato che tutte le guerre sono ingiuste il prete rosso di Barbiana sigla: «Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra giusta…l’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra, la guerra partigiana».
Insomma l’esaltazione della Guerra civile, la cosa più orrenda che possa esistere, una guerra tra italiani, tra fratelli, piena di episodi tragici che a distanza di oltre settant’anni ancora fanno sobbalzare e rabbrividire; bisognerebbe ricordare che gli animi più elevati – e don Luigi Stefani e gli altri cappellani militari furono tra questi – si batterono per una pacificazione nazionale, per la «Concordia», quella concordia che, dal suo esilio a Cascais, invocava Umberto II, il Re che riconciliò Casa Savoia con la Chiesa dopo la macchia mortale del così detto risorgimento…
Quindi inizia a sparare (e quel che è peggio anche sui morti) quel Padre Balducci che poi troveremo nelle liste della P2 pubblicate da Mino Pecorelli (non dico chi lo fece uccidere, tanto tutti lo sappiamo) il quale non se la prende solo con i cappellani militari ma con: «i crimini bellici razzisti fatti dai cattolici» e poi -tout court – definisce la Santa Chiesa «Corpo di peccatori» e lancia le sue accuse infamanti contro il Venerabile Pio XII, il Pastor angelicus.
Un gruppo di cattolici fiorentini, allievi di Attilio Mordini, denunziò lo scolopio per «Vilipendio alla Religione» e Padre Balducci fu condannato dal Tribunale di Firenze.
Una pagina nera per certo cattolicesimo fiorentino – quello dei “preti rossi” don Milani, Padre Balducci, don Gomiti, don Mazzi, don Salucci, don Baldoni… – che un corsivo de «L’Osservatore Romano» (quando il giornale della Santa Sede era ancora cattolico) così chioserà: «alcuni che pur si dicono cattolici e che, per conformismo al non conformismo, spendono nome e parole, magari in termini di angoscia problematica, ad avallare campagne che, nell’offesa alla memoria di un grande Pontefice, hanno di mira ben altri scopi” colpendo così ben individuati circoli “rossi” fiorentini…
Nei giorni caldi della polemica tra don Milani e i cappellani militari, don Luigi Stefani raccolse la sfida di alcuni giovani del Fraterno Soccorso: «Ma Lei don Luigi che parla di perdono, sarebbe capace di “perdonare” don Milani, di andarlo a trovare, di incontrarsi con lui?.. e don Stefani rispose ai ragazzi che non c’era niente da perdonare perché, se anche c’erano state offese, lui le aveva già dimenticate e ben volentieri sarebbe andato a Barbiana ad abbracciare don Milani…
Con i due personaggi di cui ometterò i nomi (e che lo avevano malconsigliato) partì per Barbiana con la sua «850» e che cosa poteva portare un professore di scuola ai ragazzi di don Milani (anch’esso proclamatosi Maestro) se non lapis, penne, quaderni, album, matite… ? Insomma quello che oggi si chiamerebbe «materiale didattico» e caricò il tutto sulla sua macchina insieme a provviste varie come pasta, olio, formaggio, salumi etc. (i ragazzi di Barbiana rimanevano a colazione e cena dal priore)
E così si presentò a don Milani che era a far scuola con i suoi ragazzi: «Guardi don Milani, io sono don Luigi Stefani, dopo le vicende di questi giorni, dopo le polemiche, vorrei da fratello nel sacerdozio, abbracciarla, stare con lei, con i suoi ragazzi, dimenticare tutto ciò che è stato detto…»
Trasale don Milani e ammicca beffardo: «Vedete ragazzi? Avete davanti a voi il capo dei cappellani militari fascisti…ora fatevi spiegare chi sono i suoi padroni…vedete, lui è uno che portava a morire al fronte i figli dei poveri…» e giù un fiume in piena di offese e di sarcasmi, di classismo da quattro soldi. Don Luigi è davanti a lui, in talare, come il suo giudice, sta lì a prendersi le pesanti offese,f ermo davanti a Caifa che gli sta intentando un processo popolare umiliante, ingiusto, di fronte a sei o sette ragazzi che ora hanno smesso di ridacchiare, forse colpiti dalla compostezza di don Stefani… ora stanno muti, in silenzio, attoniti… mentre l’altro, il “Maestro” continua ad insolentire: «…fatevi dire dove li portava a morire…»
Sono passati soltanto pochi minuti e son sembrati ore di angoscia. Il processo popolare è terminato e il “pacifista” attende, invano, una qualche reazione dell’altro, “il violento”, che non fa parola: va alla macchina, scarica in chiesa tutto quello che avrebbe voluto consegnare nelle mani del priore e dei ragazzi e, prima di partire, si raccoglie in preghiera, in ginocchio, davanti al Tabernacolo, senza odio, senza rancore, sentimenti che disonorerebbero la sua veste nera.
Qualche volta è il silenzio a parlare… e quella mattina i ragazzi di Barbiana ebbero, e non certo dal loro maestro, davvero una bella lezione: la lezione del Vangelo!
1 commento su “Quando Monsignor Stefani tenne lezione di Vangelo ai ragazzi di don Milani”
Quanto avrei da aggiungere, di inedito, allo scritto dal Prof. Pucci Cipriani! Adolescente a Firenze, negli anni post- Concilio, seguivamo, credo per istinto, Don Stefani che diceva la Messa tradizionale nella Cappella della Misericordia, in Piazza Del Duomo. Non eravamo in tanti, ma guardavamo con convinzione ed entusiasmo a questo Sacerdote che rappresentava per noi, un punto fermo ,dopo lo sbalestramento subito dai giovani che avevano frequentato fino a poco prima, una Chiesa che sapeva dare delle risposte , una Chiesa in cui non ci sentivamo improvvisamente estranei. Ricordo: Don Milani, Don Mazzi, i preti operai all’Isolotto, con le loro tematiche falsamente rivoluzionarie (Gesù e solo Gesù aveva insegnato ad amare il prossimo). E poi Padre Balducci: altro elemento problematico perché molto ben conosciuto dal momento che, guarda caso, era professore di liceo di mio fratello! E tanto altro ancora, fino al mio matrimonio con un profugo istriano che mi ha confermato in modo drammatico le esperienze avute da Don Stefani nella sua stessa terra di provenienza. Solo Quando Don Stefani è morto ho potuto collegare le due cose. Questo vuole essere anche un grazie A Don Stefani per quanto ha fatto nell’anonimato più assoluto ed anche un grazie a Pucci Cipriani per avermi dato l’occasione di ricordare quei periodi che erano belli per la giovinezza, ma pieni di problematiche spirituali, decaduti come eravamo a figli di grado inferiore. Ed ora gli anni presentano il conto. Questa Chiesa non ha più niente da dire…. specie ai giovani!!